E’ la domanda che ci poniamo tutti: “Quando grazie ai vaccini l’Italia potrà ripartire?”. L’ipotesi più plausibile è quando il Covid ucciderà meno, diventando paragonabile all’influenza stagionale, passando cioè dagli undici decessi su mille infetti, a uno. A quel punto gli ospedali saranno in grado di gestire il virus insieme all’attività di routine, senza dover rimandare per mesi, e per milioni di persone, interventi chirurgici e visite. Con le conseguenze che conosciamo e di cui pagheremo il prezzo in un futuro molto prossimo. Infatti, oggi i pazienti contagiati occupano oltre il 40% dei posti letto in nove Regioni, e superano il 50% delle terapie intensive in Emilia-Romagna, Lombardia, Umbria, Marche e nella Provincia autonoma di Trento. Ebbene, sulla base dei calcoli elaborati con un modello matematico dal ricercatore Matteo Villa dell’Istituto per gli Studi di politica Internazionale (Ispi) in esclusiva per Dataroom, la data nella quale si può raggiungere una letalità del Covid, stimata senza vaccini all’1,15%, in linea con quella dell’influenza stagionale, che è dello 0,1%, si colloca intorno al 25 giugno. A queste percentuali si arriva attraverso studi internazionali che si basano sui test sierologici e che dunque tengono conto di tutte le persone che si sarebbero contagiate, anche se non hanno fatto il tampone (diverso è il calcolo dell’Iss che tiene conto solo degli infetti accertati e, dunque, riporta un tasso più alto). Per capire quanto sia più realistico puntare a un abbassamento della letalità, anziché prendere in considerazione l’immunità di gregge, occorre spiegare perché quest’ultima è un’aspirazione poco realizzabile.
L’immunità di gregge
L’immunità di gregge è raggiunta quando grazie a una sufficiente percentuale di persone vaccinate si riesce a bloccare la circolazione del virus. Se avessimo un vaccino con efficacia contro il contagio al 100% e una copertura a lungo termine, tenendo conto della velocità di diffusione del virus con un R0 (quante persone un infetto a sua volta contagia) tra 2,5 e 3,5, il risultato si otterrebbe vaccinando il 60–72% della popolazione. Non è però questo il caso: i vaccini Pfizer e Moderna hanno un’efficacia contro il contagio del 95%, J&J del 72% e AstraZeneca, a seconda delle stime, del 62-82%. Tenendo conto di quest’ultimo parametro, l’immunità di gregge si potrebbe ottenere solo vaccinando almeno il 97% della popolazione: una percentuale irrealistica, anche considerando che c’è chi non vuol fare il vaccino. In più c’è la variante inglese che fa crescere l’R0 a 4,5 e con ogni probabilità aumenta la letalità del virus. Infine, non sappiamo ancora quanto durerà l’immunità nel tempo. Messe insieme tutte queste variabili è possibile capire, come sostengono gli esperti da tempo tra cui l’immunologa Antonella Viola, perché l’immunità di gregge se non un miraggio sia quantomeno un’incognita. Altra cosa invece è l’immunità di massa, cioè riuscire a proteggere l’80% della popolazione vaccinandola, traguardo a cui il commissario per l’emergenza Francesco Paolo Figliuolo vuole arrivare entro il mese di settembre. Nel frattempo la convivenza con il virus diventerà meno dannosa perché il progredire delle vaccinazioni ne abbasserà la letalità. E con strategie vaccinali corrette si può raggiungere l’obiettivo di ridurre la letalità di Covid-19 a quella dell’influenza ben prima del prossimo autunno. Vediamo come e perché.
Di quanto s’è abbassata la letalità?
Iniziamo considerando la categoria degli 80-89enni in Italia: per loro la letalità di Covid-19 senza vaccino è del 7,3% e sono 3,6 milioni di persone. Il numero di vaccinati l’8 marzo era di 990.000, la prima dose ha effetto più o meno dopo 2 settimane, poi va fatto il richiamo per aumentare e prolungare l’efficacia del vaccino. Bene, oggi 22 marzo, con una percentuale di immunizzati con prima dose del 27,5%, la letalità è scesa al 5,3%. Naturalmente la letalità cambia a seconda della fascia di età: fino a 39 anni è già praticamente zero (al netto, ovviamente, delle specifiche fragilità individuali), fino a 49 anni è di 1 su 1.000 contagiati. Nella fascia tra i 50 e i 79 anni, a causa dello scarso numero di vaccinati, la letalità si è ridotta solo di poco, mentre per gli over 90, è già scesa dal 12,8% senza vaccino all’ 8,2% di oggi. Continuando di questo passo, la letalità diventerà simile a quella dell’influenza il 25 giugno, anche utilizzando la stessa strategia vaccinale usata finora, cioè vaccinando anche chi appartiene a classi di età non molto a rischio (docenti, forze di polizia, amministrativi). Per quella data saremo arrivati a coprire con la prima dose il 53% della popolazione, ovvero 31,9 milioni di italiani. Ma questo scenario è possibile solo a condizione che Pfizer, Moderna, AstraZeneca e da aprile J&J rispettino i termini di consegna, che le diffidenze su AstraZeneca si dissolvano definitivamente, e che il piano del commissario straordinario Figliuolo proceda passando rapidamente dalle 130 mila prime dosi iniettate a metà marzo, alle 300 mila entro fine aprile (che diventano 500 mila inclusi i richiami).
Strategie vaccinali e scenari
Scenario due: non arrivano tutti i 52 milioni di dosi attese tra aprile e giugno. Se procediamo nello stesso modo, spartendo cioè i vaccini fra fasce di età e professioni, potremmo abbattere la letalità di Covid-19 e farle raggiungere quella dell’influenza solo a metà agosto. Se invece cambiamo rapidamente strategia, utilizzando bene i vaccini ricevuti e dirottando le dosi disponibili sulle categorie più fragili e i malati gravi, possiamo mantenere l’obiettivo, e addirittura anticiparne la data al 20 giugno. Questo nonostante si abbassi di molto la percentuale di vaccinati, ipotizzando un taglio delle forniture e dunque delle somministrazioni del 50% tra aprile e giugno.
Decessi evitati ed evitabili
La dimostrazione sta nelle conseguenze prodotte dal ritardo con cui è partita la campagna vaccinale per gli over 80. Fino a oggi il motivo non è tutto imputabile al taglio delle dosi consegnate dalle case farmaceutiche, ma soprattutto alle scelte compiute finora. Molti di noi conoscono ricercatori universitari sotto i 40 anni vaccinati, nonostante in quella fascia le complicanze da Covid siano praticamente inesistenti, ed è noto che i docenti non mettono piede in università da quasi un anno, e passeranno ancora mesi prima di fare lezione in presenza. Hanno ricevuto il vaccino gli amministrativi di Asl, e giovani psicologi che fanno il telelavoro. Allo stesso tempo molti di noi hanno genitori 85enni ancora in attesa. Finora la categoria fra i 70-79 anni è praticamente rimasta esclusa, pur avendo un rischio di morire importante (letalità al 2,8%). In questa fascia i vaccinati con la prima dose l’8 marzo, e dunque a oggi protetti, sono soltanto poco più di centomila, cioè il 2,9%. Sta di fatto che in totale, dall’inizio della campagna vaccinale, secondo l’Ispi grazie alle vaccinazioni abbiamo evitato 600 morti. Potevano essere 1.700 se ci fossimo concentrati da subito sugli over 80: al 19 febbraio ne avevamo vaccinati solo il 6%, mentre a parità di dosi ricevute la Germania era già al 22% e la Francia al 23%. La denuncia fatta sul Corriere il 25 febbraio stimava che fino ad allora circa 800 mila dosi erano state distribuite agli uffici invece che agli anziani, al contrario degli altri principali Paesi europei. Oggi anche l’Italia ha accelerato, dimostrando che vaccinare gli over 80 in rapidità sarebbe stato possibile farlo da subito, anziché attendere un mese e mezzo.
L’andamento delle ospedalizzazioni
Ridurre la letalità non è solo un imperativo etico, ma è anche la condizione indispensabile per una svolta, perché riduce le ospedalizzazioni. Ispi calcola che quando la letalità (e dunque la pericolosità) di Covid scende agli stessi livelli dell’influenza, anche i ricoveri crollano di circa il 65%, e quelli in terapia intensiva del 75%. E solo a quel punto, con gli ospedali gestibili, anche il Paese può ripartire in sicurezza, riaprendo. Con tutte le cautele del caso, certo, perché le incognite continueranno a essere tante. Per uscire tutti insieme dall’emergenza dobbiamo proteggere da subito le fasce più deboli.
di Milena Gabanelli e Simona Ravizza
Fonte: Corriere della Sera, 22 marzo 2021