L’intera opera cinematografica di Federico Fellini (1920-1993) può essere letta in filigrana come un’estesa autobiografia. A tratti persino dichiarata e festosamente esibita. Sempre peraltro in chiave paradossale, sarcastica e iperbolica. Gusti, affezioni, simpatie e idiosincrasie percorrono come un filo rosso i film del regista riminese con particolare rilievo proprio negli anni ‘70 e ‘80. È il caso di La città delle donne (1980), E la nave va (1983), Ginger e Fred (1985) e Intervista (1987) anche se il titolo più emblematico al riguardo è sicuramente Amarcord (1973), summa dell’universo felliniano in una Rimini totalmente ricostruita in studio.
Ma già dagli esordi, sotto l’egida di un Neorealismo che di neorealista aveva ben poco, Fellini elabora una propria poetica che rifugge la rappresentazione del reale a favore di una visione mnemonica e grottesca della vita. In ossequio al suo celebre aforisma: «Nulla si sa, tutto si immagina» dove appunto l’iperbole, la metafora, la caricatura rappresentano il legame tra l’opera filmica e il contesto sociale e culturale in cui essa si rispecchia o che rappresenta. Per questo motivo il riferimento autobiografico finisce con il prendere il sopravvento su ogni altra forma di ispirazione proprio perché i fantasmi personali del regista, resi attraverso rappresentazioni spesso stralunate, colpiscono la fantasia dello spettatore per la loro esemplarità da commedia dell’arte: caratteri la cui essenza è impressa nella maschera che mostrano, senza bisogno di alcuno di scavo psicologico. La Volpina, la tabaccaia, la fanciulla illibata, la Gradisca sul versante femminile e i “vitelloni” romagnoli sempre in caccia di avventure amorose sono le “cartoline felliniane” più ricorrenti. Insieme alla passione per il circo, per il teatro di varietà, per le ballerine di fila, le prostitute. È la cifra comune che lega film solo all’apparenza diversissimi: Luci del varietà (1950), Lo sceicco bianco (1952), I vitelloni (1953), La strada (1954), Il bidone (1955), Le notti di Cabiria (1957), La dolce vita (1960), Giulietta degli spiriti (1965) e Otto e mezzo (1963). Titolo, quest’ultimo, più emblematico della prima produzione felliniana e della sua poetica. Otto e mezzo è un film su un film che non viene portato a termine, sul senso di inadeguatezza di un artista di fronte a ciò che vorrebbe rappresentare ma che diventa per lui irrappresentabile se non nella propria immaginazione. Forma e contenuti anticipati peraltro negli stessi anni da analoghi film, più strutturati e densi di significato, come L’anno scorso a Marienbad (1960), di Resnais e Robbe-Grillet, e Il disprezzo (1963) di Jean-Luc Godard.
Estetica felliniana
Per comprendere l’estetica felliniana è rilevante anche l’affermazione dello stesso regista a proposito di uno dei due soli film di ambientazione non contemporanea da lui girati: Fellini-Satyricon (1969): «Non mi propongo certo di ricostruire con devota fedeltà gli usi e i costumi dell’antica Roma. Quel che mi interessa è tentare di evocare medianicamente un mondo che non è più. Tentare cioè di ricomporlo, mediante una struttura figurativa e narrativa di natura quasi archeologica, un po’ come fa appunto l’archeologo quando con certi cocci, o con certi ruderi, ricostruisce non già un’anfora o un tempio, ma qualcosa che allude a un’anfora, a un tempio: e questo qualcosa è più suggestivo della realtà originale, per quel tanto d’indefinito e d’irrisolto che ne accresce il fascino, postulando la collaborazione dello spettatore».
La filmografia successiva sembrerebbe interamente ricalcata su quella dichiarazione di principio: evocare medianicamente un mondo che non esiste, (ri)componendolo attraverso immagini di grande suggestione visiva e mirando al maggior coinvolgimento possibile dello spettatore. Il che non significa che la fervida fantasia del regista non raggiunga a volte vertici insuperati, come nel ritratto metafisico della Città Eterna sotto le mentite spoglie di un docu-fiction: Roma (1972). «Un grande spettacolo fantastico completamente libero da qualsiasi vincolo con realtà più o meno riscontrabili. Una favola barbarica, opulenta e atroce» aveva detto Fellini ancora a proposito del film tratto dal Romanzo Satirico di Petronio Arbitro, senza avvedersi di avere scritto in tal modo l’esergo della sua intera carriera artistica.
In cerca di un’armonia sociale
Gli anni ‘70 in Italia sono caratterizzati da un acceso confronto sociale sfociato in fenomeni terroristici (gli “anni di piombo” e la “strategia della tensione”) e da una diffusa conflittualità sui luoghi di studio e di lavoro. Non solo sull’onda del ‘68 (maggio francese e contestazione americana alla guerra in Vietnam), ma anche con sfumature autoctone dovute alla particolare struttura economica e sociale del nostro paese: poche grandi industrie e un tessuto capillare di piccole e medie imprese. Logico che in tale contesto l’armonia sociale è di estrema importanza presso una popolazione che storicamente è sempre stata portata alla contrapposizione radicale, quasi al “tifo” da stadio anche nell’agone politico.
Per quanto riguarda invece i mass media, il decennio dei ‘70 è caratterizzato in Italia soprattutto dal riassetto, avvenuto a metà del decennio, del sistema televisivo pubblico incarnato dalla Rai, l’emittente di stato, e tutt’ora in vigore nelle sue linee essenziali. Nel 1975 entra in vigore la riforma che trasferisce dal Governo al Parlamento il controllo dell’ente mediante l’istituzione della Commissione Parlamentare di Vigilanza. Viene attivata la terza rete (Raitre) che inizia le proprie trasmissioni nel 1979. La lottizzazione politica, con quote spettanti ai vari partiti in proporzione al loro peso elettorale, diventa il sistema di assegnazione degli spazi, delle nomine e delle assunzioni del personale. Prassi già esistente, ma consolidata e sancita a livello legislativo.
In Prova d’orchestra, Fellini porta sullo schermo tutti questi umori con un piccolo, breve film finanziato dalla Rai (attraverso due piccole case di produzioni, una italiana e una tedesca) il cui soggetto è sostanzialmente rappresentato dall’apologo di una sessione di prove di un’orchestra sinfonica cui assiste una piccola troupe televisiva che mostra alcune fasi della concertazione e intervista alcuni strumentisti e il direttore d’orchestra. La metafora è patente: l’orchestra simboleggia il “concerto sociale” e la bontà dell’esecuzione si ottiene solo con la sintonia, per non dire la concordia, dei singoli componenti.
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