Accanto a quella accademica Pasolini possedeva anche una forte cultura popolare che emerge sia nelle opere letterarie, sia in molti film specialmente nel decennio dei ‘60. Ovviamente anche in questa rivisitazione del vangelo di Matteo.
Prendiamo ad esempio la musica. Johan Sebastian Bach compone due Passioni a partire dai testi evangelici di Giovanni e Matteo. Due capolavori datati rispettivamente 1724 e 1727. Pasolini naturalmente utilizza questa musica colta, ma le affianca, a partire dai titoli di testa, brani dalla Misa Luba e dalla Misa Criolla, ovvero i canti del messale (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus) eseguiti su sonorità etniche africane e latinoamericane. Il film viene girato mentre è in corso il Concilio Vaticano II (1963-65) che, tra le altre cose, abbandona il latino come lingua liturgica e si apre alle lingue e alle culture locali. Nel 1965, in preparazione del film, Pasolini si reca in Palestina intenzionato a girare negli stessi luoghi teatro dei racconti evangelici, ma capisce che si tratta di un vicolo cieco. Da qui l’intuizione di ambientare la Terra Santa del tempo di Gesù in quella che all’epoca era la Vergogna d’Italia: Matera. La non certo lusinghiera definizione era stata coniata da Palmiro Togliatti, segretario nazionale del Pci, che aveva bollato così la città dei Sassi per le condizioni di vita precarie in cui ancora vivevano i suoi abitanti, in promiscuità con gli animali e senza i servizi essenziali (luce, acqua, fognature…) per una vita civile. Da poco era iniziata una sorta di ‘deportazione forzata’ dalle abitazioni rupestri verso moderni quartieri appositamente costruiti sull’altopiano delle Murge. Opera meritoria e necessaria che non di meno Pasolini utilizza per rimarcare la continuità ideale tra il passato narrato dai Vangeli e la realtà immanente.
I silenzi e i discorsi
Film di silenzi e di sguardi, per esempio per quanto riguarda Maria, la madre di Gesù, che, in effetti, nel testo evangelico di Matteo non proferisce parola. In questo racconto, infatti, non ci sono né l’annunciazione né la visitazione (con i relativi ‘inni’ mariani), ma c’è invece la violenza della strage degli innocenti e l’angoscia della fuga in Egitto. Il Messia, insomma, nasce in un contesto di persecuzione e la sua primissima infanzia è contrassegnata dal dolore.
A questi silenzi, nel corso del film, ovvero nella rappresentazione della vita pubblica di Gesù, Pasolini contrappone una serie di ‘discorsi’ tra i più forti del Nuovo Testamento (“Ravvedetevi perché il regno dei Cieli è vicino…”; “Vi mando come pecore tra i lupi…”; “Siate prudenti come serpenti e semplici come colombe…”; “Non sono venuto a portare la pace, ma la spada…”; “Chi perde la vita per me…” e poi le Beatitudini; i tesori in terra e quelli nel Cielo; i due padroni, Dio e Mammona; il porgere l’altra guancia; l’amare i nemici; il non giudicare se non si vuole essere giudicati; la pagliuzza e la trave; gli uccelli del cielo; la porta stretta…). Mediante l’uso stilistico del primo e primissimo piano dell’interprete, parecchie di queste frasi appaiono quasi avulse dal contesto. Lo scopo di tale scelta è quello di sottolineare la forza dirompente del messaggio originario al di là degli accomodamenti e degli edulcoramenti avvenuti nel corso dei secoli.
Per Pasolini non si tratta di prendere (né, tanto meno, applicare) il Vangelo alla lettera. Il regista vuole semplicemente ricondurlo alle sue origini. Porre lo spettatore di fronte a una realtà ontologica che lo provoca e lo sfida. Al pari della ‘inumana’ (nel senso di privata dai suoi abitanti) scenografia dei Sassi nei quali l’umanità era appunto ridotta al grado zero.
La religione come lotta di classe, insomma, recuperando l’autentico spirito evangelico che tratteggia un Gesù non certo in linea con l’establishment della sua epoca.
Uomo e natura, arte classica e vita quotidiana
Altra caratteristica formale scelta da Pasolini è la giustapposizione del paesaggio naturale con il ‘paesaggio umano’ dei personaggi che mette in scena. Nessun attore professionista, ma tanta gente comune scelta appunto tra i materani e uno studente basco antifranchista esiliato in Italia per dare volto al suo Gesù. E anche molta quotidianità del vivere locale, per esempio, nelle tavole portate a spalla da alcuni figuranti con il caratteristico pane di Matera. A cui fa da contraltare la citazione erudita degli affreschi rinascimentali di Piero della Francesca (in particolare le Storie della Vera Croce nella cappella Bacci della chiesa di san Francesco ad Arezzo) nell’abbigliamento e nei copricapi dei farisei e dei dottori della legge e nelle armature, dette ‘all’eroica’, dei soldati romani anch’esse presenti nelle opere di Piero. Dicevamo del paesaggio umano, indagato attraverso ricorrenti panoramiche sui volti dei personaggi, al pari di quelle su campi e boschi che definiscono invece il paesaggio della natura.
In questo contesto si collocano altre citazioni evangeliche che per Pasolini rappresentano una pietra di paragone tra la religione cattolica praticata al suo tempo e il messaggio originale. È un gruppo consistente che passa dal “Venite a me, voi che siete affaticasti e stanchi…” al “Giogo soave” al “Non spezzare la canna incrinata…” e altri momenti di condivisione come quando Gesù e i suoi discepoli spartiscono un poco di cibo con alcuni contadini e la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Un vangelo, dunque, che si fa prossimo ai bisogni primari, innanzitutto, dei poveri, degli affamati, degli emarginati. Spartiacque del racconto è invece la disputa con i farisei sul sabato e la sua osservanza (lo storpio guarito di sabato).
Tra contraddizioni e scandali
Pasolini mette in scena anche episodi in cui la Chiesa nascente, ossia i discepoli, non brillano per attaccamento e fedeltà al maestro. Come nell’episodio del cammino sull’acqua e la conseguente incredulità di Simon Pietro che, nell’occasione, si becca dell’oligopìstos (uomo di poca fede). Seguendo solo in parte la scansione letteraria del vangelo da cui prende spunto, Pasolini si addentra poi in un complesso di citazioni che pongono l’uomo moderno di fronte alle ‘contraddizioni’ che lo stesso Gesù era ben consapevole di provocare nella cultura religiosa del suo tempo. Prima fra tutte il suo riconoscimento come Messia (salvatore) del popolo ebraico. A questo proposito non va dimenticato che l’autore del vangelo di Matteo scrive attorno all’anno 70 ossia quando è appena avvenuta l’immane tragedia della guerra giudaico-romana con la conseguente seconda e definitiva distruzione del Tempio di Gerusalemme e la nuova diaspora. Non solo: i credenti a cui l’evangelista si rivolge sono proprio in gran parte provenienti dall’ebraismo e dunque a conoscenza della Torah e degli altri testi che diventeranno poi per il cristianesimo l’Antico Testamento. Caratteristica del vangelo di Matteo, rispetto gli altri tre, è infatti il maggior riferimento alle scritture proprio nell’intento di evidenziarne lo stretto legame con la missione salvifica del Nazareno. Così come Matteo è l’unico a interpretare (come profezia post quem o post eventum) la distruzione del Tempio come ‘vendetta’ di Jahweh su Israele colpevole di non aver riconosciuto il ‘nuovo Davide’,
Ecco allora l’episodio del palazzo di Erode e della prigionia del Battista che chiede se davvero Gesù è il Messia atteso da millenni. E la risposta è: “Dite a Giovanni ciò che vedete: i sordi odono, gli zoppi camminano…”. Non mancano le ‘tirate’ più radicali: “Chi non è con me…” e il preannuncio del ‘Segno di Giona’ il profeta rimasto tre giorni nel ventre del mostro marino in analogia con i tre giorni intercorsi tra la morte e la resurrezione di Gesù.
Anche Pasolini, come molti altri autori che hanno affrontato l’argomento, si lascia suggestionare dal paradosso del: “Chi fa la volontà del Padre mio, egli è mia madre e mio fratello…” pronunciata quando i discepoli gli annunciano la visita dei familiari. Si avvicina così il culmine della divaricazione tra il Cristo e i suoi contemporanei sintetizzato dagli episodi: “Nemo propheta in patria…”; il giovane ricco; il “Lasciate che i bambini vengano a me…” e il ben più severo: “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti…” a rimarcare l’urgenza di una scelta radicale pro o contro Gesù. “Il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo…” è l’amaro epilogo seguito dalla domanda che si suppone rivolta a ogni uomo, credente o meno: “Chi dite che io sia?…”. Vero che a questo interrogativo segue la professione di fede di Pietro e la metaforica consegna delle chiavi al capo dei dodici, ma anche le iperboli dello scandalo: “Se la tua mano o il tuo piede o il tuo occhio sono motivo di scandalo…” appena attenuati dalla metafora della pecora smarrita e dall’esortazione a perdonare “Settanta volte sette…”. Cioè sempre.
Una tragedia anche fuori dallo schermo
Una panoramica sul Sasso Caveoso, metafora di Gerusalemme, ci introduce all’imminente epilogo che inizia, sulla musica Luba, con quella che oggi è definita Domenica delle palme. Controbilanciata immediatamente dalla cacciata dei mercanti dal tempio (il cortile di Castel del Monte) e altre parabole piuttosto difficoltose da interpretare anche per i credenti come la maledizione del fico infruttifero o dei vignaioli omicidi. Più facili a comprendersi invece anche per uno spirito contemporaneo sono invece i riferimenti alla pietra scartata dai costruttori divenuta ‘angolare’, il pagamento del tributo a Cesare e le invettive contro i farisei e il loro formalismo dottrinale privo di autentico spirito umanitario.
Seguono l’istituzione dell’eucarestia (la cosiddetta ‘Ultima cena’) e le successive azioni: il tradimento (e il suicidio) di Giuda Iscariota, la cattura, il processo e la condanna di Gesù. Il film segue fedelmente il dettato evangelico sfrondato quasi del tutto dal commento verbale e con la colonna sonora che riprende la musica di Bach e altri autori classici su un insieme di scene, appunto, corali fino al Golgota. Esalato l’ultimo respiro sulla croce, lo schermo si fa nero su queste parole: “Voi udrete con le orecchie, ma non intenderete e vedrete con gli occhi ma non comprenderete perché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile”. Ancora senza alcun parlato, ma solo con commento musicale in colonna sonora, si assiste poi alla deposizione e alla sepoltura.
Per crudeltà della sorte sarebbe effettivamente toccato a Susanna Colussi Pasolini (1891-1981), madre del regista e interprete della Vergine ai piedi della croce, sopravvivere alla morte violenta del proprio figlio, nel 1975.
La resurrezione è il semplice annuncio dell’angelo alle donne venute al sepolcro e, come effettivamente sta scritto nella conclusione del vangelo di Matteo, Gesù appare ai discepoli in Galilea inviandoli ad annunciare al mondo la buona novella, senza che si faccia parola dell’ascensione.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.