La ricotta fa parte di un film a episodi, genere in auge negli anni ‘60 del ‘900, affidato a quattro registi il cui titolo è composto dalle iniziali dei rispettivi cognomi: RoGoPaG, ossia Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini e Ugo Gregoretti. Quattro stili, quattro estetiche, quattro modi di fare e intendere cinema estremamente eterogenei tra loro accomunati da una riflessione sulla società contemporanea. L’episodio pasoliniano mette in scena un ‘film nel film’ ossia un set allestito nella campagna alle porte di Roma dove un regista (Orson Welles) filma quadri viventi da due celebri opere pittoriche del Manierismo: la Deposizione (1521) del Rosso Fiorentino e il Trasporto del Cristo (1526-28) del Pontormo. Accanto a questi quadri viventi è prevista una Crocifissione di Gesù alla maniera dei peplum biblico-storici assai diffusi all’epoca. Pasolini si concentra sulla variegata umanità che affolla il set tra cui un proletario disoccupato, dal significativo nome di Stracci, che dovrà impersonare il buon ladrone sulla croce. In colonna sonora il regista inserisce alcune citazioni dai Vangeli di Marco e Giovanni e brani dal testo della lauda Donna de Paradiso (detta anche Il pianto della Madonna) di Jacopone da Todi (1230/36-1306): «Figlio l’alma t’è scita,… Figlio de la smarrita… Figlio bianco e vermiglio…». Famelico, ma digiuno per aver ceduto il proprio ‘cestino’ ai familiari, il povero Stracci tenta in ogni modo di mettere qualcosa sotto i denti fino a quando riesce a saziare, smodatamente, il proprio appetito con esiti imprevedibili.
Come aveva fatto in Accattone (1961) e come farà poi nel Vangelo secondo Matteo e in Uccellacci, uccellini, anche qui il regista lavora iconograficamente sull’alternanza tra primi e primissimi piani dei personaggi e i campi lunghi e lunghissimi del set e della campagna teatro delle scorribande di Stracci. I personaggi sono decisamente e volutamente caricaturali (la prima attrice, i macchinisti, il giornalista, il produttore…) utili a veicolare un messaggio laico e pessimista così come si evince dalle domande che il giornalista rivolge al regista e alle relative risposte: «Cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?» domanda l’inviato. «Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo» risponde il regista. «Che cosa ne pensa della società italiana?». «Il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa» è la lapidaria risposta. «E cosa ne pensa della morte?». «Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione…». Dopo di che, lanciata una frecciatina a Federico Fellini, l’autore italiano all’epoca più in auge a livello internazionale, Welles recita una lirica di Pasolini da Mamma Roma (Rizzoli, 1962) libro con lo stesso titolo del film coevo: «Io sono una forza del passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / dimenticati sugli Appennini e sulle Prealpi / dove sono vissuti i fratelli. / Giro sulla Tuscolana come un pazzo / per l’Appia come un cane senza padrone. / O guardo i crepuscoli e le mattine su Roma / sulla Ciociaria, sul mondo / come i primi atti del Dopostoria / cui io assisto per privilegio d’anagrafe / dall’orlo estremo di qualche età / sepolta. Mostruoso è chi è nato / dalle viscere di una donna morta. / E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più». Ricordiamo che negli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale Pasolini aveva perso il fratello Guidalberto assassinato a 19 anni dai partigiani gappisti e titini nella strage di Porzûs. La ‘tirata’ del regista si conclude con questo delizioso ritratto dell’uomo medio: «L’uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista…».
Uccellacci e uccellini si pone sul piano formale come uno dei più riusciti tentativi di superamento del neorealismo in chiave surreale. Ambientato in una periferia degradata, su strade e in quartieri in costruzione (il boom economico del decennio), vede protagonisti due strani individui, padre e figlio, cui si affianca ben presto un saltellante corvo parlante: «Vengo da lontano, il mio paese si chiama Ideologia… abito in via Carlo Marx al n. 70 volte 7 [Mt 18, 22]… I miei genitori sono il signor Dubbio e la signora Coscienza». Il riferimento cristiano avviene mediante la presenza in scena di un giovinetto vestito da angelo, come si usa nelle processioni parrocchiali, ma anche dal lungo apologo, che occupa la parte centrale del film, di frate Ciccillo e frate Ninetto, mandati da san Francesco a portare agli uccelli la Buona Novella. Ma non a tutti i volatili, bensì a due specie ben precise, due ‘classi’ molto diverse tra loro: i falchi «che sono prepotenti» e i passerotti «che sono umili». Borghesia e proletariato, fuor di metafora. La lunga peregrinazione si svolge lungo l’intero corso di un anno, ma si conclude con un ritorno al presente e, in particolare, al 24 agosto 1964, data dei funerali di Togliatti. Momento simbolico e denso di significato per la sinistra italiana anche se il pessimismo di Pasolini ci mostra l’ideologia finita in… cenere.
La storia di frate Ciccillo e frate Ninetto ha un precedente formale in Francesco giullare di Dio (1950) di Roberto Rossellini mentre i funerali di Togliatti compaiono anche nel film I sovversivi di Paolo e Vittorio Taviani del 1967
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.