«Con questa amara favola ho voluto rappresentare in chiave paradossale e satirica quanto squallida è una vita matrimoniale deviata da una volgare ed egoistica concezione del piacere e da un formalismo bigotto, frutto di una interpretazione del tutto superficiale ed esteriore dei solidi ed immutabili principi della morale e della religione». Così avverte la didascalia iniziale del film imposta dalla censura a Marco Ferreri che con questo film firma la sua prima regia italiana dopo aver girato in Spagna El pisito (L’appartamentino, 1958), Los chicos (I ragazzi, 1959) ed El cochecito (La carrozzella, 1960). Che il dissacrante e ateo Ferreri parli di «solidi ed immutabili principi della morale e della religione» fa lo stesso effetto di un prete che parlasse dal pulpito di biancheria intima femminile, ma il merito è tutto della censura che spiana inoltre la strada a un’offensiva giudiziaria culminata nel rinvio a giudizio del regista per offesa al pudore e vilipendio della religione di Stato. Stessa sorte toccata a Pier Paolo Pasolini con La ricotta (1963) e, due anni prima, a Buñuel per Viridiana.
Un calvario matrimoniale
Attraverso il personaggio di Alfonso Ercolani (Ugo Tognazzi), protagonista del film, Ferreri scardina il concetto tradizionale della famiglia come luogo di affetti rendendola invece il crogiolo di nevrosi, tare, violenze che la società, costituita sulla base di puri e semplici “contratti”, esercita nei confronti dell’individuo e della sua libertà. Al mero scopo di perpetuazione della specie. Prima e, soprattutto, dopo il matrimonio Alfonso è infatti circondato da un codazzo di preti, frati e suore con cui è imparentata sua moglie Regina (Marina Vlady) che lo guidano e lo indirizzano alla procreazione secondo la dottrina teologica di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, moralista del ‘700, citato dal cugino padre Mariano (Walter Giller): «Il coniuge non può e non deve sottrarsi al desiderio legittimo, anzi santo, dell’altro coniuge… Sposa amante, sposa madre, sposa sorella». Il pover’uomo sale così una sorta di calvario matrimoniale in cui una significativa stazione è quella che lo porta, durante in viaggio di nozze, in uno sperduto paesino di cui è parroco uno zio di Regina. Qui si venera santa Lia, la cui salma mostra una fluente barba. Secondo la tradizione, la donna se la sarebbe vista crescere per miracolo in seguito a un tentativo di stupro. La comparsa della barba avrebbe sconvolto i violentatori al punto da farli desistere dal loro proposito.
Uomini e animali
Il pensiero va immediatamente al successivo film di Ferreri, La donna scimmia (1964), sempre con Tognazzi, in questo caso sposo e manager di una donna irsuta esibita come fenomeno da baraccone. All’origine di questa bizzarra rappresentazione femminile sta quasi certamente un quadro del 1631 di Jusepe de Ribera (lo Spagnoletto), noto a Ferreri a motivo del suo soggiorno spagnolo, e visibile ancora oggi nell’Hospital Tavera di Toledo. La tela rappresenta Maddalena Ventura, dal volto coperto da una folta e lunga barba, con un lattante al seno e con accanto il marito. Sull’altro lato, un’incisione in latino dipinta su due grosse pietre spiega il soggetto del quadro e ne indica l’autore. Maddalena Ventura è una donna effettivamente vissuta nel Regno di Napoli tra ‘500 e ‘600 che a 37 anni cominciò a coprirsi di pelo, compresa una foltissima barba. Forse oggi un buon endocrinologo avrebbe risolto il caso, sta di fatto che Ferreri nei due film citati appaia uomini e animali al livello istintuale più basso, convinto che lo “spirito” che ci anima non sia molto diverso da quello che guida i nostri “cugini” primati. Non per nulla la parabola umana, sentimentale e matrimoniale di Alfonso Ercolani si conclude sulla sua lapide cimiteriale in concomitanza con la nascita del tanto sospirato erede. Dopo essere passata per quella ruvida camicia da notte della nonna, esibita da Regina, su cui è ricamato un angelo con la scritta: «Non lo fo per piacer mio, ma per far piacere a Dio».
Questioni di illibatezza
Per tornare al “miracolo” dell’immaginaria santa Lia, va riconosciuto a Ferreri che in questo episodio del suo film tocca uno dei punti più scottanti che caratterizza il rapporto della religione cristiana nel suo sviluppo storico con la femminilità: l’illibatezza. La verginità è infatti l’elemento discriminante nella concezione che la Chiesa, soprattutto nel suo magistero, ha in materia del ruolo della donna all’interno della comunità dei fedeli e, più in generale, nella storia della salvezza. La donna come madre di tutti i viventi (Eva), ma anche colei che per prima ha ceduto al peccato lasciandosi lusingare dal tentatore. Ma anche la donna (Maria) strumento unico ed eccelso della redenzione in quanto madre carnale di Gesù (ovvero di Dio). Relazione che nessun essere umano di sesso maschile può vantare. Madre eppure vergine (si dice “prima, durante e dopo” lo stesso parto), sublimata nelle visioni dell’Apocalisse in quella figura «Vestita di sole, con la Luna sotto i piedi e il capo coronato di dodici stelle» (Ap 12, 1) che si contrappone a sua volta alla «Grande prostituta […] seduta sulla bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna» (Ap 17, 1-3). Chiaro che per Ferreri la questione si risolve con l’affermazione dell’ape Regina e la morte del marito-fuco, ma per moltissime altre donne, come purtroppo insegna la storia, l’epilogo è stato ben diverso. Anche e proprio per opera della Chiesa.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.