Tra i pochi talenti emersi nel cinema internazionale nell’ultimo decennio del secolo scorso va sicuramente annoverato Alejandro Amenábar (n. 1972). La famiglia della madre era emigrata in Cile negli anni ’30 per sfuggire al regime franchista. Quando però, nel 1973, nel paese latinoamericano si instaura la dittatura di Pinochet, i suoi genitori fanno ritorno nel paese d’origine. Alejandro, dunque, nato a Santiago del Cile, cresce a Madrid dove studia Scienze dell’Informazione all’Università Complutense, senza peraltro completare gli studi. Nei primi anni ’90 realizza tre cortometraggi mentre l’esordio nel lungometraggio avviene nel 1996 con il film Tesis, girato proprio nell’ateneo madrileno con protagonisti alcuni giovani attori allora sconosciuti come Ana Torrent ed Eduardo Noriega. La Torrent interpreta il ruolo di una studentessa che sta elaborando una tesi di laurea sulle espressioni della violenza nei mass media. Per questo motivo si trova invischiata in un giro di insospettabili che trafficano in “snuff movie”, film pornografici clandestini in cui si mostrano veri delitti e torture a sfondo sessuale. Un intrigo alla Hitchock in un crescendo mozzafiato che denota già una grande padronanza del linguaggio filmico e una rara maturità artistica.
Testo e metatesto
Tesis ottiene un successo immediato, fa incetta di “Premi Goya”, gli Oscar spagnoli, e apre le porte dell’industria al suo giovanissimo autore che l’anno successivo gira, con mezzi ben più consistenti, Apri gli occhi. Sotto l’aspetto postmoderno di una storia a scatole cinesi, non è difficile trovare nel film un condensato della letteratura spagnola del “Siglo de Oro” e, in particolare, del classico teatrale La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca (1600-1681). Anche questa seconda prova ha un cospicuo esito commerciale, non solo in Spagna, ma anche negli Stati Uniti tanto che il regista viene chiamato a Hollywood. L’attore Tom Cruise acquista infatti i diritti del film per produrne il remake che esce con il titolo di Vanilla Sky (2001), diretto da Cameron Crowe. Superfluo aggiungere che nella riedizione, cui prestano il volto lo stesso Cruise, Cameron Diaz e Penelope Cruz (unica “superstite” del cast iberico), non resta nulla del metatesto presente invece nella versione originale.
Gothic, ma non per tutti
Nello stesso 2001, con capitali e attori americani, Amenábarrealizza il suo terzo film: The Others. Ambientato in Inghilterra nel 1945 (ma girato in Galizia, regione atlantica della Spagna), il film è apparentemente un “gotic movie” alla Kubrick con protagonisti i membri di una famiglia che non possono esporsi alla luce del sole. Anche qui, come nei due precedenti, il senso profondo dell’opera sta ben oltre il puro dato fenomenico. In altre parole l’autore riesce ancora una volta a giocare su due piani espressivi. Uno, di fruizione immediata e di facile presa sul pubblico, è quello che garantisce il successo al botteghino, mentre lo spettatore più avveduto riesce ad andare oltre la lettera e a trovare significati latenti che accrescono la densità del racconto e il suo significato. Una dote non comune nell’ambito artistico e tanto più rara in quello cinematografico. The Others è infatti una grande metafora sulla diversità, sull’alienazione (in senso letterale) e sull’intolleranza. Temi sicuramente cari al regista e parte di un vissuto personale stante la sua omosessualità in un paese a maggioranza cattolica.
Marinaio e poeta
La Galizia è teatro del quarto film di Amenábar, uscito nel 2004: Mare dentro. Qui il regista mette in scena alcuni momenti della vita di Ramón Sampedro (interpretato da Javier Bardém), marinaio e poeta, costretto a vivere per 29 anni in un letto a causa della tetraplegia conseguenza di un incidente. Da una storia corale, con attori di grido e di sicuro appeal al botteghino (The Others) a uno spinoso tema etico (il diritto all’autodeterminazione nel fine vita) per un film girato quasi esclusivamente tra quattro mura, attorno al letto del protagonista. Anche in Mare dentro, come in Tesis e Apri gli occhi, un aspetto non secondario della storia è rappresentato dall’eco mediatico assunto dalla vicenda narrata. E il regista sembra essere particolarmente sensibile a questo aspetto della società postmoderna. Non solo perché il cinema appartiene a pieno titolo alla categoria del mass media, ma anche perché ha intuito con molto anticipo che lo sviluppo delle idee è oggi legato alla loro comunicazione in una misura enormemente superiore rispetto a qualsiasi altro periodo del passato. La padronanza della tecnica cinematografica (dissolvenze, panoramiche, pianisequenza…) consente inoltre al regista di esprimersi con una straordinaria libertà che trasforma il linguaggio filmico in momenti di grande spessore poetico. Per tutti: il sogno a occhi aperti del protagonista sulle note di “Nessun dorma” dalla “Turandot” di Puccini.
Un attualissimo passato remoto
Al passato remoto Amenábar si rivolge nella sua opera successiva, Agorà (2009), ambientato ad Alessandria d’Egitto tra IV e V sec. d.C. e incentrato sulla figura storica di Ipazia, matematica, astronoma e filosofa uccisa durante uno dei numerosi tumulti che opponevano le nascenti comunità cristiane ai seguaci del paganesimo. Film sull’intolleranza insita in ogni dogma di fede e sullo scontro non tra ideologie, ma tra idee e pregiudizi. L’aspetto formale più vistoso è l’uso delle nuove tecnologie. Computergrafica e manipolazioni digitali dell’immagine servono al regista a sottolineare alcuni aspetti semantici del film non, come avviene solitamente, per esaltarne gli aspetti puramente spettacolari. Anche in questo Amenábar dimostra di essere un autentico autore proprio perché, come i grandi registi del passato, utilizza tutti i mezzi tecnici che il cinema gli offre a fini espressivi. Dominando cioè l’immagine e la sua rappresentazione, non essendone dominato o sfruttando le innovazioni in modo puramente virtuosistico. Da notare che i riferimenti formali di questo film non sono le pellicole in costume antico che hanno costellato la storia del cinema, ma la pittura dei preraffaeliti inglesi e quella di Lawrence Alma-Tadema (1836-1912). Anche questa scelta estetica la dice lunga sulle coordinate culturali del regista.
Le psicosi ricorrenti
Le doti di messa in scena del regista emergono anche nella finora ultima opera, Regression (2016), che per alcune caratteristiche, sembra rimandare talvolta a Tesis, la pellicola d’esordio. Là a muovere l’azione era lo “snuff movie”, qui è il satanismo, una delle psicosi ricorrenti nella società americana del XX secolo. Il film è elaborato a partire da un reale fatto di cronaca avvenuto nel 1990 in una cittadina del Minnesota la cui vita tranquilla venne sconvolta da un presunto caso di incesto commesso nel quadro di un rituale demoniaco. Ce n’è abbastanza perché nella piccola comunità dove tutti si conoscono e si frequentano si scateni… l’inferno. Nelle coscienze delle singole persone, più che nell’opinione pubblica. L’inchiesta, affidata a un team di poliziotti cui si affianca uno psicologo, non porta a conclusioni, ma il punto è proprio quello. Amenábar lavora per sottrazione: sotto le apparenze del thriller il vero bersaglio del regista diventano le sovrastrutture psichiche condizionate da una fede malamente intesa. L’apparenza che prende il sopravvento sulla realtà, la violenza generata dal pregiudizio religioso e l’intolleranza nei confronti del diverso. Temi già presenti sviluppati in tutti i precedenti film. Argomenti attuali quanto mai, anche se la collocazione nel passato serve a mantenere il necessario distacco (come in The Others e Agorà), garanzia di lucidità e purezza dello sguardo. Come dire che i posseduti dal demonio siamo noi, nella nostra normalità perbenista, nel pregiudizio che deriva dalla rinuncia al libero pensiero per affidarsi alla guida di un’entità superiore indifferente alle sorti dell’uomo. E il risultato può essere solo un regresso “del” pensiero, non “dentro” il pensiero.
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