«Il “neo” che precede la parola realismo non si riferisce alle nuove opere rispetto a quelle di ieri, ma alla realtà, alla vita nazionale diventata oggetto, tema del cinema italiano. A ragione Ferruccio Parri vide nel primo film sulla Resistenza la nascita dello “stil nuovo”, individuò in Roma città aperta (1945) il segno di una vasta metamorfosi. Nella cultura italiana del dopoguerra, il fatto propriamente nuovo è il cinema. In essa questo rappresenta, fino a un certo momento, la più impetuosa e suggestiva forza d’urto. Parafrasando il De Sanctis – alla cui lezione tendevano registi quali Visconti – si potrebbe dire che il “verbo”, per il neorealismo, doveva essere non soltanto libertà, ma anche giustizia, democrazia giuridica e al tempo stesso effettiva. Quel cinema intendeva farci guardare in noi, nei nostri costumi e pregiudizi, nelle nostre qualità buone e cattive, convertire il mondo moderno in mondo nostro. In realtà il neorealismo ha dato pochissime opere riuscite, e molte di maniera, che si fondano su elementi meccanici ed esterni alla tendenza». (Giudo Aristarco)
Le verità di Zavattini
Cosa pensare di un personaggio che tiene una rubrica giornalistica intitolata Cronache di Hollywood senza aver mai messo piede in America? Questo paradosso, uno dei tanti e neppure il più “paradossale”, fa capire molto della personalità di Cesare Zavattini. Sceneggiatore innovativo e rivoluzionario nel cinema, scrittore, giornalista, ma anche soggettista di fumetti e cartoni animati, autore di teatro, pittore tutt’altro che disprezzabile e, alla soglia degli 82 anni, anche regista e attore nel suo La veritààààà in cui, con il camicione del matto, non rinuncia a stupire e provocare.
Negli anni del fascismo e dell’autarchia culturale, il paradosso (le Cronache) si spiega facilmente con il tentativo di svegliare la “bella addormentata”, ossia la cinematografia italiana, con l’arma dell’ironia e della provocazione. Ed ecco che Za (così si firmava), inventa una Hollywood immaginaria che è il rispecchiamento di quello che lui stesso chiede al cinema: far pensare sognando e parlare di una realtà superiore che vada oltre le apparenze del quotidiano.
Se durante il fascismo la dimensione fiabesca (o meglio: surreale e metafisica) delle storie zavattiniane rappresenta il grimaldello per uscire dalle strettoie della censura di regime e dalla pochezza culturale del paese, nel dopoguerra diventa il rispecchiamento ironico di una realtà insoddisfacente o, nel migliore dei casi, in cerca di un fine. Caso emblematico: Miracolo a Milano.
La poetica del pedinamento
L’inizio della collaborazione tra Zavattini sceneggiatore e De Sica regista avviene con I bambini ci guardano (1943), ma è nel dopoguerra che arrivano i capolavori: Sciuscià (1946, anche se Zavattini non è accreditato),
Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), Umberto D (1952) e Il tetto (1955). Con Umberto D il comune percorso artistico raggiunge l’apice. Questo film rappresenta inoltre l’esplicitazione più perfetta della poetica del pedinamento che è il contributo più robusto e originale dato da Zavattini alle teoriche del cinema. «Il tempo è maturo per buttare via i copioni e per pedinare gli uomini con la macchina da presa» scrive. Per lui la cinecamera dovrebbe seguire (pedinare, appunto) i personaggi senza alcun filtro estetico. Entrare nella loro quotidianità, degna di per sé di assurgere a forma d’arte. Secondo Zavattini solo il cinema è in grado di abbattere qualsiasi barriera tra il soggetto rappresentato e la sua rappresentazione: «Più che il come, prima colpiva la cosa da raccontare, e se questo movimento postulava l’uomo prima dell’artista, l’artista era felice di venire dopo» scrive ancora Zavattini. In altre parole l’autore deve ridursi quasi a muto testimone di una realtà già composta e che aspetta solo di essere portata sullo schermo. «La storia è stata più forte di tutti noi» conclude «Noi non abbiamo inventato nulla: le cose erano già avvenute e gli artisti le sentivano all’unisono».
Oltre alle questioni ideologiche, sono però anche i mezzi tecnici dell’epoca che rendono difficile la realizzazione di un tipo di cinema così concepito. L’intuizione di Zavattini è però sicuramente arrivata agli autori dei decenni successivi, per esempio agli esponenti della Nouvelle Vague francese. Nel frattempo le innovazioni introdotte negli anni ’60, come la camera a mano e la presa diretta del sonoro, l’hanno reso possibile.
Umberto D e Giulio A
L’uscita nelle sale di Umberto D scatena la polemica a proposito del modo in cui viene rappresentata la piccola borghesia del paese, quella classe media uscita impoverita dalla guerra e ancora incapace di trovare una forma di riscatto. La censura più forte proviene addirittura da Palazzo Chigi, la sede del Governo, per mano del giovane sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega per lo spettacolo: Giulio Andreotti, nominato da De Gasperi in quella carica dal 1947 al 1954. La presa di posizione andreottiana è passata alla storia come la lettera dei “panni sporchi che si lavano in casa”.
Sul numero 7 di Libertas, il settimanale della Dc, Andreotti scrive un articolo in cui imputa agli autori del film di aver dato un quadro negativo del paese: «De Sica ha voluto dipingere una piaga sociale e l’ha fatto con valente maestria, ma nulla ci mostra nel film che dia quel minimo di insegnamento… E se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di De Sica è l’Italia del ventesimo secolo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione». E più avanti: «Noi ci auguriamo» che in seguito il regista si ispiri a «un campo più vasto di esperienze, rammentando che ovunque ci sono rivoli di bene che, individuati, fruttificano».
L’autorevole censura (nei fatti, anche se in forma di esortazione) non resta senza conseguenze. Proprio a partire da questi anni, gli autori scelgono sempre più soggetti che hanno poco a che fare con la rappresentazione della realtà se non in una forma superficiale e manierata anche se mantengono alcune caratteristiche formali del neorealimo. Caso emblematico, la serie di Pane, amore… iniziata nel 1953 da Luigi Comencini e conclusa da Dino Risi due anni dopo.
Nel 1991 ad Andreotti viene assegnato un David di Donatello «per il contributo dal lui dato al cinema italiano». La settima arte ha proprio la memoria corta.
Il “caso” s’agapò
La prima metà dei ’50 è un periodo cruciale per le sorti del cinema italiano. Qualcuno fa finire qui il neorealismo e cominciare la Commedia all’italiana. Sempre nel 1953 avviene un episodio molto significativo, anche se poco noto e ancor meno ricordato. Sul numero 4 della rivista «Cinema Nuovo», che da un anno ha preso il posto della storica «Cinema» chiusa con la caduta del fascismo, lo scrittore Renzo Renzi pubblica nella rubrica Proposte per un film un proprio soggetto intitolato L’armata s’agapò. La storia riprende il tema del conflitto mettendo in scena la campagna di Grecia alla quale lo stesso Renzi aveva partecipato come ufficiale dell’esercito. S’agapò è infatti la parola greca che significa Ti amo e il copione immaginato verteva sul cameratismo e la fratellanza instaurata tra la popolazione locale e le truppe italiane d’occupazione. Qualcosa di molto simile a quanto verrà rappresentato nel 1991 da Gabriele Salvatores nel suo Mediterraneo. Ebbene, per la pubblicazione dell’articolo, Renzo Renzi e Guido Aristarco (in qualità di direttore della rivista) vengono arrestati e imprigionati nel carcere militare di Peschiera del Garda (in quanto ex militari) con l’accusa di Vilipendio delle forze armate. Nonostante le proteste e le manifestazioni di molti intellettuali e una mobilitazione di critici e registi al Festival di Venezia, che si svolge durante l’istruttoria, i due vengono processati e condannati. A Salvatores, 38 anni dopo, è andata decisamente meglio: ha vinto un Oscar.
Per tornare al decennio dei Cinquanta, la seconda metà conosce il cosiddetto fenomeno della Hollywood sul Tevere che a sua volta contribuisce non poco a mettere fine alla breve stagione neorealistica. Con questa allocuzione si intende l’insieme delle produzioni americane realizzate a Cinecittà con il contributo spesso determinante di maestranze italiane. Apripista è, nel 1953, Vacanze romane (di William Wyler con Gregory Peck e Audrey Hepburn) seguito da molti titoli tra cui, principalmente, kolossal di argomento storico o biblico quali Ben Hur (1959, William Wyler), Barabba (1961, Richard Fleischer), Cleopatra (1963, Joseph Mankiewicz).
Il cinema italiano deve trovare nuove strade.
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