I magnifici sette: Alfred Hitchcock, il Rossini del brivido

Pubblicato il 14 Ottobre 2017 in Humaniter Cinema

L’Alfred Hitchcock autore nasce nell’agosto del 1962 ad opera di François Truffaut, giovane critico dei “Cahiers du Cinéma” da poco passato alla regia, che gli dedica un libro intitolato Il cinema secondo Hitchcock. Il volume è la sintesi di una serie di conversazioni tra i due, avvenute negli anni precedenti, della durata complessiva di circa 50 ore. Nel 1962 il regista inglese ha 63 anni, essendo nato a Londra nel 1899, e ha già al suo attivo oltre 40 lungometraggi in 40 anni di carriera. Hitchcock, infatti, comincia a lavorare in Inghilterra nei primi anni ’20, ancora all’epoca del muto, e resta nel suo Paese fino al 1939 per passare, l’anno dopo, a Los Angeles e rimanervi fino alla morte, avvenuta nel 1980.

Al cosiddetto periodo inglese risale poco più di una ventina di titoli (senza contare quelli perduti), al periodo americano una trentina. Autore molto prolifico, dunque, con 53 lungometraggi accreditati, ma anche una quantità impressionante di film per la televisione facenti parti delle serie “Alfred Hitchcock presenta”, “Suspicion”, “Startime” e “L’ora di Hitchcock”. Prolifico e poliedrico avendo realizzato film di genere diversi, dalla spy-story alla commedia al film in costume.

Rebecca la prima moglie
Io ti salverò
La donna che visse due volte

Universalmente è noto per i suoi thriller e i polizieschi, tanto che si è soliti tributargli l’appellativo di “maestro del brivido”, anche se a ben guardare molte opere (per es. Rebecca la prima moglie, Il sospetto, Io ti salverò, Notorius, L’ombra del dubbio, La donna che visse due volte) sono veri e propri melodrammi, sia pure con piccole sfumature di giallo.

Passaggio di testimone

Ma torniamo ai “Cahiers du Cinéma” in quanto già prima di Truffaut altri due redattori-registi, Eric Rohmer e Claude Chabrol, avevano dedicato diversi articoli al regista inglese. L’Hitchcock maestro del cinema è dunque una “invenzione cahierista”? Un “effetto collaterale” della nascente Nouvelle Vague? È ancora Truffaut, nel prologo del suo libro, a darci la risposta: «Se mi è venuto il desiderio imperioso di interrogare Alfred Hitchcock nello stesso modo in cui Edipo consultava l’Oracolo [il corsivo è nostro] è perché le mie esperienze nella realizzazione di film mi hanno fatto apprezzare sempre di più l’importanza del suo contributo all’esercizio della regia». Parole illuminanti in quanto denotano il carattere “utilitaristico” dell’approccio di Truffaut al cinema di Hitchcock. Non un’analisi il più possibile obiettiva su testi e fonti, ma una sorta di “manuale d’uso” per registi o aspiranti tali. Una forma di apprendistato come avveniva nelle botteghe d’arte del medioevo o del rinascimento tra maestri e allievi. Si noti bene come tutto questo non sia in contraddizione con lo scetticismo con il quale una critica meno arrembante di quella dei “Cahiers” (o più orientata ideologicamente come quella marxista) abbia sempre considerato l’opera del regista inglese. Si tratta di due approcci differenti. L’errore sta, semmai, nel considerare quella di Truffaut, Rohmer, Chabrol & Co. un’esegesi metodologicamente corretta.

Il pubblico e la critica

La critica “avversa” imputava principalmente a Hitchcock l’inconsistenza dei contenuti e la convenzionalità della scrittura cinematografica. A questo proposito sono diventate celebri alcune battute del regista: «“Mr. Hitchcock quale è il messaggio dei suoi film” era la domanda ricorrente, alla quale lui rispondeva serafico: “I messaggi li consegno solo al postino”». Oppure: «Ho letto critiche negative sul mio ultimo film che mi hanno molto rattristato. Poi ho guardato il registro degli incassi del botteghino e la tristezza è svanita». Come dire che al giudizio della critica anteponeva quello del pubblico. In perfetta sintonia con i suoi produttori tra cui il mitico tycoon David O. Selznick ossia colui che l’aveva chiamato a Hollywood nel 1940 e l’aveva tenuto a battesimo nei suoi primi cinque titoli “Made in Usa”. Autore più di pubblico che di critica, dunque, anche se persino nelle sue battute più icastiche si nota una certa ansia di essere preso in considerazione non solo per i riscontri del box office. In ogni caso un autore che ha sempre seguito solchi già tracciati da altri, adottando l’estetica dominante. Sia nel periodo inglese, sia nella lunga stagione americana.

Il nodo alla gola

Esponente di spicco del cosiddetto Cinema Classico di Hollywood, ossia il cinema dei generi e dei codici (compreso quello Hays). Guarda caso, le poche volte in cui tenta di uscire dal seminato (per esempio con Nodo alla gola) ossia di dare un’impronta più “autorale” alla sua opera, i risultati sono deludenti proprio al box office.

Temi ricorrenti

Fatte queste precisazioni, occorre tuttavia riconoscere ad Alfred Hitchcock di aver portato sullo schermo dinamiche psicologiche e sociologiche non banali e le numerose antinomie che costellano le relazioni sociali.

Il ladro

Complice, in questo, la sua formazione cattolica che traspare esplicitamente in pellicole come Io confesso e Il ladro. Inoltre in quasi tutti i suoi film emerge l’ambiguità della natura umana, costantemente in bilico tra senso di colpa e desiderio di redenzione. Spesso su un sotteso contesto di pulsioni o frustrazioni sessuali.

Il pensionante

O di patologie psichiche: non a caso molti personaggi votati al crimine sono degli psicopatici (Il pensionante, Delitto per delitto, Psycho, Frenzy…).

Psyco

Temi ricorrenti riguardano anche la fedeltà (alla patria, alla persona amata, all’ideologia…) e il tradimento, anch’esso inteso in modo estensivo. E poi: la labilità del confine tra bene e male, l’ambiguità del “vero”, lo scambio di ruolo tra vittima e carnefice, l’ingiusta persecuzione dell’innocente. Se nel contesto inglese prebellico tutto questo poteva nascere da incertezze reali della vita sociale, nel periodo americano, coincidente con gli anni della guerra fredda, si tratta per lo più di un controcanto rispetto alle granitiche certezze del pensiero dominante. Controcanto in sordina, naturalmente. Pur non essendo certo un eversivo, attraverso le sue storie e i suoi personaggi, Hitchcock semina talvolta piccoli ma salutari germi del dubbio in una società ormai votata alla massificazione e all’omologazione intellettuale.

 

Un’eco espressionista

Detto delle tematiche, vediamo lo stile. Nella maggior parte dei casi il regista usa un linguaggio cinematografico corrivo, a volte persino banale (si veda, per esempio, la ripetuta metafora del gatto nero sui tetti e il fuorilegge chiamato Il Gatto in Caccia al ladro). I meccanismi narrativi sono semplificati e la colonna sonora è usata in maniera estremamente convenzionale. Nei film del periodo inglese si nota una certa influenza formale dell’espressionismo tedesco, dovuta a un soggiorno in Germania negli anni ’20, agli esordi della carriera. Lontani echi di quella lezione di stile si riscontrano tuttavia anche in alcuni film americani, sia pur adattati alla sensibilità di quel pubblico e con stilemi piuttosto ricorrenti e abusati. In ogni caso a Hitchcock va riconosciuta la capacità di creare la suspense partendo spesso da situazioni banali, quotidiane. Ossia di coinvolgere ed emozionare lo spettatore suscitando in lui l’attesa di qualcosa che deve accadere, ma di cui ignora il “dove”, il “quando” e, spesso, anche il “chi” sarà travolto da quel destino. Oppure, al contrario, mettendo lo spettatore al corrente di cose che il personaggio sullo schermo ignora e che quindi è costretto a subire.

Come un crescendo musicale

Il metodo compositivo usato da Hitchcock nella sua scrittura cinematografica ha il referente più prossimo nella composizione musicale e, più precisamente, nel crescendo così come l’ha reso celebre Gioachino Rossini. Va detto per inciso che tale tecnica non era esclusiva di Rossini né una sua invenzione anche se il compositore pesarese l’ha portata alla massima potenza. Il dizionario musicale spiega: «La tecnica [del crescendo] consiste nella ripetizione di alcune battute da parte dell’orchestra, nella quale le sezioni di strumenti entrano gradualmente, e nel contempo eseguono un crescendo dinamico, accompagnato spesso da un accelerando. L’effetto generato nell’ascoltatore è quello di una concitazione crescente che trasporta progressivamente verso l’esplosione del finale. Tra i vari effetti musicali sicuramente è uno dei più coinvolgenti per il pubblico e uno dei metodi più efficaci per scatenare gli applausi». Ebbene: se alle parole “battute”, “strumenti” e “ascoltatore” sostituiamo “sequenze”, “macchina da presa” e “spettatore” vediamo che la definizione calza perfettamente per quasi tutti i film di Hitchcock. Sicuramente per quelli più popolari.

«Il cinema è la vita con le parti noiose tagliate»

Alfred Hitchcock

DOCUMENTI

Hitch e i suoi “bambini”

di Pierfranco Bianchetti

«Gli attori sono come bambini. Hai mai visto un attore in un teatro di posa? Dove corre appena finito di girare? Davanti allo specchio, con tutta una corte attorno di persone a servirlo, a lisciarlo». Così si esprimeva Alfred Hitchcock a proposito degli interpreti dei suoi film che pure l’hanno adorato e temuto nello stesso tempo. Farley Granger, il protagonista di “Nodo alla gola” e “Delitto per delitto” era stupito dalla meticolosità del maestro durante la lavorazione, nelle luci, nella posizione della camera senza però mai guardare nell’obiettivo. «Sul set di Nodo alla gola provavamo per due giorni e il terzo giravamo con pochissimi ciak. Hitchcock in generale non parlava mai agli attori, non li dirigeva, a meno che facessero delle scemenze clamorose». Farley aveva incontrato il regista per la prima volta seduto tranquillamente sotto il portico della sua semplice casa a un piano a Bel Air e lo aveva convinto senza difficoltà a recitare in “Delitto per delitto” raccontandogli la trama. Un soggetto che in realtà poteva porre qualche interrogativo allo spettatore. «Una volta gli ho chiesto perché io, che nel film sono un campione di tennis, il ragazzo per bene, quando quel pazzo interpretato da Robert Walken mi propone il delitto incrociato – lui uccide mia moglie, io suo padre – non vado diritto alla polizia per denunciarlo. Mi rispose tranquillo che se il mio personaggio fosse andato alla polizia a sporgere denuncia, beh non si sarebbe fatto il film».

La finestra sul cortile

James Stewart, protagonista dell’”Uomo che sapeva troppo”, “La donna che visse due volte”, “La finestra sul cortile” e “Nodo alla gola”, ricordava che «Lavorare con lui era faticoso, come lo è con tutti i grandi registi. Hitchcock del resto otteneva il meglio da ogni persona. E nessuno faceva thriller come lui, era maestro della suspense, era il suo tratto caratteristico. Io e Hitch eravamo amici, ma non intimi. Mi sono spesso domandato se avesse degli amici intimi perché in fondo era un lupo solitario».

Gli uccelli

Tippi Hedren, l’interprete principale degli “Uccelli” e poi di “Marnie”, ha invece vissuto con lui un ben altro rapporto poiché tra loro si era sviluppata una profonda amicizia e, secondo il gossip, forse anche qualche cosa di più. Hitchcok la coinvolse nella realizzazione del film, ma poi probabilmente questo legame s’interruppe e il regista (probabilmente per ripicca) si vendicò costringendola a girare sequenze non di tutto riposo. I corvi che vediamo nella scena in cui l’attrice si trova circondata da uccelli non proprio amichevoli è realizzata senza finzione. Una grande paura per lei che dovrà subire altre piccole angherie prima del termine della pellicola. Tippi Hedren, da donna intelligente, ha sempre sottolineato il talento e il genio del regista: «Durante la lavorazione degli “Uccelli” lui non riusciva proprio a decidere come finirlo, era angosciato. Un pomeriggio riunì i membri della troupe nella sua camera d’albergo per discutere i vari finali possibili. In ultimo, naturalmente, fu lui a decidere. Scelse il finale sospeso – forse ancora più angosciante – dove non sappiamo se i protagonisti riusciranno davvero a salvarsi oppure no. All’epoca ero troppo intimidita di fronte a lui e non osai dare pareri. Lo feci più tardi, per “Marnie”. E devo dire che Hitch accettò i miei consigli».

Altra icona del regista è stata la splendida e regale Grace Kelly con lui sul set di “Delitto perfetto”, “La finestra sul cortile” e “Caccia al ladro”. «Grace Kelly m’interessava perché era il sesso “indiretto” – racconterà il regista -. Quando affronto le questioni del sesso sullo schermo non dimentico che, anche qui, la suspense comanda tutto. Ecco perché scelgo delle attrici bionde e sofisticate, appunto come Grace. Bisogna cercare delle donne di mondo, delle vere signore che diventano delle sgualdrine quando sono in camera da letto. La povera Marilyn aveva il sesso stampato su ogni angolo del viso, come Brigitte Bardot. E questo non è molto fine. Se manca la scoperta del sesso, la cosa non m’interessa. In “Caccia al ladro”, ad esempio, ho fotografato Grace Kelly impassibile, fredda e la faccio vedere il più delle volte di profilo, con un’aria classica, molto bella e molto gelida. Ma quando gira nei corridoi dell’hotel e Cary Grant la accompagna fino alla porta della sua camera, che cosa fa? Appoggia improvvisamente le sue labbra su quelle dell’uomo… Il mio lavoro con Grace è consistito nell’affidarle da “Delitto perfetto” a “Caccia al ladro” delle parti sempre più interessanti. Per “Caccia al ladro”, che era una commedia un po’ nostalgica, sentivo che non potevo fare un lieto fine senza riserve. Allora ho girato quella scena intorno all’albero in cui Grace Kelly mette alle strette Cary Grant. Lui si lascia convincere: sposerà Grace, ma la suocera verrà a vivere con loro. Così è quasi un finale tragico. Divertente, no?».

Janet Leigh, una delle interpreti di “Psyco” non ha mai nascosto la sua profonda ammirazione per Hitchcock: «Era un mago del brivido che conosceva tutti i trucchi del mestiere. All’inizio del film, ad esempio, siamo portati a pensare che ci sia Janet Leigh che prima è innamorata di John Gavin, poi incontra Anthony Perkins e così si forma un “triangolo”. E invece Hitchcock rovesciò tutto a un terzo del film. Voglio dire che nessuno al mondo poteva immaginare che la protagonista, la star, sarebbe stata uccisa quasi subito. Non si era mai visto al cinema. Ma lui poteva farlo, appunto perché era un mago». Quanto ad Anthony Perkins non era da meno nell’osannare il regista: «Era un uomo difficile e non era semplice andare d’accordo con lui, ma durante le riprese del film non ci sono state difficoltà sul set. Ci teneva molto a far parte del gruppo di attori e noi con naturalezza entravamo a far parte della sua idea di regia. Da questo punto di vista un meraviglioso lavoro comune… Ricordo un giorno, mentre la seconda unità stava girando un pezzo di raccordo e Hitchcock era seduto nel suo ufficio, entrai per provare davanti a lui la scena sulla quale non mi sentivo sicuro e volevo la sua opinione prima di andare a girarla. Stava leggendo il “London Sunday Times” e non alzò neppure lo sguardo. Mi disse: “Sorprendimi, Tony, sorprendimi” e seguitò a leggere senza badare più a me. Ma era un suo modo snob attraverso il quale faceva capire che tutto stava andando talmente bene che c’era addirittura il rischio di annoiarsi».

Altra testimonianza interessante è quella di Jessica Tandy che negli “Uccelli” interpreta il ruolo della madre di Rod Taylor, il protagonista. «Il finale del film fu modificato perché Hitchcock non riuscì a ottenere un certo effetto. Infatti la pellicola doveva terminare con gli uccelli che attaccano la nostra automobile e fanno a pezzi la carrozzeria. Non so bene perché, ma non riuscì a girare come voleva quella sequenza e così noi ci salvammo. Ma io so che Hitchcock non rimase mai convinto di quel finale».

Sean Connery, che con lui aveva girato “Marnie”, ha sempre ricordato con affetto l’esperienza che ha vissuto sul set con il regista: «Se c’era un minimo rallentamento nei tempi, che so, un ostacolo, mi diceva: “Non ti preoccupare è solo un film. Era un personaggio assolutamente delizioso. Mi sono divertito con lui, che giocava un po’ con noi attori, ci dava da credere di non badare all’andamento della pellicola, mentre invece era un artigiano assai preparato e un perfezionista nel suo lavoro. Sapeva esattamente dove voleva la cinepresa, che angolazione darle, che lenti usare».

Come non ricordare infine Ingrid Bergman, da lui scelta per “Notorius”, “Io ti salverò” e “Il peccato di Lady Considine”, un’attrice che Hitch adorava e con cui aveva avuto un rapporto di amicizia e di profondo rispetto. Proprio un episodio della vita privata di Ingrid lo ispirerà per uno dei suoi film più celebri, “La finestra sul cortile”. Donald Spoto, autore di un libro sulla Bergman racconta che durante la lavorazione di “Notorius” (è il 1946) Ingrid confida a Hitchcock la storia di un suo amore segreto. L’ anno prima a Parigi all’Hotel Ritz lei conosce il fotografo Robert Capa, già molto famoso per le sue foto scattate in giro per il mondo. I due si piacciono e la sera stessa escono a cena. In breve tempo la passione li divora e allora Robert per non lasciare sola Ingrid decide di dedicarsi al lavoro in studio rinunciando ai suoi reportage di guerra, anche se questa rinuncia è per lui molto dolorosa. Una love story così tanto cinematografica che sarà trasformata nel copione della “Finestra sul cortile” (ufficialmente ispirato al racconto di Cornell Woolrich). James Stewart con la gamba rotta che spia per passare il tempo con il suo obiettivo fotografico i vicini è il Robert Capa frustrato dal suo lavoro sedentario.

LINK

 

Io ti salverò (Spellbound, 1945)

 

 

Il sipario strappato (Torn Courtain, 1966)

 

 

 

 

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.