Tra tutti i film di Carl Theodor Dreyer, quello che ha sempre suscitato e continua a suscitare le reazioni più contrastanti è senza dubbio Ordet, tratto dall’omonimo dramma del pastore protestante e scrittore Kaj Munk (1898-1944) trucidato dai nazisti durante l’occupazione della Danimarca. Il cinema di Dreyer spesso si articola sulla dialettica tra fede e ragione. I due termini non sono però destinati, secondo lo schema filosofico idealista, a comporsi in una sintesi, bensì, in chiave esistenzialista, danno vita a un incessante conflitto, ma anche a una reciproca contaminazione. Una fede che non è necessariamente di natura religiosa e una ragione che non si ferma all’esperienza sensibile, ma si apre al soprannaturale e persino al “miracoloso”.
Dal teatro al cinema
Lo sviluppo narrativo del film è molto lineare. Nella fattoria di Borgensgaard vivono il vecchio proprietario Morten Borgen, vedovo, con i suoi tre figli adulti: Mikkel, Johannes e Anders. Mikkel è sposato con Inger che è in attesa del terzo figlio dopo avergli dato due bambine. Johannes, ex studente di teologia, è malato di mente e si identifica con il Gesù della parusìa (parola greca che indica il ritorno del Salvatore alla fine del tempi). Anders è innamorato di Anna, figlia di Peter Petersen, sarto del villaggio, che nega il consenso alle nozze perché seguace di una confessione religiosa avversa ai Borgen. Nel corso del del parto, Inger e il suo bambino muoiono. Johannes, che ha promesso a Maren, la figlia più piccola di Inger, di risvegliare la madre, fugge di casa facendo perdere le proprie tracce. Nel corso delle esequie, Peter acconsente a che Anna sposi Anders. Nella stessa circostanza Johannes torna a casa, guarito. Tutti sono ora attorno alla bara di Inger…
Film di marcata impronta teatrale, è fortemente dialogato e si svolge quasi del tutto in interni tra cui il salotto della fattoria dei Borgen (che nel finale è la camera ardente di Inger) e il soggiorno della casa del sarto che serve anche come luogo di riunione della sua comunità. Proprio questi due ambienti presentano elementi scenografici molto significativi per una corretta interpretazione del film. Nel salotto di Borgensgaard campeggia il ritratto di Nicolai Frederik Severin Grundtvig (1783-1872), storico, teologo, poeta e fondatore di un movimento di rinnovamento religioso basato sull’azione caritativa. Con questo ritratto, certamente noto a tutti i danesi, Dreyer connota l’ambiente in cui vivono i Borgen, come «progressista». Per contro, in una posizione analoga nel tinello dei Petersen, e dunque come loro riferimento ideologico e culturale, c’è il ritratto di Vilhelm Beck (1829-1901), fondatore e animatore della Indre Mission (Missione Interiore), movimento d’ispirazione pietista che aveva lo scopo di risvegliare le coscienze dall’indifferenza religiosa generata dalle idee positiviste e socialiste. La Indre Mission era dunque antitetica al grundtviganesimo.
Kierkegaard e i Folli di Dio
Un terzo riferimento compare poi nelle battute di dialogo tra Mikkel e il pastore che si è recato a Borgensgaard in visita. Il fratello maggiore spiega al sacerdote l’origine della follia di Johannes: «È qualcosa che è venuto col tempo…». «Un amore?». «No, no. È stato Søren Kierkegaard». «Come?». «Sì, Johannes studiava teologia. Tutto andava bene, in principio. Poi è stato tormentato da pensieri, dubbi…».
Per la prima e unica volta Dreyer cita qui esplicitamente il padre dell’esistenzialismo il cui pensiero lo ha peraltro notevolmente influenzato. Dunque sarebbe la filosofia di Kierkegaard a determinare la follia di Johannes. In particolare, il regista individua nel dubbio l’elemento del pensiero kierkegaardiano dal quale nasce la sindrome psichica che si manifesta come autoidentificazione di Johannes con il Cristo dell’ultimo ritorno. «La fede comincia là dove la ragione finisce» scrive infatti Kierkegaard.
Di personaggi che andavano predicando con toni apocalittici l’imminente fine dei tempi è piena la storia antica e moderna della Chiesa anche se, come è facilmente intuibile, l’epoca più ricca è il medioevo. Il nome con il quale tali predicatori venivano solitamente designati era: I folli di Dio, intendendo con questo termine il radicalismo del loro messaggio spesso contrapposto alla gerarchia. Nel film, dunque, il “folle di Dio” Johannes incarna l’espressione più estrema della fede, chiaramente antitetica a quella rappresentata non solo dal pastore, ma anche a quelle due facce della stessa medaglia che sono il grundtviganesimo dei Borgen e l’Indre Mission dei Petersen. In altre parole Dreyer usa Kierkegaard (che non nutriva alcuna stima per Grundtvig) come grimaldello per scardinare il perfetto equilibrio ideologico rappresentato dalle due confessioni religiose.
Da tutto ciò si capisce come il regista si distacchi radicalmente dall’omonima piéce teatrale di Munk e dalla stessa ideologia dello scrittore, che di Grundtvig era invece un seguace, per collocare l’opera in una dimensione che di metafisico non ha più nulla anche se, proprio grazie a Kierkegaard, è tutt’altro che materialista e chiusa al mistero. Più semplicemente Dreyer identifica nei folli – Johannes, ma anche la piccola Maren, che con lo zio condivide la stessa innocente e fiduciosa apertura al soprannaturale – i depositari privilegiati di quella libertà, autenticità, vitalità dello spirito umano che nessuna Chiesa, né setta, né confessione possono reprimere.
Tra ordine e disordine
Un altro dialogo rilevante è quello tra Inger e Borgen, nella stalla della fattoria, sulla preghiera e il miracolo: «Sai cosa credo io? – conclude la donna – Credo che tanti piccoli miracoli accadano ovunque, in segreto. Dio intende bene le preghiere della gente, ma preferisce operare di nascosto, per evitare che se ne sparga la voce». Per Dreyer, insomma, lo Spirito «soffia dove vuole», al di fuori di ogni legge e di ogni regola in cui sembra invece volerlo imbrigliare la speculazione e l’azione degli uomini, specialmente quelli che affermano di credere in lui.
La struttura narrativa del film si basa infatti sull’opposizione radicale tra ordine e disordine. Ordine è il tentativo degli uomini di spiegare, condizionare, determinare il corso della vita; disordine è il libero fluire della vita stessa che si presenta sempre in nuovi eventi, in nuovi «misteri». Ordine è la laboriosa semplicità di Borgensgaard, disordine è la follia di Johannes. Un’altra crepa nell’ordine apparentemente immutabile della fattoria è anche l’ateismo di Mikkel: una ferita ancora più dolorosa per suo padre. A loro, Inger contrappone un orizzonte etico molto più ampio e non confessionale: la gratuità della grazia e la fede «delle opere». Inger, come molti personaggi femminili dreyeriani, è la voce più autentica e pura dello «spirito» che abita nel profondo dell’animo umano più che nei precetti della Chiesa o negli ammonimenti della Bibbia. Anche Anders gioca un ruolo di «rottura dell’ordine» con il suo amore per Anna e anche in questa circostanza Inger si pone come «pietra di paragone» a favore delle ragioni del cuore, le sole che davvero contino nei rapporti interpersonali.
Alle certezze dei credenti, si aggiungono poi le certezze della scienza, rappresentata dal medico chiamato ad assistere la partoriente in difficoltà. Il «miracolo terapeutico» compiuto dovrebbe sancire il primato della scienza sulla fede, almeno per quanto attiene la vita biologica, ma basta poco a smentirlo. Alla sua partenza, l’equilibrio si rompe di nuovo: inaspettatamente Inger muore e l’ordine conosce così la sua più radicale sovversione, commentata dal vecchio patriarca con una parafrasi delle parole del biblico Giobbe: «Il Signore dona, il Signore prende. Sia fatta la sua volontà».
Borgensgaard però non è più la stessa. Il quadro familiare è sconvolto, la morte e la follia hanno scalzato il poderoso albero dei Borgen. Le scene successive rappresentano il tentativo dell’intera comunità di riportare l’ordine in quella devastazione. A cominciare da Petersen che concede la mano di Anna ad Anders affinché «il posto lasciato da Inger non resti vuoto». Anche il pianto dirotto di Mikkel sul feretro della moglie è un segno dell’ordine ritrovato di cui il pastore traccia il quadro con il suo sermone funebre tutto teso all’accettazione di quell’evento. Un capolavoro d’ipocrisia, se messo di fronte alla «follia» di Dio. In quanto evento «naturale», anche la morte entra nei codici dell’esistenza: sia per chi ha fede (Borgen, Peter, il pastore), sia per chi non ce l’ha (Mikkel) e piange semplicemente il «corpo» della sua sposa. Nella camera ardente si ricompone insomma un ordine che, per quanto diversissimo da quello iniziale, codifica le nuove sicurezze di tutti i presenti. Tuttavia, ancora una volta, non è questa la parola definitiva.
Leggere nel cinema di Dreyer, come nella filosofia di Kierkegaard, il «lutto del cielo» non è sbagliato neppure in questo film così apparentemente intriso di teismo e concluso con un “miracolo”. Tra la Legge (il clero, le sette di Borgen e Petersen, la scienza medica) e il Verbo (la Bibbia, la verità rivelata), Dreyer sceglie la libertà. Libertà di Dio che sfugge a ogni tentativo di razionalizzazione umana, ma anche libertà dell’uomo di fronte a Dio. La libertà dell’amore: una forza dirompente che viene però negata dall’agire di uomini condizionati da meschinità e compromessi, paure e odi che li rendono incapaci di amare. La condizione umana è dunque quella di un bambino che ha perduto la madre. E ciò, di solito, è per sempre. Anche se talvolta (e sullo schermo) si può verificare un’eccezione.
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