Dal medioevo nipponico a Dostoevskij e Gorkj passando per Shakespeare. Per arrivare al Giappone contemporaneo, analizzato con spirito critico nelle sue contraddizioni. Si può condensare così la parabola artistica di Akira Kurosawa (1910-1998), regista tra i più rappresentativi del suo paese e, al tempo stesso, colui che ha saputo unire in una mirabile sintesi culture e sensibilità estremamente lontane tra loro. Regista più imitato che apprezzato, famoso per i suoi film epici e le grandi scene di battaglie eppure capace di scavi psicologici di rara finezza e di momenti lirici di alta ispirazione. Un autore completo, mai convenzionale, dalla superba capacità espressiva con i mezzi che il cinema offriva nei vari momenti della sua evoluzione tecnologica. Vero maestro nel creare, attraverso la giustapposizione delle immagini, significati simbolici e metaforici che illuminano gli autentici contenuti delle opere, al di là del narrato. Altrettanto creativo anche nell’uso della colonna sonora. Che fosse musica tradizionale giapponese, musica classica, musica leggera, dialoghi, rumori ambientali o, persino, il silenzio.
Letteratura, pittura e cinema
Ultimo di sette fratelli, figli di un militare di carriera discendente da una famiglia di samurai, Akira è un bambino timido, introverso e cagionevole. Cresce all’ombra del fratello Heigo, maggiore di 4 anni, che gli fa conoscere i classici delle letteratura russa, Shakeaspeare e i pittori delle avanguardie ottocentesche europee (Van Gogh, Cezanne…). Un’educazione in antitesi rispetto a quella paterna, basata invece su una rigida disciplina paramilitare. A 18 anni va a vivere con Heigo che, di mestiere, fa il benshi, ossia il narratore nelle sale cinematografiche dove si proiettano i film muti. Akira, che ha iniziato a collaborare con riviste e giornali come illustratore, viene così a contatto anche con la produzione cinematografica americana ed europea. Ovvero con i grandi autori dell’epoca: Renoir, Lang, Pabst, Griffith e, soprattutto, Ford per il quale nutre grande ammirazione. Nel 1933 Heigo si suicida, convinto di non avere un futuro in seguito all’avvento del sonoro. Per Akira è un trauma, superato intensificando l’attività di illustratore e pittore, sia pur tra molte difficoltà economiche. Nel 1936 risponde a un annuncio economico di uno studio cinematografico e, proprio grazie alla sua cultura polivalente viene assunto. In breve diventa aiuto regista di Kajiro Yamamoto (1902-74) con cui perfeziona le tecniche di montaggio e la scrittura delle sceneggiature.
Un samurai molto sui generis
Negli anni successivi fatica a esordire come autore perché il paese, impegnato nelle guerre di conquista in tutto l’Estremo Oriente, esige dalla sua industria cinematografica film di propaganda destinati a sostenere lo sforzo bellico. Missione quasi impossibile per questo anomalo discendente di samurai, riformato al servizio militare e iscritto alla Lega degli Artisti Proletari. Sicuramente tra i pochissimi maschi del suo paese a non aver mai sparato nemmeno un colpo di fucile in tutta la Seconda Guerra Mondiale. Il rovescio della medaglia sta però nel fatto che la commissione di censura gli boccia sistematicamente ogni progetto,
proprio perché non in linea con i dettami governativi. Finalmente arriva l’idea che abbatte il muro: portare sullo schermo la biografia del primo campione di judo dell’era moderna. Nasce così Sugata Sanshiro (1943), film che rischia di non venire mai proiettato in quanto, a riprese ultimate, i censori notano con orrore che la storia, anziché esaltare le qualità virili della nuova arte marziale, scava nell’animo del protagonista mettendone il luce soprattutto i tormenti esistenziali. Solo l’intervento del regista Yasujiro Ozu (1903-63), interpellato al proposito, evita che il primo film di Kurosawa finisca al macero. Distribuita nelle sale, la pellicola ottene invece un discreto successo che permette così al suo autore di continuare a lavorare, anche se tra mille difficoltà.
Un difficile dopoguerra
Le opere successive, coincidenti con gli ultimi anni del conflitto mondiale e il tormentato dopoguerra, vanno tutte controcorrente rispetto, prima, al revanscismo militarista e poi alle “conversioni” di comodo
seguite alla sconfitta. Non dimentichiamo che fino al 1952 il Giappone viene di fatto governato dagli americani. Tra storie di propaganda patriottica e favolette edulcorate del nuovo Giappone “democratico”, Kurosawa sceglie sempre una via alternativa: il racconto di una realtà a volte scabrosa, mai convenzionale, sempre critica rispetto alle verità di facciata che i governanti di turno tentano di imporre alle masse. Tra i titoli più rilevanti di questo periodo figurano Non rimpiango la mia giovinezza (1946), Una meravigliosa domenica (1947), L’angelo ubriaco (1948) e Cane randagio (1949). Storie di argomento contemporaneo, spesso ambientate nei quartieri popolari di Tokyo (se non nei bassifondi, con personaggi legati alla malavita) attraverso cui emerge una critica lucida e feroce del militarismo che ha portato il paese nel baratro, ma anche le profonde disparità che caratterizzano la struttura sociale del dopoguerra con la conseguente difficoltà dei ceti più umili a costruirsi una vita normale e l’incertezza del futuro per le nuove generazioni. Il tutto in uno stile personale che alla dinamica delle immagini sa unire lirismo o drammaticità in base alle situazioni con una sapientissima costruzione del montaggio e un uso creativo della colonna sonora che rimandano alle teorie e alla prassi cinematografica di Ejzenstejn.
Leone per caso
A portare Kurosawa alla ribalta internazionale è Rashōmon (1950), Leone d’Oro alla Mostra di Venezia. Film a basso costo, girato in esterni, con pochi attori e una storia “a specchi” che si riproduce varie volte sullo schermo cambiando a seconda dell’io narrante, può essere considerato film-sintesi di una serie di ricerche letterarie e teatrali che attraversano il “secolo breve”. Il regista colloca la vicenda nel medioevo nipponico, ma riesce tuttavia a raggiungere una valenza universale tanto più pregnante per l’uomo moderno alle prese con l’ambiguità dell’esperienza e la perdita di coordinate ideologiche. Film girato tra grandi difficoltà produttive, al quale nessuno credeva, ma che si colloca giustamente tra le massime espressioni della “settima arte”. Al pari dell’analogo (sul piano linguistico), ma successivo di dieci anni
L’anno scorso a Marienbad, di Resnais-Robbe Grillet, o del bergmaniano Persona, arrivato però 15 anni dopo. Con l’affermazione veneziana è l’intera cinematografia giapponese, sino a quel momento marginale ed emarginata, a imporsi come una delle più vive e interessanti del mondo. Con conseguenze positive anche per altri registi e per molti attori. Nel decennio dei ’50 Kurosawa comincia a elaborare i propri soggetti desumendoli da famose opere letterarie (L’idiota, 1951, da Dostoevskij, I Bassifondi, 1957 da Gorkj) o teatrali (Trono di sangue, 1956, da Macbeth di Shakespeare) calandoli nel contesto storico del proprio paese. Per altro verso non abbandona l’analisi della società contemporanea con film come Vivere (1952), Testimonianza di un essere vivente (1955), I cattivi dormono in pace (1960) che affrontano scottanti temi d’attualità come la corruzione, l’intreccio tra politica e affari, l’arrivismo, l’alienazione.
L’uomo e il suo doppio
Negli anni ’50 si colloca anche un altro capolavoro: I sette samurai (1954), replicato a Hollywood nel 1960 da John Sturges come western (I magnifici sette). La caratteristica principale del film, ambientato nel XVI sec., è il senso della fine che il regista pone in questa storia di contadini oppressi e di guerrieri senza padrone chiamati a difenderli. Attraverso la grande metafora del medioevo giapponese, Kurosawa delinea un affresco di grande modernità che attinge al senso profondo del pessimismo dostoevskiano. Altro elemento costante nel cinema di Kurosawa è il ribaltamento di segno rispetto alle regole sociali, specialmente in una realtà fortemente codificata come quella nipponica. A scardinare le certezze e i “dogmi” del vivere interviene spesso una figura anomala che spezza gli schemi. È il caso dell’aspirante samurai nel film in questione, ma anche dei due vagabondi in La fortezza nascosta (1958), del giovane ritardato mentale di Dodes’ka-den (1970), del sosia del condottiero in Kagemusha (1980) e del buffone di corte in Ran (1985), desunto dal Re Lear di Shakespeare.
Harakiri mancato
Il decennio dei ’60 consolida la fama raggiunta dal regista con opere sempre in bilico tra storia e attualità. O meglio, in cui la storia si attualizza in problematiche vicine all’uomo contemporaneo e la cronaca raggiunge una dimensione epica. È il decennio di film importanti come La sfida del samurai (1961, ripreso da Sergio Leone in Per un pugno di dollari), il suo sequel Sanjuro (1962), il noir Anatomia di un rapimento (1963), Barbarossa (1965), che riprende temi del romanzo Umiliati e offesi di
Dostoevskij, e Dodes’ka-den, che riporta Kurosawa tra gli emarginati dei bassifondi di una moderna metropoli. Concepito come una tragedia greca, con i vari personaggi che si alternano tra loro e il “coro” su una scena volutamente stilizzata, il film è un insuccesso al botteghino, nonostante le lodi della critica. Questo fatto condiziona gli sviluppi della carriera del regista, che pure figura ormai tra i cineasti di statura internazionale. A peggiorare ulteriormente la situazione subentra il fallimento delle trattative per una superproduzione nippo-americana sulla Guerra del Pacifico. Il film che ne esce è il convenzionale Tora! Tora! Tora! (1970) di Richard Fleisher, ma la delusione è tale che Kurosawa tenta di togliersi la vita. Anche il mancato harakiri, sia detto senza ironia, pone in evidenza la personalità di un autore capace di trasporre sullo schermo personaggi forti, guerrieri coraggiosi e impavidi samurai, ma il cui carattere resta quello del bambino timido e introverso che non si è mai adattato alla disciplina paterna.
Il senso del commiato
L’uscita dalla crisi (lavorativa ed esistenziale) avviene cinque anni dopo con uno dei film certamente meno personali di Kurosawa: Dersu Uzala (1975), coproduzione russo-giapponese, ambientato al principio del XX secolo in Siberia con protagonista un anziano cacciatore di una tribù autoctona. Si tratta comunque di un segnale del risveglio creativo che sfocia, nel decennio successivo, negli ultimi cinque titoli che non è eccessivo definire capolavori: Kagemusha-L’ombra del guerriero (1980), Ran (1985), Sogni (1989),
Rapsodia in agosto (1991) e Madadayo-Il compleanno (1993). I primi due chiudono l’epopea del feudalesimo nipponico con scene di massa avvincenti e personaggi epici (ripresi figurativamente da Quentin Tarantino). Il terzo racchiude una straordinaria antologia di umori e sensazioni personali, sublimate in un lirismo di rara efficacia mentre gli ultimi due rappresentano una lucida e amara, ma non tragica, riflessione sul “commiato” che aspetta ogni essere umano al termina dell’esistenza. Il commiato di uno spirito laico, ma sensibile alla dimensione metafisica. Akira Kurosawa muore il 7 settembre 1998.
«Un film d’azione non è che un film d’azione. Ma che meraviglia se, allo stesso tempo può dare un ritratto dell’umanità!»
Akira Kurosawa
Toshiro Mifune, l’ultimo guerriero
di Pierfranco Bianchetti
È il 1946 e il Giappone sta faticosamente riprendendo a vivere. Negli studi cinematografici della Toho il regista Akira Kurosawa è impegnato nella preparazione del film “Angelo ubriaco”. Durante una serie di provini, cui partecipa un numero enorme di candidati, la sua attenzione è catturata da un attore di ventisei anni. Il suo nome è Toshiro Mifune. «Un giovanotto – ricorda il regista nelle sue memorie – correva per la stanza in preda a una violenta frenesia. Era come guardare una bestia selvaggia, ferita o intrappolata, che cerca di liberarsi. Rimasi lì inchiodato. Quel giovanotto non era veramente in collera, ma dovendo esprimere un’emozione per il provino, aveva scelto la rabbia…». Inizia così un legame artistico durato molti anni durante i quali i due gireranno insieme nove film.
Attore-feticcio
Toshiro Mifune nasce il primo aprile 1920 a Tsing Tao, in Cina, figlio di un fotografo al servizio dell’esercito giapponese. Tornato in patria entra come fotografo nell’industria cinematografica che sta ricominciando a funzionare dopo la fine della guerra. Sarà la sua fortuna perché il cinema è alla ricerca di volti nuovi. Sarà proprio Kurosawa a sceglierlo per il ruolo di uno yakuza (malavitoso) in “Angelo ubriaco” per affidargli l’anno successivo il personaggio dell’investigatore Murakami in “Cane randagio”. Il sodalizio si consolida nel ’50 con “Rashomon”, dove Mifune interpreta il bandito che assale la coppia di nobili nella foresta, e nel ’54 con il trionfale “I sette samurai”, nel quale l’attore stupisce tutti per la sua recitazione straordinaria e originale. Nel ’58 è un generale in “La fortezza nascosta” e poi, ancora, sempre sotto la direzione di Kurosawa, è il protagonista della “Sfida del samurai” (1961). Nel ’62 con “Sanjuro”, il suo mercenario moderno e ironico è adottato da Hollywood e avrà il volto di Clint Eastwood, il fuorilegge solitario e di poche parole. Nel ’57 Mifune è sul set di “Bassifondi” e “Trono di sangue” dove è il potente feudatario Washizu, l’equivalente nipponico di Macbeth. Ancora nel ’65 è protagonista di “Barbarossa”, che gli fa vincere il premio alla Mostra di Venezia per la miglior interpretazione. Con questo film, però, si conclude la collaborazione con Kurosawa.
I motivi di un dissenso
Proprio l’eccessiva lunghezza delle riprese di “Barbarossa” è alla base del diverbio. Oltre a Mifune, il regista aveva messo insieme un piccolo gruppo di attori fedelissimi, presenti in quasi tutte le sue opere. L’unico ad aver avuto un riscontro internazionale era stato però solo Mifune che, giustamente, ambiva a “monetizzare” tale successo. Ciò voleva dire abbandonare l’artigianalità dei tempi di lavorazione del suo mentore e questo Kurosawa, non lo accettò. Il regista, infatti, era solito dire del suo ex attore-feticcio: «Ma avete visto cosa ha girato, dopo?» e l’allusione era alla non esaltante serie di pellicole hollywoodiane in cui l’attore giapponese prestava il volto, per lo più, a personaggi “nemici” nei film di guerra. Tra questi ultimi i migliori sono certamente “Duello nel Pacifico” (1969) diretto da John Boorman al fianco di Lee Marvin, “Sole rosso”, 1972 di Terence Young e “1941-Allarme a Hollywood” (1979) di Steve Spielberg e la serie tv “Shogun” (1980) di Jerry London accanto a Richard Chamberlain. In patria Mifune lavora anche con altri importanti registi come Mizoguchi e Inagaki per un totale di 134 film vincendo 60 premi internazionali e accumulando fortune enormi (è tra i primi giapponesi a possedere una Rolls Royce), fino a quando la sua casa di produzione subisce un tracollo finanziario. Muore il 24 dicembre 1997 in un ospedale di Tokio a settantasette anni. Di lui Kurosawa dirà: «Non mi sarei mai aspettato che potesse morire prima di me. Avrei voluto dirgli che era davvero un magnifico attore, che non ce n’era uno migliore».
Shimura, l’alter ego
Nato il 12 marzo 1905 a Ikuno, Takaski Shimura è stato per molti anni un attore teatrale affermato, ma purtroppo sottovalutato dal cinema. È ancora Kurosawa che lo valorizza affidandogli il ruolo del medico alcolizzato, il dottor Sanada, in “L’angelo ubriaco” al fianco di Toshiro Mifune che è il gangster Matsunaga. I due attori sul set si compensano e insieme a tutto il cast formano una vera e propria famiglia. Con Kurosawa interpreterà ben diciassette film spesso nel ruolo dell’uomo che cerca di emergere nella vita diventando uno dei divi più popolari degli anni Cinquanta. Nel ’49 è il detective Sato in “Cane randagio”, nel ‘50 in “Rashomon” è il taglialegna che ha assistito al fatto di sangue, nel ’52 è il burocrate Watanabe in “Vivere”, nel ’54, nei “Sette samurai” è Kambei Shimade, il leader del gruppo di mercenari. In seguito lo troviamo ancora in “Trono di sangue” (1957), “La fortezza nascosta” (1958) dove interpreta il generale Nagatura, “I cattivi dormono in pace”(1960), “La sfida del samurai” (1961) e anche in “Anatomia di un rapimento”, del 1963, dove è impegnato nel ruolo del capo della sezione investigativa. Dopo aver lavorato con altri registi, l’attore non è più utilizzato adeguatamente dal cinema che non sfrutta il suo talento. Così inizia il suo declino ed è costretto a recitare in produzioni minori. Muore l’11 febbraio 1982 a settantasette anni in un ospedale di Tokio, affetto da enfisema.
Dodes’ka-den
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