Desunta da un romanzo di Benito Pérez Galdós, scrittore verista spagnolo di fine ‘800, la storia del film è ricollocata dal regista in Messico, ai primi del ‘900, sotto il regime dittatoriale di Porfirio Díaz. In un povero caseggiato di un quartiere popolare della capitale vive padre Nazario, sacerdote che ha compiuto una scelta radicale per vivere più autenticamente il Vangelo. Senza una parrocchia, povero tra i poveri, sopravvive come può in grandi ristrettezze. Nello stesso caseggiato vivono anche Beatriz, donna dal carattere debole e remissivo, fidanzata con l’autoritario e possessivo El Pinto, e Ándara una prostituta che si rende protagonista di un fatto di sangue. Ferita e ricercata, Ándara chiede aiuto a padre Nazario che la nasconde in casa propria. Nel tentativo di occultare la sua presenza la donna però finisce con appiccare l’incendio a tutto il fabbricato.
In questa prima parte è interessante sul piano linguistico l’uso surrealista dell’immagine operato da Buñuel sul substrato realista del romanzo di Galdós. Emblematica la scena con l’Ecce Homo sghignazzante, inserita nel delirio febbrile di Ándara. L’immagine trova un preciso riscontro iconografico in un dettaglio del quadro del 1947 del pittore anarchico surrealista Camille Clovis Trouille (1889-1975) in titolato Mon tombeau (La mia tomba). Le opere di Trouille sono caratterizzate da un esibito erotismo e da un altrettanto aggressivo anticlericalismo. Rilevante anche il fatto che, durante la breve sequenza, si senta (in off) la voce di padre Nazario che recita, in latino, il Mea culpa. Più in generale, nello sviluppo narrativo dell’episodio non è difficile leggere in filigrana il racconto evangelico del Buon Samaritano (Lc 10, 25-37) soltanto che il regista ne trae conseguenze opposte rispetto a quelle enunciate nelle Scritture.
Tra utopia e realtà
Si conclude così, con i personaggi principali in campo, ben definiti nelle loro caratteristiche esistenziali, il primo capitolo di quella che si configura come una vera e propria Via Crucis del “nuovo messia” incarnato da padre Nazario. Perfetta icona dell’utopia evangelica destinata però a sgretolarsi sotto i colpi della realtà. «Professo le mie idee con tanta fermezza quanta è profonda la mia fede» dice il sacerdote ai due funzionari della società elettrica che si informano, increduli, sulle sue scelte di vita. Il resto della vicenda provvederà a ribaltare di segno questa affermazione facendo di Nazarín, un uomo solo e pieno di dubbi, un sacerdote confuso e umiliato, forse senza nemmeno più la fede. Per quanto riguarda le altre due protagoniste, la “pura” Beatriz e la “reproba” Ándara, il percorso narrativo provvederà a renderle molto più simili di quanto non appaia: quasi due facce della stessa medaglia. Con questo film e i suoi personaggi Buñuel porta molto avanti quel processo di destrutturazione dei testi sacri del cattolicesimo già iniziato nei film d’avanguardia e continuato, in modo però piuttosto episodico, nei primi film messicani. Il romanzo di Galdós gli serve al meglio proprio per scardinare, grazie allo strumento surrealista della scintilla poetica che si sprigiona da due poli opposti, le certezze della fede e le strutture sociali di un’umanità alla deriva, oppressa dalla violenza militaresca e tiranneggiata dalla borghesia.
Gli inutili sforzi di redenzione
Illuminante il secondo episodio con esisti infausti che vede protagonista padre Nazario, episodio assente nel romanzo di Galdós e dunque riconducibile al solo Buñuel. Dopo aver abbandonato l’abito talare il sacerdote vaga per le strade polverose delle campagne. Per sfamarsi accetta di lavorare come operaio in un cantiere. Gli altri manovali però gli si rivoltano contro poiché con il suo comportamento ha vanificato le loro rivendicazioni esponendoli, per giunta, alla dura repressione dei sorveglianti. L’episodio rimanda a un altro passo evangelico, precisamente alla parabola detta degli “operai dell’ultima ora” (Mt 20, 1-16), anch’essa interpretata in maniera opposta rispetto all’insegnamento del magistero cristiano.
la successiva “stazione” della Via Crucis riporta in scena Beatriz e Ándara, tornate a vivere nel loro villaggio natale dove assistono una parente la cui bambina parrebbe sul punto di morire. Le donne accolgono Nazarín in un crescendo di misticismo isterico e invocano un miracolo. Il sacerdote tenta inutilmente di indurle alla ragione, ma ancora una volta la sua fede, sin troppo disincarnata, soccombe alla greve fisicità di bisogni materiali insoddisfatti. La guarigione della piccola induce tuttavia le due donne a unirsi a lui lungo il cammino nonostante egli tenti in ogni modo di dissuaderle.
Reminiscenza sadiana
Insieme arrivano in un villaggio spopolato da una pestilenza che ha mietuto decine di vittime. Inclusa una donna al cui capezzale si recano Beatriz e padre Nazario che tenta di impartirle i conforti della religione. La moribonda però li rifiuta, invocando invece fino all’ultimo il ben più terreno conforto dell’uomo che ama. Lo stesso Buñuel, nelle sue memorie, riconduce l’episodio (anche questo assente in Galdós) al Dialogo tra un prete e un moribondo di De Sade, ma nel contesto del film la rilevanza è ben maggiore rispetto al semplice rifiuto dei sacramenti presente nel testo letterario. Illuminante al proposito il breve dialogo che intercorre tra Nazarín e Beatriz all’esterno della casa della donna da cui sono appena stati cacciati. «He fracasado, hija. Que Diós tenga piedad de su alma» dice il sacerdote. Ossia: «Ho fallito, figlia mia. Che Dio abbia pietà di lei». Beatriz: «Yo también quería así» (Anch’io ho amato in questo modo) riferendosi ovviamente alla sua relazione con El Pinto.
La metafora dell’acqua
L’ultimo snodo del dramma si verifica all’arrivo dei tre in un nuovo villaggio. Beatriz ritrova El Pinto e, nonostante il suo desiderio di affrancarsi dalla schiavitù dei sensi, la sola ricomparsa dell’uomo stronca ogni proposito. Anche qui mediante una metafora evangelica ribaltata di segno. Per esibire la propria volontà di dominio l’uomo chiede a Beatriz una ciotola d’acqua, ma, appena ottenuto quanto richiesto, getta a terra il liquido con un gesto sprezzante. Il sottotesto è l’episodio della Samaritana al pozzo di Sichar (Gv 4, 4-26) e non è forzato leggere la breve scena come metafora della negazione della salvezza ultraterrena che con il suo gesto El Pinto impone a Beatriz desiderosa invece di seguire Nazarín sul cammino della fede.
La notte insonne successiva, sia per i temi sviluppati dal dialogo tra i tre personaggi sia per le profferte di fedeltà da parte di Beatriz, simili a quelle pronunciare da Simon Pietro alla vigilia della Passione, richiama la veglia del Getzemani dopo di che, il mattino successivo, don Nazario e Ándara vengono arrestati. Qui la citazione evangelica è flagrante, a cominciare dal gesto di ribellione di Ándara che colpisce con un bastone uno dei presenti. Al pari del discepolo che ferisce con una spada un servo del sommo sacerdote (Mt 26,51; Mc 14,47; Lc 22,50; Gv 18, 10).
Il crollo delle certezze
Seguono due episodi che segnano le “stazioni” finali del calvario di Nazarín. Si comincia con il buono e il cattivo ladrone. Nel film si tratta di due detenuti, un parricida e un sacrilego, che condividono la cella con il sacerdote e altri prigionieri. Il parricida dileggia e percuote padre Nazario, che ovviamente non oppone resistenza, mentre l’altro lo difende e gli medica le ferite. Tuttavia anche qui Buñuel introduce una differenza sostanziale rispetto al romanzo di Galdós e al dettato evangelico. Non solo il “buon ladrone” si fa consegnare gli ultimi averi del sacerdote, ma scambia con lui poche battute che determinano il crollo definitivo delle sue certezze. «Ti piacerebbe essere buono?» gli domanda padre Nazario. «Forse, però come?» ribatte l’altro. «Basta che tu dica: “Voglio essere buono” e che cerchi di cambiar vita». «A lei piacerebbe cambiare la sua? Senta: io non ho fatto che cattiverie, ma la sua vita a che serve? Lei dalla parte buona, io dalla parte cattiva, ma nessuno dei due è servito a niente». Dunque non solo non c’è alcuna salvezza per il buon ladrone, ma neppure per il nuovo messia.
L’interrogatorio di fronte al sommo sacerdote Caifa sottende invece la successiva scena in cui Nazarín, all’interno della stazione di polizia, è a confronto con un suo superiore inquadrato dal basso e con alle spalle il ritratto di Porfirio Díaz appeso alla parete. Eloquente quanto il silenzio che ormai attanaglia il sacerdote.
Anche la parabola di Beatriz arriva all’epilogo: una sorta di “ritorno all’ovile” della pecorella smarrita che si configura come la definitiva sottomissione a El Pinto che la porta con sé su un calesse. Scortato da un agente in borghese anche Nazarín percorre la stessa strada, ma i due, entrambi a capo chino, non incrociano gli sguardi.
La sconfitta di Dio
Per l’epilogo del film, Buñuel si discosta ancora una volta radicalmente dal romanzo di Galdós che si conclude con padre Nazario che sogna di celebrare la messa. Sullo schermo, mentre in colonna sonora si comincia a sentire il rullio dei tamburi della Settimana Santa di Calanda, padre Nazario e il suo guardiano si fermano accanto al biroccio di una contadina carico di prodotti agricoli. Il militare prende per sé due mele mentre la donna gli chiede il permesso di dare qualcosa al detenuto. Il prete dapprima rifiuta, poi accetta l’ananas che gli viene offerto. È il compimento delle parole pronunciate all’inizio al riguardo dell’elemosina e della dignità sacerdotale. Radicalmente mutate di senso. Contrariamente a quanto affermano molti esegeti, da quanto è avvenuto nel corso della sua parabola esistenziale, Nazarín non è semplicemente un uomo messo moralmente a nudo. È un prete senza più certezze, senza più appigli né ideologici né ideali. È l’immagine della sconfitta di Dio nella storia, la prova più amara dell’inutilità del sacrificio di Gesù.
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