In teologia il procedimento di comprensione e attualizzazione delle Sacre Scritture si definisce circolo ermeneutico. Tale procedimento consiste nell’analizzare un qualsiasi testo biblico in rapporto alle fonti, al genere letterario, allo stile dell’autore e al contesto storico nel quale esso è stato elaborato in modo da comprenderne il messaggio dottrinale dopo di che si “traduce” tale messaggio in una forma compatibile con sensibilità, mentalità e linguaggio attuali. Sempre in teologia si definisce eretico (dal greco hairèin = scegliere) un testo o un’affermazione e, di conseguenza, la persona che li formula, difformi da quanto stabilito dalla Chiesa mediante il suo Magistero.
Buñuel ha più volte affermato che il cristianesimo e il surrealismo rappresentano le due esperienze che hanno plasmato in modo indelebile la sua esistenza rispettivamente come forma di maggiore repressione e forma di maggiore emancipazione esistenziale. Surrealismo e cattolicesimo stanno dunque alla base della poetica buñueliana e, nel corso degli anni, non hanno mai cessato di intersecarsi e influenzarsi a vicenda. In tutti i suoi film si possono infatti evidenziare rimandi a questioni, problemi o personaggi legati alla dottrina cristiana, al pari di stilemi di matrice surrealista. La religione assume peraltro un rilievo di tale entità che non può essere spiegato solo con il retaggio culturale cattolico o con la formazione giovanile del regista in un collegio di gesuiti. Nelle sue opere, infatti, Buñuel dimostra una conoscenza e una dimestichezza straordinarie con le fonti bibliche e la dottrina della Chiesa, frutto evidente di una consuetudine protratta nel tempo e accuratamente coltivata.
Ateo «per Grazia di Dio»
Nel parlare del rapporto tra Buñuel e la religione i critici hanno usato soprattutto termini quali iconoclasta, blasfemo e anticlericale ossia espressioni che esprimono un approccio totalmente negativo all’argomento. Nessuna di queste parole chiarisce però in modo soddisfacente la vera natura della relazione che Buñuel instaura con le fonti dottrinali del cristianesimo anche se nelle sue opere non mancano certo elementi anticlericali, blasfemi o persino iconoclasti.
Celebre è la definizione che in varie occasioni e nelle sue memorie (Dei miei sospiri estremi, Rizzoli) il regista ha dato di sé in rapporto alla religione: «Per Grazia di Dio sono ateo». L’espressione, però, è stata spesso fraintesa nel suo autentico significato. Cosa significa infatti essere ateo «Per grazia di Dio»? Con quest’espressione Buñuel fa un preciso riferimento alla Dottrina della Grazia, cioè alla salvezza elargita all’umanità mediante il sacrificio (morte e resurrezione) del Cristo. Buñuel sembra dunque accettare, come ogni buon cristiano, una verità dottrinale ma, al momento di accoglierla, la piega a un fine che non le è proprio e che, anzi, la contraddice. In lui l’azione salvifica della Grazia si sarebbe estrinsecata non nell’insorgenza della fede, ma nel suo contrario, ossia nell’ateismo. In senso strettamente teologico tale affermazione si configura come una vera e propria eresia.
Lo scacco della storia
L’opera in cui il circolo ermeneutico al negativo (ossia ereticale) raggiunge il suo vertice è appunto La Via Lattea. Nell’intervista televisiva rilasciata a Mario Foglietti nel 1970, un anno dopo la realizzazione del film, Buñuel afferma al proposito: «Ho preso dalle Scritture e dal Vangelo ciò che più mi interessava». E cosa lo interessa, soprattutto? Lo scacco che la storia dà sistematicamente all’utopia cristiana. La scia di sangue, persecuzioni, oppressioni e ingiustizie che la Chiesa ha disseminato lungo il suo cammino storico nel tentativo di realizzare quell’utopia, ossia di portare la salvezza a tutti gli uomini. Si badi bene: Buñuel non imputa mai alla Chiesa o ai suoi esponenti, ortodossi o eterodossi, il tradimento del messaggio evangelico. Al contrario! Tutti i personaggi del film, da Priscilliano, al prete pâtelier, al gesuita, al giansenista, al maître, all’inquisitore, sono animati da autentico zelo missionario e infiammati da una fede sincera. Per questa ragione però, accecati dal proprio credo, dimenticano l’uomo nel concreto della sua condizione terrena di povertà, di oppressione e di dolore. Addirittura con le loro azioni, motivate e orientate alla salvezza delle anime, finiscono per acuirne le sofferenze fisiche e materiali.
Il rifiuto del cattolicesimo da parte di Buñuel, come il rifiuto del comunismo, altra grande utopia e altra grande “chiesa universale”, deriva proprio da questo suo orizzonte volutamente e testardamente materialista (nel senso filosofico del termine): «Credo che occorra cercare Dio nell’uomo» afferma ancora nell’intervista citata, ma, aggiunge subito: «Credo che qualunque destino, posto in una prospettiva esclusivamente terrena, venga a trovarsi in un vicolo cieco». Il materialismo di Buñuel non è, insomma, chiuso al mistero, ma si tratta sempre di un mistero di natura antropologica, non teologica: «L’ateismo – il mio comunque – porta inevitabilmente ad accettare l’inesplicabile. Tutto il nostro universo è mistero» (Dei miei sospiri estremi). D’altra parte lo stesso pessimismo esistenziale del regista nasce in primo luogo proprio dalla constatazione dell’abisso che esiste tra le utopie, come elaborato teorico, e la loro attuazione storica. In particolare proprio tra l’utopia del Vangelo e la Chiesa Militante.
Alle origini dell’Occidente cristiano
Dunque nell’estate del 1968, tra gli echi del Maggio Francese, quando sui muri si potevano leggere slogan quali «la fantasia al potere», coniati quarant’anni prima dai surrealisti, Buñuel si appresta a ripercorrere in un film la storia della Chiesa. Alla soglia dei suoi settant’anni, e nel momento storico in cui le contraddizioni della società occidentale esplodono con la massima virulenza, Buñuel fa i conti, in un modo che possiamo considerare definitivo, con la Chiesa cattolica e la sua storia. La scelta di rappresentare il cammino ecclesiale a partire dal IV secolo è a sua volta significativa. È infatti a quell’epoca che il cristianesimo diventa la cultura dominante nell’Impero Romano e la sua gerarchia si struttura come espressione terrena di un potere che, essendo ritenuto di origine divina, è posto al di sopra di qualsiasi altra autorità. Un potere che, per attuarsi, tradisce le sue stesse radici e la dottrina su cui si dice fondato.
A questo punto appare chiaro che il soggetto del film non è per nulla inattuale: negli anni della contestazione, come all’epoca della sua militanza nel movimento surrealista, per Buñuel la rivolta antiborghese non passa attraverso la riappropriazione dei mezzi di produzione industriale, secondo il dettame di Marx, bensì attraverso la riappropriazione dello spirito, alienato dalla società dei consumi e dal profitto.
Nel film il misterioso personaggio maschile che compare, a un certo punto, nella stanza di uno dei due studenti protestanti alla locanda spagnola dice: «Il mio odio per la scienza e il mio disprezzo per la tecnologia mi porteranno, alla fine, verso quell’assurda credenza in Dio» e il prete pâtelier, in una precedente tappa sul cammino di Santiago, aveva detto a sua volta, citando non esplicitamente sant’Agostino: «Credo quia absurdum».
Per Buñuel la fede in Dio può nascere unicamente dall’accettazione dell’assurdo. Solo una fede “assurda” può mettere l’uomo al riparo dai pericoli della fede stessa, ovvero dalle degenerazioni di una fede “razionalizzata” nell’esercizio del potere, nell’indottrinamento delle masse, nell’imposizione di norme etiche “universali” e altre simili aberrazioni. «Credo quia absurdum», dunque: e allora perché dovrebbe apparire assurda un ateismo che coesiste con la fede e, anzi, ne trae alimento?
Le contraddizioni dei Vangeli
A un’analisi anche sommaria La Via Lattea evidenza in primo luogo, con estrema chiarezza, il senso di lacerazione e violenza connaturato alla religione, o meglio, al suo diventare norma e regola di vita. Tale senso viene rafforzato dalla scelta delle citazioni scritturali che in questo film sono di gran lunga più numerose che in qualsiasi altra opera. Si comincia (e si finisce) con una sintesi di alcuni versetti del profeta Osea (1, 2-8) pronunciati dall’uomo col mantello e ripetuti poi dalla prostituta all’arrivo a Santiago di Compostela. Nel dettato biblico si tratta di una metafora che indica l’infedeltà di Israele verso Jahweh. I versetti di Osea sono anticipati, all’inizio, da un richiamo neotestamentario: «A chiunque ha, sarà dato e sovrabbonderà, ma a chi non ha, gli sarà tolto anche quello che ha» (Mt 25, 29). Si tratta della conclusione della nota parabola dei talenti, detta anche del Servo Inutile, ossia di quel personaggio che, avendo ricevuto un solo talento, non lo mette a frutto per timore del padrone e viene da questi condannato. Tutte le citazioni successive, da quel «Che c’è tra te e me, donna» (Gv 2, 4) detto da Gesù a sua madre alle nozze di Cana, alla parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16, 1-13), alla chiusura, affidata ancora a Gesù e al terribile monito contenuto nel vangelo di Matteo (10, 34-39): «Non pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra, ma la spada. Sono venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno i suoi familiari ecc.», rimandano a una realtà di sangue, di discordia, di violenza che, per Buñuel, sono lo scenario storico di ogni idea con pretese di assoluto e perciò di ogni religione e di ogni fede.
Il regista fa un uso ereticale delle citazioni, poiché ne modifica la finalità teologica che esse hanno nell’ambito della rivelazione. Le parole di Osea diventano così un monito (universale) all’inutilità di un qualsiasi itinerario dell’anima. Il viaggio compiuto dai due pellegrini non porta a nulla e infatti essi, alla fine, confessano alla prostituta di essere arrivati lì solo «Per fare soldi». A loro volta le frasi del Vangelo, pronunciate in qualche caso dallo stesso Gesù, diventano la dimostrazione del cammino di peccato compiuto nei secoli dalla Chiesa, amministratrice quantomai disonesta dei beni celesti.
Odiare il male o odiare Dio?
Il riferimento alle eresie vere e proprie ha a sua volta lo scopo di mostrare che, a partire dal proprio interno, la Chiesa è stata portatrice di spade, non di pace, ossia fomite di lotte e divisioni. A tutto ciò Buñuel non contrappone un ideale di umanità felice, non bestemmia Dio neppure attraverso la figura del Divin Marchese, messo in scena qui per la prima (e unica) volta come personaggio. L’inane professione di ateismo compiuta da Sade si chiude con una battuta estremamente significativa, rivolta alla giovane che il depravato signore ha rinchiuso in una cella: «Ah!… Se il tuo Dio esiste, Thérese, quanto lo odio!» In questo odio verso Dio non è difficile legge l’odio che l’uomo e, talvolta, persino il credente, prova verso il male presente nel mondo trasferito a Colui che non ne impedisce il diffondersi.
Il tema della pervasività del male, ovvero della peccaminosità dell’uomo e dell’impassibilità (o del silenzio) di Dio di fronte al peccato diventa oggetto di una delle scene più significative e rilevanti del film: il duello teologico tra il gesuita e il giansenista a proposito della cosiddetta Dottrina della Giustificazione. Per i protestanti (si vedano le affermazioni del giansenista in proposito) la salvezza deriverebbe unicamente dalla fede mentre per i cattolici (si vedano le controbattute del gesuita) occorrono anche le opere. E per Buñuel? Nel film i due pellegrini, chiamati a fare da testimoni al duello, mangiano e bevono mentre i due contendenti discutono a forza di stoccate teologiche e fendenti di fioretto. I bisogni primari e le necessità corporali, ben lungi dall’essere l’unico orizzonte del materialismo del regista, rappresentano tuttavia per lui il vero terreno di scontro e di confronto delle idee. Non a caso, in precedenza, al termine della dotta dissertazione del prete pâtelier sulla transustanziazione (termine che indica il mutamento del pane e del vino eucaristici in autentica carne e sangue di Gesù) uno dei due viandanti chiede al sacerdote: «Ma una volta nello stomaco, che diventa il corpo di Cristo?». La teologia che prescinde dai bisogni reali dell’umanità è un vuoto esercizio dialettico, un’inutile esibizione verbale. Esattamente come il duello dei due gentiluomini che si conclude, senza vincitori né vinti, con reciproci, profondi e cerimoniosi inchini. A titolo di cronaca va segnalato che, nell’ottobre del 1999, ossia dopo 30 anni dalla realizzazione di questo film e dopo quattro secoli di dispute, cattolici e luterani hanno sottoscritto ad Augsburg un documento congiunto che supera le antiche divisioni sull’argomento e revoca le reciproche scomuniche. Dove i luterani affermavano che la salvezza viene solo dalla fede e i cattolici aggiungevano le opere, ora insieme affermano: «La Giustificazione avviene unicamente per Grazia. Dalla Grazia poi vengono sia la fede, sia le opere».
Istitutrici e inquisitori
In questo stesso orizzonte etico si collocano altri due episodi del film altrettanto rilevanti: la disputa teologica del maître nel ristorante di lusso a Tours e la sequenza all’Institution Lamartine.
Arrivati a Tours, i due pellegrini si avvicinano a un lussuosissimo locale (si presume per chiedere l’elemosina, come hanno già fatto altrove) al cui interno il maître e i camerieri stanno predisponendo la sala per il pranzo. Mentre lavorano conversano sulla duplice natura di Cristo citando Marcione, Nestorio e i monofisiti. Con quest’ultimo termine (dal greco monos = uno e physis = natura) si designavano quegli eretici che sostenevano esservi in Gesù una sola natura, quella divina, e non quella umana mentre per il Magistero Gesù è, allo stesso modo, vero Dio e vero uomo. In due diversi momenti, la scena è interrotta, prima dal monologo di Sade, poi dall’episodio delle nozze di Cana, ma il suo epilogo è illuminante: «Durante il IV secolo, dopo il Concilio di Nicea, molti cristiani si sono battuti tra loro e si sono anche uccisi per sapere se Cristo era simile al Padre o se gli era consustanziale» conclude il maître. Simile (in greco ómoios) o consustanziale (in greco omoioúsios)? Il dogma stabilisce l’identità di sostanza tra Gesù (il Figlio), il Padre e lo Spirito, le tre persone della Trinità, mentre gli eretici sostenevano che il Cristo fosse soltanto simile a Dio e quindi non partecipasse appieno alla sua natura divina. Al contrario dei monofisiti, che ponevano l’accento sulla divinità di Gesù, questi altri ne sottolineavano invece prevalentemente l’umanità. Nel frattempo due clienti hanno preso posto a tavola. Si tratta di una coppia benestante, assolutamente in tono con la qualità del locale. «Di cosa stavate parlando» domanda la signora. «Oh, di niente… Del più e del meno…» le risponde il maître. «Ma di cosa, precisamente?». «Del Cristo; della sua duplice natura […] Ci chiedevamo come mai, nonostante ci fossero tanti ciarlatani, tanti visionari, nello stesso periodo, solo Cristo sia riuscito a imporsi». «Ma perché era l’unico a essere Dio». «Ma certamente, signora Garnier! Ostriche, per cominciare? Sono freschissime». «Ostriche? Sì, perché no?». Come dire: il grande Moloch della borghesia è in grado di assimilare proprio tutto, anche le dispute più sanguinose, e ridurle a contorno di un piatto di antipasti. Naturalmente il maître caccia in malo modo dal locale i due pellegrini che si sono frattanto avvicinati all’ingresso per rimediare qualcosa.
La successiva scena all’Institution Lamartine è ancora più complessa e significativa. Un’insegnante sale sul palco allestito nel prato antistante un edificio scolastico per presentare lo spettacolino di fine anno (mentre sale, in off, si sente un raglio d’asino). I due pellegrini hanno preso posto sull’erba, accanto a una famigliola che assiste alla rappresentazione. L’accenno che l’istitutrice fa alla turbolenza dei tempi (allusione al Maggio Francese) induce nel più giovane dei due viandanti una rêverie (sogno a occhi aperti) in cui immagina che un drappello di anarchici fucili il papa. Il drappello sembrerebbe appartenere a una formazione repubblicana della Guerra Civile di Spagna. L’eco degli spari viene percepito da uno degli astanti che si domanda: «Che succede? C’è un poligono qui intorno?» «No, ero io. Mi stavo immaginando che fucilassero il papa». «Ah! Stai tranquillo. Di cose se ne possono vedere tante, ma un papa fucilato, questo mai!» replica il padre di famiglia con un’amichevole pacca sulla spalla. Nonostante le barricate che brulicavano in tutta Parigi durante le riprese del film, per la fantasia al potere i tempi non erano ancora maturi.
Intanto un’intera classe di scolarette è salita sul palco (in off si sentono dei muggiti). A una a una le bambine recitano alcune massime di contenuto morale (per esempio: «Se qualcuno sostiene che è impossibile osservare i comandamenti di Dio anche da colui che si è confessato ed è in stato di grazia…») al termine delle quali tutte le altre bimbe e l’insieme dei presenti rispondono: «…Su di lui anatema». Anàthema sit era la formula che chiudeva i processi dell’Inquisizione in caso di condanna dell’imputato ed ecco che l’ultimo, fanciullesco anatema rimbomba, sotto le austere volte di un convento domenicano, in un tribunale ecclesiastico del XIV secolo contro un eretico che si è rifiutato di abiurare. Quando questi viene condotto al patibolo un giovane frate, visibilmente turbato, interpella l’inquisitore: «Mi domando se bruciare gli eretici non sia agire contro la volontà dello Spirito Santo…». «Ma è la giustizia degli uomini che li punisce. È il braccio secolare. Gli eretici non sono condannati perché eretici, ma per le sedizioni e gli attentati contro l’ordine pubblico». «Ma i fratelli di coloro che sono stati condannati ne bruceranno altri, e così di seguito. Gli uni dopo gli altri saranno sicuri di possedere la verità. A cosa saranno dunque serviti questi milioni di morti?». «Ti rendi conto di ciò che dici?» taglia corto l’inquisitore e poiché il giovane non replica gli domanda ancora: «E tu persisti?». «No. Io mi inchino, padre» sussurra il monaco rientrando nei ranghi. A chi si oppone alla potestà (morale) o al potere (temporale) della Chiesa: anàthema sit.
Nostalgia della purezza originale
Talvolta gli esegeti della Via Lattea, soprattutto coloro che non hanno dimestichezza con le Scritture, si sono lasciati andare a elucubrazioni fantasiose nel tentativo di attribuire significati specifici a questo o quel dettaglio, finendo così per smarrire il senso generale dell’opera. Si è parlato, per esempio, di una parodia (o parafrasi) della Trinità al proposito della comparsa, all’inizio, accanto all’uomo col mantello, di un nano che libera alcune colombe bianche. Ma perché parodiare un dogma quando tutto il film, inclusa la scena in questione, non ha alcun intento parodistico? Perché non pensare piuttosto a uno scherzo del demonio visto che il mantello nero foderato di rosso è indossato, nel film, da un altro personaggio diabolico? La cappa ricompare infatti sulle spalle dell’angelo ribelle venuto a prendersi il conducente dell’automobile nella scena dell’incidente stradale. In questa circostanza lo spirito decaduto manifesta la speranza di una salvezza finale estesa anche agli inferi: è la cosiddetta apocatàstasi cui fa cenno per primo, nei suoi scritti escatologici (condannati come eretici) Origene, teologo vissuto tra il II e il III secolo. Dal punto di vista dottrinale la questione non è irrilevante se, ancora pochi anni fa, il teologo Hans Urs von Balthasar ha sostenuto la tesi dell’Inferno vuoto. In Buñuel le parole dell’angelo decaduto sembrano presupporre piuttosto la nostalgia della purezza originaria del creato. Non un’età dell’oro mitica o mitizzata, ma una realtà concreta di innocenza perduta, di felicità ormai irraggiungibile. Quest’ultimo è un tema molto sentito dal regista che ne fa una sorta di personale utopia riconducibile, ancora una volta, a una matrice sadiana. Tuttavia a Buñuel non importa tanto la salvezza eterna, estesa o meno a tutte le creature, quanto l’autentico, vero, reale, concreto inferno che esiste qui, sulla terra, di cui quello ultramondano non è che una proiezione. Esattamente come nell’intensa descrizione delle pene eterne, tratta dalla Guía de pecadores di fra’ Luis de Granada che si sente, per voce dello stesso Buñuel, alla radio dell’automobile distrutta che chiude la scena in questione.
I misfatti della Chiesa
Altre illazioni più o meno fantasiose sono state fatte in abbondanza a proposito dell’ultimo episodio, quello alla locanda spagnola. Particolarmente controversa la presenza nelle stanze di Rodolfo e Francesco, rispettivamente, di una ragazza (vergine) e di un uomo nonché il divieto a entrare opposto al sacerdote che infatti comunica con i giovani attraverso la porta (tranne due sole occasioni in cui lo si vede nella stanza di Rodolfo). In questo caso l’attribuzione di significato ai simboli non deve mai perdere di vista il quadro generale dell’opera. Il Magistero insegna che Cristo ha fondato la sua Chiesa perché attraverso essa ogni uomo possa ritrovare Dio ed essere così salvato. Nel film Buñuel dimostra come nella storia sia avvenuto più spesso il contrario ossia che attraverso la Chiesa, le sue debolezze, le sue ingiustizie, le sue iniquità perpetrate in nome di Cristo, l’uomo abbia piuttosto perduto Dio e conosciuto la dannazione terrena. La presenza del prete all’esterno delle stanze può significare che l’anima (la stanza, secondo la simbologia della mistica spagnola Teresa d’Avila) può fare a meno della mediazione (intromissione) della gerarchia, sia nel caso dell’ateo Francesco che del miracolato Rodolfo. L’ateismo (l’uomo) e la fede (la vergine) possono indifferentemente albergare nelle anime: ciò che più importa è che esse siano libere da condizionamenti dottrinali. Senza la libertà anche l’applicazione più rigorosa dei precetti non porta al bene. «E se decidessimo di sposarci?» dice a un certo punto Rodolfo ed è proprio la libertà delle sue scelte l’unica cosa che può davvero giustificare l’uomo. Di fronte a se stesso prima ancora che al cospetto di Dio. Quanto alla sciabola che, al momento di andarsene, cade da sotto la tonaca del sacerdote, non è il caso di attribuirle un sovraccarico di significati. Il dettaglio, in sé volutamente ambiguo e umoristico, equivale forse ad affermare che, come insegna la sua storia, la Chiesa non è mai disarmata. Al contrario di Cristo.
Nella sua struttura formale, a libera concatenazione di elementi incongrui, La via lattea non è debitrice, dal punto di vista estetico, soltanto al surrealismo, ma anche a una forma tipica delle letteratura spagnola del Siglo de oro (XVII sec.) che va sotto il nome di picaresca. I pìcari sono personaggi a metà tra il vagabondo, il libertino e il delinquente, uomini e donne senza arte né parte perennemente in cerca di un boccone da addentare o di un loro simile da imbrogliare. Carnali fino alla bassezza eppure capaci di sottigliezze metafisiche. I due pellegrini buñueliani, così chiamati dall’uomo col mantello che offre loro il viatico per il cammino, appartengono alla specie dei pìcari e proprio in questa loro veste sono i più perfetti e imparziali testimoni delle cose incredibili che capitano nel corso del viaggio. Il loro è uno sguardo innocente e disincantato, partecipe quel tanto che basta per suscitare nel pubblico un interesse che, visti gli argomenti trattati, sarebbe altrimenti impossibile da creare e da mantenere, ma anche sufficientemente distaccato per evitare un coinvolgimento emotivo a favore di questa o quella tesi, di questo o quel personaggio. Solo così La Via Lattea può mostrarsi per quello che è: un trattato di teologia ereticale del XX secolo realizzato per immagini; una sorta di Biblia Pauperum al negativo che anziché celebrare la gloria della Chiesa e dei suoi santi ne celebra i misfatti.
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