Film sull’intolleranza religiosa, sulla violenza della fede, sulle verità imposte senza dimostrazione (i dogmi) anziché basate sul sapere scientificamente verificato. In un contesto storico piuttosto inconsueto dato che i nodi accennati verranno al pettine in maniera ineludibile solo nel XVII secolo, in virtù delle scoperte tecnologiche e scientifiche avvenute a quell’epoca. Qui siamo invece tra la fine del IV e l’inizio del V sec. dell’era cristiana, nella città di Alessandria d’Egitto che, ai tempi, era come la New York di oggi ossia il luogo culturalmente più avanzato del mondo conosciuto (l’Impero Romano) dove si anticipano tendenze e orientamenti destinati poi a diffondersi ovunque.
Il IV secolo è caratterizzato dalla progressiva cristianizzazione dell’apparato statale e dalla diffusione capillare della nuova religione che da culto perseguitato diventa religione ufficiale. All’inizio del secolo si colloca infatti l’Editto di tolleranza (detto anche Editto di Milano) del 13 giugno 313 emanato dagli imperatori Costantino e Licinio che concede ai seguaci di Cristo la libertà di culto. La religione fondata tre secoli prima in Palestina da una costola dell’Ebraismo esce così definitivamente dalle catacombe e vede cessare le persecuzioni cui era stata oggetto in precedenza. Nel 380 Teodosio I emana invece l’Editto di Tessalonica con cui dichiara il cristianesimo religione di stato proibendo di conseguenza ogni altro culto. Da quelli pagani all’arianesimo che era a sua volta molto diffuso nei confini dell’Impero.
In apertura: Ipazia e Davo
Il IV secolo è anche il periodo in cui si tengono i due più importanti Concili (Sinodi in greco) della storia della Chiesa, quello di Nicea nel 325, e quello di Costantinopoli nel 381, che definiscono e strutturano le basi dottrinali della religione cristiana, valide ancora oggi. A partire dal cosiddetto Simbolo Nicceno-Costantinopolitano ossia il Credo che viene recitato nel corso del culto (la messa) e che contiene i principali dogmi che il fedele è tenuto a osservare. Proprio a motivo di tale fermento dottrinale il IV, e buona parte del V secolo, sono caratterizzati da un’accesa serie di dispute teologiche (sulla natura del Cristo, sulla sua divinità, sulla salvezza alla fine dei tempi, sulla resurrezione ecc.) sfociate spesso in quelle che gli stessi concili citati bollano come eresie (monofisismo, monotelismo, nestorianesimo ecc.), ossia dottrine non conformi al messaggio evangelico. In molti casi proprio Alessandria d’Egitto è il crogiolo di tali dispute per la presenza nella città ellenistica della più grande biblioteca dell’antichità, deposito e concentrato del sapere universale, nonché di numerosi luoghi di culto e santuari pagani, come il Serapèion (tempio di Serapide), che per più di 500 anni era stato l’equivalente di ciò che oggi sono Lourdes, Fatima o Medjugorie per i cattolici. Verrà distrutto nel 391 ad opera dei cristiani dietro istigazione del vescovo Teofilo. Ma questo è già argomento del film.
Femminista antelitteram
L’opera di Amenábar è centrata su una figura storica, Ipazia, astronoma, matematica e filosofa, figlia, allieva e poi collaboratrice di Teone d’Alessandria, prestigioso docente delle stesse discipline. Di Ipazia si sa poco, se non che fosse nata verso il 355 e che morì nel marzo del 415 trucidata da alcuni fanatici cristiani nel corso di un tumulto. Da tempo infatti la città era sconvolta dalle dispute, anche sanguinose, che opponevano le nascenti comunità cristiane tra loro stesse, a motivo appunto delle difformità d’interpretazione dei testi sacri, e ai seguaci del paganesimo e dell’ebraismo. Dispute fomentate dai vescovi Teofilo e Cirillo (zio e nipote, il secondo successore del primo) che ancora oggi sono venerati come santi dalle chiese cristiane. Tra i discepoli di Ipazia vi furono certamente Oreste, che nel 415 era Praefectus augustalis, ossia la massima autorità civile di Alessandria, di nomina imperiale, e Sinesio di Cirene che nello stesso frattempo era diventato vescovo di Tolemaide (non di Cirene come enunciato nel film). La scarsità delle fonti storiche consente al regista (e al fidato sceneggiatore Mateo Gil) di allestire un grande affresco storico sull’intolleranza insita in ogni dogma di fede e sullo scontro non tra ideologie, ma tra idee e pregiudizi.
La comunità cristiana è vista nel complesso in maniera negativa. Sicuramente l’acceso zelo missionario che ha caratterizzato questa religione nei suoi primi secoli ha determinato, accanto a grandi e convinte conversioni, anche repressioni e violenze contro chi resisteva o seguitava a credere in altre dottrine. La mansuetudine del Vangelo aveva lasciato il posto al rigore. Al vescovo di Alessandria Cirillo, presule dal 412 al 444, nipote e successore di Teofilo, si deve la cacciata degli ebrei dalla città. Con ogni probabilità non si tratta di una forma di antisemitismo di tipo ideologico, ma, come evidenzia bene il film di Amenábar, dell’obiettivo programmatico del clero cristiano di spazzare via con ogni mezzo qualsiasi ostacolo si frapponesse all’affermazione capillare del nuovo credo. Allo stesso modo si comporta il personaggio collettivo rappresentato dai monaci parabolani e sintetizzato dal loro esponente di spicco Ammonio. Il film ne fa una sorta di “guardiani della rivoluzione” o membri della “polizia morale” iraniana e forse il paragone è eccessivo. In realtà si trattava di pochi (per legge) adepti votati alla cura dei malati gravi e incurabili (appestati, lebbrosi ecc). Da cui anche il loro nome, che in greco significa “coloro che rischiano la vita”. Storica è invece la santificazione di Ammonio, immediatamente dopo la sua morte, con il nome di Taumasio (il mirabile). Anche se il sant’Ammonio venerato dalla Chiesa d’Egitto è vissuto 100 anni prima dei fatti narrati nel film.
Forme ellittiche
Il racconto è diviso in due parti, distanziate temporalmente e racchiuse ciascuna in circa 55 minuti. La parte iniziale contiene la descrizione dei personaggi, la loro attività, il contesto familiare e ideologico e culmina con il saccheggio del Serapèion e della Biblioteca da parte dei cristiani. La seconda parte (introdotta dalla didascalia: alcuni anni dopo) presenta lo sviluppo dei fatti narrati in precedenza, nonché dei vari personaggi, e la morte di Ipazia. In entrambe il ruolo centrale è rappresentato dalle elaborazioni filosofiche e scientifiche di Ipazia e del suo entourage. Dalle cosiddette Coniche di Apollonio (o Cono di Apollonio) all’esperimento del sacco lasciato cadere dalla coffa della nave. Interessanti le citazioni da Aristarco di Samo, il matematico e astronomo greco vissuto tra il 310 (circa) e il 230 a.C., che calcolò con buona approssimazione il raggio terrestre dando per scontato che la terra fosse una sfera, e che formulò l’ipotesi che le stelle erranti, ossia i pianeti visibili a occhio nudo (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) si muovessero attorno al sole. Al pari della Terra! Bellissima la scena notturna del film in cui Ipazia, con il servo Aspasio, arriva a intuire che il nostro pianeta ruota attorno al sole su un’orbita ellittica di cui l’astro occupa uno dei fuochi. Forma ellittica ripresa subito dopo sullo schermo dall’oculo della cupola del Serapèion che rappresenta l’ultima visione di Ipazia prima di morire per mano del suo ex servo Davos. Quest’ultimo è l’unico dei personaggi principali del film di pura invenzione drammaturgica e serve appunto a catalizzare il tema di fondo: la capacità di mettere in discussione ciò in cui si crede. Ipazia e i filosofi possono, anzi, devono farlo se vogliono allargare le loro conoscenze. I credenti (i cristiani) invece non possono e non devono farlo in quanto per loro la fede e i dogmi prevalgono. È, in buona sostanza, lo stesso tema affrontato dal regista in Mare dentro con in più, nel film sul tetraplegico che chiede di morire, l’atroce dilemma etico che tale scelta comporta. Tanto per il credente quanto per il laico.
Per tornare ad Agorà, nella seconda parte del film il regista si discosta maggiormente dalla realtà storica rispetto alla prima, a cominciare dal fatto che al momento della sua morte Ipazia doveva avere tra i 50 e i 60 anni, ben di più dell’età dimostrata da Rachel Weisz nel ruolo.
L’uso creativo delle nuove tecnologie
Abbiamo già accennato all’accuratezza formale e alla correttezza della ricostruzione storica del film. Tanto più rilevante in quanto accomunata a un largo uso delle nuove tecnologie di cui dispone oggi la cinematografia (steadicam, computergrafica, manipolazioni digitali dell’immagine ecc.). Contrariamente a quanto avviene di solito, tali mezzi non sono usati per esaltare gli aspetti puramente spettacolari del narrato, ma a fini molto più sostanziali. Le vertiginose inquadrature dall’alto finiscono con il paragonare gli uomini a formiche o insetti, come nella scena dell’assalto cristiano al Serapèion. Gli altrettanto vertiginosi pianisequenza computerizzati dal cosmo alla terra, alla città, al singolo edificio e ai uoi interni rimandano a una sorta di sguardo divino (o degli dei) sulle sorti umane. Distante e partecipe, distaccato e coinvolgente al tempo stesso. Bellissimo l’uso della macchina da presa nella lunga sequenza dell’assalto alla Biblioteca con un movimento di rotazione sul proprio asse, fino a ottenere un’inquadratura capovolta, a significare il ribaltamento culturale in atto, il sovvertimento del sapere.
Anche in questo Amenábar mostra di essere un autentico autore proprio perché, come i grandi registi del passato, utilizza tutti i mezzi tecnici che il cinema gli offre a fini espressivi. Dominando l’immagine e la sua rappresentazione, non essendone dominato o sfruttando le innovazioni in maniera puramente virtuosistica.
Costato 50 milioni di euro (altre fonti parlano di un budget di 73 milioni) Agorà ne ha incassato 10 (38,7 secondo le altre stime). In ogni caso un clamoroso flop al botteghino che ha segnato una pesante battuta d’arresto nella carriera di Alejandro Amenábar dopo una notevole serie di successi.
Pochi i blooper. In una scena si cita la banana, frutto conosciuto sì da Alessandro Magno, ma nel corso della sua spedizione nella valle dell’Indo. Non risulta una diffusione di questa specie botanica nel bacino del Mediterraneo nel IV sec. né di una sua diffusione commerciale antecedente la fine del XIX. Dell’equivoco tra la città di nascita e la sede vescovile di Sinesio già abbiamo detto, ma il più clamoroso, proprio perché la ricostruzione storica è invece molto accurata ed estremamente attendibile, è la presenza di un vistoso fico d’india nel cortile del Serapèion saccheggiato dai parabolani e trasformato (questo sì storicamente vero) in stalla e pollaio. Al pari della Biblioteca.
Il regista
Tra i pochi talenti emersi nel cinema internazionale nell’ultimo decennio del secolo scorso va sicuramente annoverato l’ispano-cileno Alejandro Amenábar (n. 1972). La famiglia della madre era emigrata in Cile negli anni ‘30 per sfuggire al regime franchista. Quando però, nel 1973, nel paese latinoamericano si instaura la dittatura di Pinochet, i suoi genitori fanno ritorno nel paese d’origine. Alejandro, nato a Santiago del Cile, cresce a Madrid dove studia Scienze dell’Informazione all’Università Complutense, senza peraltro completare gli studi. Nei primi anni ‘90 realizza tre cortometraggi mentre l’esordio nel lungometraggio avviene nel 1996 con il film Tesis (idem), girato proprio nell’ateneo madrileno con protagonisti due giovani attori allora sconosciuti: Ana Torrent ed Eduardo Noriega. La Torrent interpreta il ruolo di una studentessa che sta elaborando una tesi di laurea sulle espressioni della violenza nei mass media. Per questo motivo si trova invischiata in un giro di insospettabili che trafficano in snuff movie, film pornografici clandestini in cui si mostrano veri delitti e torture a sfondo sessuale. Un intrigo alla Hitchock in un crescendo mozzafiato che denota già una grande padronanza del linguaggio filmico e una rara maturità artistica. Tesis ottiene un successo immediato, fa incetta di Premi Goya, gli Oscar spagnoli, e apre le porte dell’industria al suo giovanissimo autore che l’anno successivo gira, con mezzi ben più consistenti, Apri gli occhi (Abre los ojos, 1997). Sotto l’aspetto postmoderno di una storia a scatole cinesi, non è difficile leggere in filigrana un’originale interpretazione del classico teatrale spagnolo La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca (1600-1681). Anche questa seconda prova ha un cospicuo esito commerciale, non solo in Spagna, ma anche negli Stati Uniti tanto che il regista viene chiamato a Hollywood. L’attore Tom Cruise acquista infatti i diritti del film per produrne il remake che esce con il titolo di Vanilla Sky (id., 2001), diretto da Cameron Crowe. Superfluo aggiungere che nella riedizione, cui prestano il volto lo stesso Cruise, Cameron Diaz e Penelope Cruz (unica “superstite” del cast originale), non resta nulla del metatesto presente invece nella versione originale.
Gothic, ma non per tutti
Nello stesso 2001, con capitali e attori americani, Amenábar realizza il suo terzo film: The Others (idem). Ambientato in Inghilterra nel 1945 (ma girato in Cantabria, regione atlantica della Spagna), il film è apparentemente un gotic movie con protagonisti una madre e due bambini (maschio e femmina) che non possono esporsi alla luce del sole. Accanto a loro una governante, una serva e un giardiniere mandano avanti i lavori domestici nella grande casa di famiglia, isolata dal resto del paese. Anche qui, come nei due precedenti, il senso profondo dell’opera sta ben oltre il puro dato fenomenico. In altre parole l’autore riesce ancora una volta a giocare su due piani espressivi. Uno, di fruizione immediata e di facile presa sul pubblico, è quello che garantisce il successo al botteghino, mentre lo spettatore più avveduto riesce ad andare oltre la lettera e a trovare significati latenti che accrescono la densità del racconto e il suo significato. The Others è infatti una grande metafora sulla diversità, sull’alienazione (in senso letterale) e sull’intolleranza. Temi sicuramente cari al regista e parte di un vissuto personale stante la sua omosessualità in un paese a maggioranza cattolica. Il film è anche il racconto di una presa di coscienza razionale da parte di chi (la madre) si affidava ciecamente alla volontà di Dio espressa nelle numerose citazioni bibliche che costellano il racconto. Costo 17 milioni di dollari, incasso 210 milioni.
Marinaio e poeta
Un’altra regione atlantica spagnola, la Galizia, è teatro del quarto film di Amenábar, uscito nel 2004: Mare dentro (Mar adentro). Qui il regista mette in scena alcuni momenti della vita di Ramón Sampedro (interpretato da uno straordinario Javier Bardém), marinaio e poeta, costretto a vivere per 29 anni in un letto a causa della tetraplegia conseguenza di un incidente. Da una storia corale, con attori di grido e di sicuro appeal al botteghino (The Others) a uno spinoso tema etico (il diritto all’autodeterminazione nel fine vita) per un film girato quasi esclusivamente tra quattro mura, attorno al letto del protagonista. Anche in Mare dentro, come in Tesis e Apri gli occhi, un aspetto non secondario della storia è rappresentato dall’eco mediatico assunto dalla vicenda narrata. E il regista sembra essere particolarmente sensibile a questo aspetto della società postmoderna perché ha intuito con molto anticipo che lo sviluppo delle idee è oggi legato alla loro comunicazione in una misura enormemente superiore rispetto a qualsiasi altro periodo del passato. La padronanza della tecnica cinematografica (dissolvenze, panoramiche, pianisequenza…) consente inoltre al regista di esprimersi con una straordinaria libertà che trasforma il linguaggio filmico in momenti di grande spessore poetico. Per tutti: il sogno a occhi aperti del protagonista sulle note di Nessun dorma dalla Turandot di Puccini. Meritato Oscar come miglior film straniero. Piccola chiosa: il titolo italiano è un vero e proprio non senso rispetto all’allocuzione originale che dà il titolo al film. Mar adentro in spagnolo significa infatti “verso il mare aperto”, chiara allusione al “viaggio” che il protagonista vuole intraprendere mediante l’eutanasia.
Le psicosi ricorrenti
Dopo la battuta d’arresto dovuta all’insuccesso commerciale di Agorà (2009), il regista può tornare dietro la macchina da presa solo nel 2016 per girare Regression (idem) che, per alcune caratteristiche, rimanda talvolta a Tesis, la pellicola d’esordio. Là a muovere l’azione era lo snuff movie, qui è il satanismo, una delle psicosi ricorrenti nella società americana del XX secolo. Il film è elaborato a partire da un reale fatto di cronaca avvenuto nel 1990 in una cittadina del Minnesota la cui vita tranquilla venne sconvolta da un presunto caso di incesto commesso nel quadro di un rituale demoniaco. Ce n’è abbastanza perché nella piccola comunità dove tutti si conoscono e si frequentano si scateni… l’inferno. Nelle coscienze delle singole persone, più che nell’opinione pubblica. L’inchiesta, affidata a un team di poliziotti cui si affianca uno psicologo, non porta a conclusioni, ma il punto è proprio quello. Amenábar lavora per sottrazione: sotto le apparenze del thriller il vero bersaglio del regista sono le sovrastrutture psichiche condizionate da una fede malamente intesa, l’apparenza che prende il sopravvento sulla realtà, la violenza generata dal pregiudizio religioso, l’intolleranza nei confronti del diverso. Temi già presenti sviluppati in tutti i precedenti film. Argomenti attuali quanto mai, anche se la collocazione nel passato serve a mantenere il necessario distacco (come in The Others e Agorà), garanzia di lucidità e purezza dello sguardo. Come dire che i posseduti dal demonio siamo noi, nella nostra normalità perbenista, nel pregiudizio che deriva dalla rinuncia al libero pensiero per affidarsi alla guida di un’entità superiore indifferente alle sorti dell’uomo. E il risultato può essere solo un regresso “del” pensiero, non “dentro” il pensiero. Anche questo film, pur incassando più del 50% del capitale investito (budget 11 milioni, incasso 17 milioni), viene considerato un mezzo flop che mette, per il momento, la parola fine all’avventura americana di Amenábar. Il quale torna in Spagna per il successivo e finora ultimo lavoro da regista: Lettera a Franco (Mientras dure la guerra, 2019) di cui riparleremo nel percorso del cinema storico.
Pillola di Vangelo
«Il cristianesimo ha trionfato proprio perché si presentava come una proposta non valida per tutti, ma per alcuni. Peccatori, prostitute, imbroglioni erano attratti dal cristianesimo perché vi trovavano la possibilità di scavalcare i benestanti, quelli apprezzati da tutti. I contestatori, gli schiavi, coloro che non andavano d’accordo con l’andazzo generale della società trovavano nel cristianesimo antico una proposta che li considerava gli eletti. Poi c’è stato Costantino che ha capovolto le cose. Il cristianesimo è diventato un affare di stato e il cristianesimo originario è morto. È nato un altro cristianesimo». Estratto da un’omelia di don Romeo Cavedo (1936-2023), teologo e biblista, a commento del Vangelo di Matteo 22,1-14
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