Un tema che da sempre affascina è l’esplosione di imprenditorialità che accompagna la nascita di nuove tecnologie o la disponibilità di nuove infrastrutture.
Affascina l’esistenza di una sorta di moltiplicatore dell’innovazione, che fa sì che tecnologie e infrastrutture rappresentino lo stimolo, o anche semplicemente la scusa, per ripensare i modi in cui fare le cose, organizzarsi per farle e rapportarsi con il contesto esterno: per mettere in campo cioè business model in grado di impattare – sulla nostra vita e sull’organizzazione dell’economia e della società – in una misura amplificata rispetto a quanto immaginabile a priori.
La digitalizzazione (digitization), in atto da più di mezzo secolo ma fortemente acceleratasi nell’ultimo decennio, è una sorgente quasi inesaurabile di nuovi business model, che portano in taluni casi alla disruption di quelli esistenti, per la capacità di fornire funzionalità simili a costi minori (WhatsApp che mette fuori mercato gli sms) e/o con caratteristiche qualitative superiori (Booking o Expedia che mettono fuori mercato le agenzie di viaggio); portano in altri a un duro confronto (fra l’ecommerce ad esempio e la distribuzione tradizionale), con la possibile nascita di modelli ibridi su entrambi i versanti (Alibaba e Walmart che acquisiscono rispettivamente un grande distributore cinese e una startup operante nell’e-commerce); possono sconvolgere gli equilibri di filiera, spostando il potere contrattuale – e quindi la maggiore capacità di creare valore – a monte o a valle (Amazon che ruba margini ai grandi editori internazionali con la sua posizione dominante nella distribuzione e il suo quasi-monopolio negli ebook).
La trasversalità della digitalizzazione, che la fa spesso paragonare all’energia elettrica, e la sua capacità di interconnessione permanente (di siti, persone e cose) fanno sì da un lato che essa generi business model innovativi in tutti i comparti dell’economia e dall’altro che le imprese digitali abbiano un portafoglio di business spesso molto composito (Apple è ad esempio presente negli smartphone e nei PC ma anche nella vendita di app piuttosto che nei pagamenti) e siano frequentemente in competizione fra loro (Alphabet-Google e Facebook ad esempio per il digital advertising). La varietà dei comparti ove le imprese digitali operano fa anche sì che esse estendano talora la loro presenza – integrandosi a monte o a valle – in ambiti più tradizionali (Amazon ad esempio nella logistica e non solamente per usi propri).
La forza disruptive dei modelli spesso si scontra con la normativa e con gli interessi costituiti esistenti: di qui la tendenza dei nuovi attori (Uber e Airbnb ad esempio) a eludere le regole, la reazione talora scomposta di chi rischia di uscire dal gioco e gli interventi della politica a favore del nuovo o a protezione dell’esistente.
L’innovazione digitale, soprattutto se radicale e in sinergia con altri fattori quali la globalizzazione, può anche avere – almeno in un orizzonte di breve-medio termine – ricadute sociali pesanti. La riorganizzazione in atto del manufacturing e l’introduzione di software sempre più sofisticati e intelligenti nelle attività professionali hanno ad esempio il doppio effetto di impattare negativamente sui livelli occupazionali e di squilibrare la distribuzione del reddito a sfavore della classe media, con conseguenze politiche già ampiamente visibili. (prof. Umberto Bertelè)