In epoca di coronavirus, e conseguente pandemia che ha sconvolto le nostre sicurezze e certezze, è opportuno e lecito, in quanto medici, fare qualche riflessione e porsi qualche domanda. La prima innanzitutto apre uno scenario globale: siamo sicuri che la comunicazione scientifica e forse anche la formazione stessa del medico, si siano dimostrate davvero efficaci?
Se è vero, come si legge in letteratura, che “il medico è il professionista della medicina che si occupa della salute dell’uomo, prevenendone, diagnosticandone e curandone le malattie”, allora è certamente vero che questi dovrebbe avere un rapporto stretto con il suo paziente. Dovrebbe osservarlo, visitarlo, prescrivergli e valutare una serie di esami. In aggiunta, dovrebbe aggiornarsi, leggere riviste scientifiche e cercare di capire come applicare a quel suo paziente specifico una serie di conoscenze scientifiche, anche riportate da colleghi che hanno già valutato casi simili e danno suggerimenti su come affrontarli o che certificano il fallimento di una prassi terapeutica.
In una situazione di stress del sistema sanitario, come durante una pandemia, questo non funziona, questo non è, infatti, successo.
Nel caso di coronavirus è sembrato che la classe medica partisse da zero, che la medicina, e la prassi clinica non avessero conoscenze sulle quali fare riferimento. Eppure, ad esempio, che esistesse uno stretto rapporto tra infiammazione, microangiopatie con danno dell’endotelio dei vasi sanguigni e coagulazione è notizia medica nota da moltissimi anni. Non solo, in anni recenti, si è anche capito attraverso quali molecole questo cross-talk si attui e che terapie si dovrebbero utilizzare. Tali informazioni sono contenute nelle più prestigiose riveste mediche (Critical Care Medicine 2010, Thrombosis Research 2017, Circulation Research 2016) facilmente reperibili nelle banche dati delle pubblicazioni scientifiche quali Medline. Bastano un PC o uno Smartphone, e pochi minuti di consultazione.
Come spesso accade, tutta l’informazione, anche quella scientifica, è già a disposizione, ma è difficile sapere cosa cercare.
Oggi le pagine dei giornali risuonano di paroloni scientifici quali: citochine infiammatorie (Tumor Necrosis Factor, interleuchine), cascata coagulativa, trombi, endotelio, fibrina, D-Dimero, eparina a basso peso molecolare… tutti nomi e concetti già noti come molecole coinvolte in questo tipo di fenomeni e come terapie possibili. E invece si è fatta molta confusione fra terapia della infezione e quella delle complicanze.
La fortuna ha voluto che qualche Collega, più consapevole di altri, abbia fatto tesoro di queste conoscenze e le abbia applicate in emergenza alla pratica clinica. In conclusione, però, l’analisi dei risultati ottenuti in questo periodo di pandemia induce a rispondere che l’informazione e la politica non hanno funzionato al meglio. La scienza e la letteratura, infatti, dicevano ben altro…
Indubbiamente abbiamo fatto passi da gigante nella diagnostica, nei materiali e nella terapia di alcune malattie, ma è stato sufficiente che si presentasse una patologia meno nota per mandare il sistema in tilt. Non è stata una debacle totale grazie all’eroismo e allo spirito di abnegazione dei Colleghi che in molti (troppi) casi hanno pagato con la malattia, se non con la loro vita. E anche per questo occorre valutare con spirito critico e onestà intellettuale la situazione della sanità, in questo periodo e in questo Paese.
Oggi il medico dedica circa tra il 70 al 80% del suo tempo alla parte burocratica e solo il rimanente alla parte clinica, al paziente.
Per aggiornarsi, poi, deve dedicare il tempo che gli altri, invece, dedicano al riposo. Recenti studi, infatti, realizzati dalle più importanti sigle sindacali/professionali dei medici (Anaao-Assomed, CIMO), hanno dimostrato che c’è un trionfo della “medicina della carta” e della “la zavorra” burocratica. Oggi il medico trascorre la maggior parte del suo tempo a mettere timbri, firme e crocette, invece di dedicarlo a capire il paziente.
Per fortuna ci sono le linee guida sui percorsi diagnostico/terapeutici di quasi tutte la malattie note. Esse sono considerate, da molti colleghi e politici, come la Bibbia dei medici, il giusto riferimento. Ma esse hanno molti limiti. Non sono un “punto di arrivo” ma solo il “punto di partenza”. Forniscono al medico un orientamento di minima. E’ poi il professionista preparato che deve prendere in carico e in cura il singolo paziente/malato, valutandone i segni, i sintomi e le risposte terapeutiche. La scienza ci indica che siamo tutti diversi, le linee guida ci obbligano a essere tutti uguali.
Inevitabile porsi qualche domanda sulla formazione e la scelta dei nuovi medici. I futuri medici non vengono scelti per attitudini o talenti particolari verso il mestiere. Oggi vengono scelti attraverso quiz che sono assai poco specifici per chi si avvia alla professione medica. Chi dovrà gestire la salute non è scelto in base alla sua capacità di ragionare e porre domande, soprattutto quelle necessarie e giuste.
La pandemia da coronavirus ha fatto tanto male, ma ha fatto anche capire i punti deboli di una sanità malata. Sorge la speranza che vengano attuate al più presto adeguate azioni correttive e preventive. Le recentissime Guidelines dello National Institute of Heath (NIH) americano sono in questo senso una lezione di vita, di scienza e di saggezza per tutti noi, medici e professionisti della informazione. Ma anche in questo caso chissà se tutti vorranno leggere correttamente…
Prof. Francesco Dioguardi e dott. Evasio Pasini