Tre domande a … Francesco Blasi Professore di Medicina Respiratoria – Università degli Studi di Milano
L’influenza può comportare infezioni batteriche secondarie, come le infezioni da pneumococco che portano a polmoniti gravi e in casi estremi a setticemie? Se sì, quali sono i meccanismi?
Tutte le infezioni virali hanno un’attività nei confronti dell’albero respiratorio che induce un’alterazione delle difese locali, con un danneggiamento a carico dell’epitelio che riveste i bronchi. Questo facilita l’adesione dei batteri alle vie aeree profonde. Normalmente tutti noi ospitiamo in bocca una flora batterica che include lo Streptococcus Pneumoniae e altri patogeni che vivono in una sorta di habitat innocuo. Quando interviene un’infezione virale si altera tale situazione di equilibrio tra ospite e batterio e la lesione a carico dell’albero respiratorio induce la penetrazione dei batteri. In particolare, l’influenza è associata allo Streptococcus Pneumoniae e allo Staphylococcus Aureus. Ciò è noto sin dalla pandemia spagnola dei primi del ‘900, in cui gran parte delle polmoniti non erano virali, ma batteriche, e lo pneumococco era uno dei batteri principalmente implicati. Possiamo quindi dire che esiste sicuramente una correlazione tra infezioni virali e infezioni batteriche. Anche nel corso dell’ultima pandemia influenzale di pochi anni fa gran parte delle infezioni profonde era legata alle infezioni batteriche.
Quali sono le situazioni di maggiore vulnerabilità di cui lo pneumococco approfitta?
E’ noto che i picchi di incidenza della polmonite nella popolazione generale sono nell’età infantile e nell’età avanzata. L’infezione da pneumococco tende ad essere più presente dopo i 50 anni, oltre che in casi particolari come quelli di pazienti con immunocompromissioni importanti. Questi ultimi sono più soggetti ad infezioni, incluse quelle derivate dallo Streptococcus Pneumoniae.
Quando parliamo di pazienti anziani ci riferiamo solitamente a persone over 65, una soglia convenzionale che coincide con l’età della pensione, ma nella realtà dei fatti l’infezione da pneumococco tende a crescere dopo i 50 anni e tale curva continua a salire con l’avanzare dell’età, motivo per cui un 85enne presenta un rischio maggiore rispetto a un 65enne.
Perché accade tutto questo? Nelle fasce d’età considerate il sistema immunitario presenta quelle che possiamo definire “deficienze”: nel bambino le difese sono ancora immature, mentre nell’anziano si verifica una senescenza, ovvero una riduzione delle risposte immunitarie locali e un rallentamento di quelle generali. Questo predispone ad un maggior rischio di infezioni, incluse quelle da pneumococco.
Gli anziani e le persone affette da patologie croniche sono quindi maggiormente esposti al rischio di polmoniti e sepsi?
Nel caso di soggetti oltre i 50 anni, in cui sono presenti ulteriori fattori predisponenti come le malattie croniche cardiovascolari e respiratorie, ad esempio bronchitici cronici, diabetici, cardiopatici, andiamo incontro più facilmente a infezioni profonde, e quindi a polmonite. Quando le risposte immunitarie sono alterate, il rischio di sfociare in setticemia è ovviamente più alto, quindi nei pazienti anziani e con comorbilità cardio-respiratorie o epato-renali la prevenzione congiunta anti-pneumococcica e anti-influenzale raggiunge il massimo del beneficio.