Gli approfondimenti

Pubblicato il 4 Dicembre 2014 in

Storia, storie e utopie

I dieci anni che vanno dal 1929 al 1939, tra la realizzazione del suo primo film, Un chien andalou, e la partenza per l’esilio, hanno una grande importanza nella vicenda umana e artistica di Luis Buñuel. Nella storia della Spagna moderna questo decennio è il più tormentato: compreso tra la fine della dittatura di Miguel Primo de Rivera (28 gennaio 1930) e l’inizio di quella franchista a conclusione della sanguinosissima guerra civile (1936-39). Di mezzo: la proclamazione della repubblica e la deposizione di re Alfonso XIII di Borbone, l’affermazione delle sinistre in due diverse elezioni (1931 e 1936) e la rivincita delle destre alle elezioni del 1933 seguite dal cosiddetto bienio negro.

Buñuel aveva lasciato la Spagna nel 1925 e si era stabilito a Parigi. Da molto tempo desiderava lasciare il suo paese, chiuso e arretrato, e immergersi nel fervore culturale delle avanguardie parigine. Qui aveva maturato due scelte decisive: nel 1926 la decisione di abbandonare la carriera letteraria per dedicarsi al cinema e, nel 29, proprio in seguito alla realizzazione di Un chien andalou, l’adesione al movimento surrealista.

Un documentarista impegnato

Tra la fine del 1930 e l’inizio del ’31 Buñuel si trasferisce a Hollywood con un contratto della Metro Goldwin Mayer che l’ha scritturato in seguito al successo dell’Âge d’or. Al suo rientro in Francia elabora alcuni soggetti (Cime tempestose da Emily Brontë e I sotterranei del Vaticano da Gide) con gli amici surrealisti Pierre Unik e George Sadoul. Costoro però, in questi stessi mesi, sono espulsi dal gruppo surrealista per la loro adesione al Pcf. La stessa sorte tocca a un altro suo grande amico, il poeta Louis Aragon. Da questo momento anche Buñuel comincia a distaccarsi gradualmente dal gruppo. A raffreddare i rapporti contribuisce anche la crescita nella stima di André Breton di Salvador Dalì con cui egli aveva rotto i rapporti in modo burrascoso durante la lavorazione dell’Âge d’or.

Sicuramente la sorte degli amici e la direzione presa dal gruppo deve aver fatto riflettere Buñuel sul senso e sul destino delle utopie nel momento in cui esse vengono a confrontarsi e calarsi nella storia. Qualcosa di simile doveva già essergli accaduto, da ragazzo, a Madrid, nei confronti dell’utopia cristiana cui aveva aderito da fanciullo con cieca irruenza, come era nel suo carattere. E il surrealismo era a tutti gli effetti un’utopia, più che un movimento artistico, per le sue prese di posizioni in campo politico, etico e morale.

Utopia è anche il marxismo verso il quale si orientano ora i suoi amici e al quale anch’egli aderisce, nel 1932, probabilmente proprio in seguito alla vittoria repubblicana nelle elezioni spagnole. Dal mutato clima politico che si è instaurato in patria derivano, tra il 1931 e il 1934, i ritorni sempre più frequenti e prolungati in Spagna.

Questo nuovo impegno politico di Buñuel sta certamente alla base del suo interessamento per lo studio di Maurice Legendre sulla realtà antropologica delle Hurdes in stretta relazione con i progetti di riforma elaborati dal governo Azaña, prima fra tutte la riforma agraria. Con il suo terzo film, il documentario Las Hurdes-Terra senza pane, Buñuel intende porsi dialetticamente a confronto con la storia del suo paese quando essa conosce la svolta più radicale degli ultimi quattro secoli: la fine della monarchia e della dittatura e la presa del potere da parte delle classi subalterne. Nel momento in cui, attraverso il suo film, individua nella religione e nel capitalismo le due principali forme di oppressione storiche, Buñuel obbliga però i realizzatori dell’utopia socialista a confrontarsi con una sfida ancora più difficile: l’emancipazione dalla schiavitù del bisogno.

La notte della Repubblica

Nel ’35 Buñuel rientra definitivamente in Spagna e lavora prima come supervisore al doppiaggio della Warner, poi come produttore indipendente presso Filmófono, una piccola casa di produzione gestita in società con l’amico Ricardo María Urgoiti. Intanto gli eventi politici si susseguono in maniera convulsa. Il 29 ottobre del ’33 è fondata la Falange Armata, spina dorsale del movimento franchista, e nel ’34 cominciano i primi scontri tra fazioni opposte finché, nel febbraio del ’36, la nuova vittoria elettorale delle sinistre, scatena la reazione dei fascisti che, sostenuti da Italia e Germania, sbarcano dal Marocco e danno inizio alla Guerra Civile con il pronunciamiento, il 18 luglio, del generalísimo Francisco Franco. Il 19 agosto, in un oliveto nei pressi di Viznar, a una decina di km da Granada, Federico Garcia Lorca viene fucilato dai falangisti.

Nel settembre del ’36 Buñuel lascia la Fimófono e torna a Parigi con un incarico diplomatico all’ambasciata della Repubblica Spagnola. Ben presto però le sorti della guerra volgono al peggio per i repubblicani. Il 26 aprile del 1937 aerei tedeschi radono al suolo il villaggio basco di Guernica, preludio alla caduta di Bilbao, e nella primavera del ’38 i franchisti lanciano un’offensiva in Aragona che, nel giro di pochi mesi, taglia in due il territorio controllato dal governo legittimo. Il 16 settembre del ’38 Buñuel, con la moglie Jeanne e il figlio Jean-Louis, si imbarca per gli Stati Uniti. È l’inizio dell’esilio. Il 28 marzo del 1939, Madrid cade in mano ai falangisti e la Guerra Civile si conclude. Il 3 settembre di quello stesso anno inizia la Seconda Guerra Mondiale. L’utopia che sembrava realizzabile è soffocata nel sangue e la storia le dà il definitivo scacco mostrando il suo volto più tragico: una repubblica democratica che muore fra l’indifferenza di tutte le nazioni e i volti scavati degli hurdanos, privi di sorriso e di futuro.

Perché nascono le utopie

L’esperienza di questi anni ha certo avuto un influsso decisivo sulla poetica buñueliana. In un’intervista rilasciata nel 1970, il regista afferma: «Il dubbio sta alla base dei miei film […] Quanto al mio pessimismo sul destino dell’uomo, in effetti, è totale». Poetica del dubbio, dunque, e radicale pessimismo sono le fondamenta dell’estetica (surrealista) buñueliana. Il dubbio sta all’opposto del dogma, della certezza assoluta, ed è figlio del caso («Il caso è il gran maestro di tutte le scelte, la necessità non viene che in un secondo momento», ha scritto il regista nelle sue memorie). Se si prescinde dal principio di un Essere supremo che determina e orienta la storia, bisogna ammettere che quest’ultima segue un corso casuale e che l’uomo non è in grado di prevederne, determinarne o governarne gli effetti. L’uomo è però consapevole di vivere in una condizione di oppressione e di schiavitù e per superare tale condizione crea delle utopie. Quando però tenta di calarle nella storia, le utopie falliscono e falliscono in primo luogo perché il tentativo di attuarle le trasforma in una fede. La fede è infatti l’esatto opposto del dubbio così come l’agire secondo un fine è il contrario del caso. Da qui, da queste antinomie ampiamente sperimentate nella propria vicenda personale e nella storia recente del suo paese, Buñuel deriva il suo pessimismo radicale: dalla constatazione del perenne scacco (échec è la parola usata da nelle memorie) che la storia dà a tutte le utopie nel momento in cui esse si trasformano in fedi. Così è stato per il cristianesimo, per il comunismo e anche per il surrealismo, quantomeno nella sua valenza etica.

 La liberazione dell’inconscio

Molti esegeti hanno letto l’umorismo e l’ironia che caratterizzano le opere di Buñuel come antidoti al pessimismo. Niente di più errato perché in esse umorismo e ironia si uniscono al pessimismo mediante il paradosso. In termini filosofici paradosso è un ragionamento che contiene in sé una contraddizione dalla quale si evince una realtà o una verità diverse da quelle che appaiono. Mediante tale artificio narrativo – basti pensare all’uso del sogno nei film dell’ultimo periodo francese – Buñuel riesce a rendere palesi quelle contraddizioni tra essere e dover essere, tra desiderio e frustrazione che la ragione cela e reprime nelle sue sovrastrutture: il rito, le convenzioni, il mimetismo sociale. C’è più Sade che Freud in questa ermeneutica giacché la liberazione dell’inconscio porta sì allo scacco della storia, ma porta anche un’insopprimibile nostalgia della purezza originale. Ed è proprio questa nostalgia della purezza originale che per Buñuel, come per Sade, rappresenta la vera e autentica matrice di tutte le utopie. Un esempio significativo a questo proposito è il dialogo sul mio e sul tuo fra Simeone lo stilita e frate Daniele nel film Simón del desierto. La scena è ispirata a un passo del Don Quijote di Cervantes (parte I, cap. XI) in cui il cavaliere dalla triste figura tiene un discorso ad alcuni pastori sull’età dell’oro dell’umanità: «Avventurosa età e avventurosi secoli quelli cui gli antichi dettero il nome di età dell’oro, non già perché l’oro, che in questa nostra età di ferro tanto si apprezza, si ottenesse, in quel tempo fortunato, senza alcuna fatica, ma perché allora, quelli che ci vivevano ignoravano queste due parole del tuo e del mio». Nel film, Daniele intavola con il santo eremita una discussione basata sul paradosso del diritto di proprietà, ma la disarmante innocenza (la purezza) di Simeone lo mette in difficoltà: «Il tuo disinteresse è ammirevole e assai benefico per la tua anima. Ma ho paura che, come la tua penitenza, non serva molto agli uomini» commenta deluso frate Daniele ritirandosi. Al che il santo stilita gli replica: «Non ti capisco, parliamo linguaggi diversi». I linguaggi, appunto, dell’utopia (Simón) e della storia.(Daniele).

 Il “doppio” e il suo significato

Un simile schema diventa ancora più esplicito nella Via Lattea in relazione al fatto che tutte le eresie rappresentate nel film hanno questo denominatore comune: riportare il messaggio evangelico alla sua purezza originaria, quella stessa che si evince nelle scene in cui il protagonista è lo stesso Gesù. I passi delle scritture scelti da Buñuel sono tra i più contraddittori del messaggio cristiano: la parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16, 1-9) e il passo di Matteo sul Messia come causa di discordia (Mt 10, 34-36: «Non pensiate che sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a gettare la pace, ma la spada ecc.). Proprio la sua natura di nostalgia della purezza originaria rende l’utopia un’istanza insopprimibile nell’uomo e per questo la storia è, allo stesso tempo, teatro di perpetue sconfitta delle utopie ma anche sorgente inesauribile di nuove utopie. E in questo rapporto dialettico tra affermazione e negazione, tra nascere e morire di utopie si muovono anche le vicende personali nel corso della singola vita umana. È stato rilevato giustamente che i film di Buñuel hanno spesso un andamento binario ovvero sono articolati sulla struttura narrativa del “doppio”: il doppio del ciclista di Un chien andalou che spara a se stesso, la doppia Séverine (del sogno e della realtà) in Bella di giorno, la doppia Conchita di Quell’oscuro oggetto del desiderio interpretata addirittura da due diverse attrici, solo per fare alcuni esempi. La tematica del doppio rappresenta dunque, nell’intera opera del regista, il tema dell’ambiguità anche nell’esistenza individuale.

 Una strada piena di ombre

Ambiguità dell’essere e scacco della storia, nelle storie narrate da Buñuel, definiscono dunque un contesto esistenziale anch’esso figlio del dubbio. La forma più compiuta e palese di questo processo, in scala storica come in scala individuale, Buñuel lo individua nella storia della Chiesa: massima forma di repressione sviluppata nel corso della storia a partire da un originario messaggio di totale liberazione, la liberazione dal male e dal peccato. Del cristianesimo c’è traccia in tutti i suoi film, sotto forma di citazioni bibliche, oggetti legati al culto, situazioni, personaggi e uomini di chiesa, incluso anche il pastore protestante in Violenza per una giovane. Una storia di violenza e follia che non termina, come ipotizzava Marx, nella fine della religione in virtù della rivoluzione proletaria, ma nella santa alleanza tra clero e borghesia che insieme scrivono, ancora una volta, sul libro della storia la parola fine alle utopie. La storia diventa così il teatro in cui tutti recitano un copione insensato, interpretano un ruolo non loro, si muovono lungo tracce indecifrabili che non li portano in nessun luogo. Come camminare su una strada deserta da un nulla verso un altro nulla. La metafora presente nel Fascino discreto della borghesia del cammino senza meta ha d’altra parte nello stesso film un tragico e ancor più enigmatico corrispettivo in un’altra sequenza che si può leggere come metafora ancor più generale della condizione umana: la sequenza del sogno del sergente, con la città dei morti in cui il giovane vaga, solo e disperato «Lungo una strada piena di ombre dove nessuno mi risponde».

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.