Gli approfondimenti

Pubblicato il 16 Dicembre 2014 in

BUÑUEL, CINEASTA MESSICANO

In 18 anni, dal 1947 al 1965 Buñuel gira in Messico 21 film (su 32 totali): dunque oltre i due terzi. Il decennio dei ’50, in particolare, è il più fecondo con 16 titoli tra cui vertici assoluti come I figli della violenza (Los olvidados), Él (Lui), Nazarín, e titoli importanti come Cime tempestose (1953) ed Estasi di un delitto (Ensayo de un crimen). Del decennio fanno parte anche un paio di produzioni franco-messicane – La selva dei dannati e L’isola che scotta – e due produzioni indipendenti Usa-Messico: Robinson Crusoe e Violenza per una giovane, quest’ultimo con la sceneggiatura di Hugo Butler, vittima della “caccia alle streghe” di Hollywood.

Ormai, grazie a studi approfonditi, il periodo messicano ha avuto il giusto riconoscimento nella parabola artistica buñueliana e nessuno parla più dei film di questo periodo con sufficienza o trascuratezza. Sono capisaldi del cinema mondiale, al pari dei film surrealisti d’avanguardia o delle grandissime opere della tarda maturità girate in Europa.

Il decennio dei ’50 è anche quello della massima espansione planetaria del cinema come spettacolo di massa. Anche da qui viene l’importanza di queste pellicole che, certo, nascono ai margini dei grandi circuiti culturali ed economici del pianeta (Nordamerica ed Europa), ma che trovano un terreno fertile proprio nella specificità del contesto socioculturale del paese in cui nascono e a cui sono destinate. Vero che, in molti casi, le radici sono lontane (per esempio Cime tempestose è un soggetto a cui Buñuel aveva lavorato fin dagli anni ’30), ma la loro “messicanizzazione” è tutt’altro che un impoverimento. Nel senso che il regista sa trarre dal luogo in cui opera quei valori aggiunti che fanno del film un’opera profondamente e intensamente buñueliana.

Sfatiamo alcuni luoghi comuni

Si è detto spesso che gli attori messicani non sono all’altezza dei “divi” americani ed europei. Niente di più falso. Alcuni, come Fernando Soler (El gran calavera, La hija del engaño, Susana-Adolescenza torbida), Claudio Brook (Simón del desierto, Violenza per una giovane, L’angelo sterminatore), Arturo de Cordova (Él) sono grandi interpreti, sempre contornati da una buona schiera di ottimi caratteristi. Stesso discorso per alcune grandi signore dello schermo: Silvia Pinal (Viridiana, Simón del desierto, L’angelo sterminatore) Lilia Prado (Subida al cielo, La ilusión viaja en tranvía, Cime tempestose), Irasema Dilían (Cime tempestose), Rita Macedo (Estasi di un delitto, Nazarín), Marìa Felix (L’isola che scotta).

Altro luogo comune: L’apparato produttivo rudimentale rispetto alla perfezione delle major hollywoodiane. Anche questo non è del tutto vero. Negli anni ’50 l’industria cinematografica messicana non è inferiore ad altre anche se, questo sì, poco nota fuori dai propri confini (come succede oggi per l’India e Bollywood).

Ancora: Buñuel costretto a lavorare in tempi stretti e con budget ridotti. Falso: se si prendono i dati della produzione messicana nei ’50 si vede che le riprese della quasi totalità delle pellicole (anche di registi importanti come Emilio Fernandez) durano al massimo due settimane e i budget di cui Buñuel dispone non sono poi così male se, per esempio, un film come Subida al cielo (che fa inorridire per la pochezza degli “effetti speciali”) costò oltre un milione di pesos a fronte di budget correnti di poco superiori alla metà (600mila pesos). Vero che Buñuel si lamenta (a posteriori) di numerose “incomprensioni” con i produttori, ma si tratta di cose all’ordine del giorno nella dialettica sui set tra un genio e chi finanzia le sue opere. In tutto il mondo e per ogni forma d’arte.

Un lavoro meticoloso

Recentemente sono state recuperate le fotografie realizzate dallo stesso Buñuel per i sopralluoghi dei Figli della violenza (Los olvidados) e altri film in varie località del paese. Camuffato, con una pistola in tasca, il regista si aggirava nei sobborghi della capitale per documentarsi sul soggetto del film. Alcuni dialoghi vengono riscritti in “slang” per adattarli all’ambiente in cui sono inseriti… Insomma per questo come per altri film i documenti comprovano un serio ed elaborato processo di creazione artistica che smentisce il presunto pressapochismo dei film messicani. Il peggior nemico del Buñuel messicano è stato in realtà, in qualche caso, lo sciovinismo di una certa opinione pubblica che gli ha contestato, per esempio, la presenza di letti di ottone nelle catapecchie di legno dello stesso film o la censura preventiva sul copione di Nazarín riguardo alle condizioni di vita della popolazione nei pueblos de adobe (villaggi rurali).

Lotta per l’indipendenza

In fondo a Buñuel la cosa che premeva di più era l’indipendenza (ideologica) che in quegli anni né gli Usa – con i suoi assurdi codici etici e la politica produttiva dei generi – né l’Europa, uscita a pezzi dalla guerra, gli avrebbero lasciato. Sicuramente Buñuel preferiva lavorare in condizioni difficili e con tecnologie poco sofisticate, piuttosto che rinunciare alla propria poetica.

Nel decennio dei ’50 si colloca anche uno dei pochi testi di estetica cinematografica scritti dal regista. Si tratta della conferenza tenuta nel 1958 alla Unam (Universidad Nacional Autónoma de México) intitolata Il cinema strumento di poesia. Si tratta di un vero e proprio “manifesto” dell’arte buñueliana in cui l’autore ribadisce alcuni concetti legati all’estetica surrealista, mai rinnegati. Il punto su cui insiste maggiormente è la sproporzione tra le potenzialità del cinema (enormi, deflagranti) e le sue realizzazioni (povere e stentate). Il cinema come arma meravigliosa e pericolosa purché usata da uno spirito libero. E siccome in quegli anni l’estetica dominante nel cinema mondiale è quella neorealista italiana (esplicitamente citata attraverso gli esempi di Ladri di Biciclette e Umberto D) non deve sorprendere come Buñuel individui tra le componenti più interessanti di questa scuola l’elevazione al rango di categoria drammatica dell’atto insignificante: un caposaldo dell’estetica surrealista e una definizione che può essere posta a esergo dell’intera cinematografia del regista aragonese.

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