Film ambientato nell’antichità romana, di cui ricostruisce con correttezza un momento storico, Scipione l’Africano è tuttavia molto più interessante come documento storico dell’epoca in cui viene girato. Esempio paradigmatico di quel cinema fascista che, nelle intenzioni di Mussolini, doveva servire a rafforzare sul piano propagandistico il consenso attorno alle scelte politiche e sociali del regime che governava il nostro paese dal 1922. Sul Popolo d’Italia, voce del partito, il Direttore Generale della Cinematografia, Luigi Freddi, il 6 aprile 1937, scrive: «Scipione l’Africano è stato ideato alla vigilia dell’impresa africana e iniziato subito dopo la vittoria. Questo film è stato realizzato perché è apparso evidente che nessun soggetto si dimostrava più adatto a essere tradotto in spettacolo per evidenziare l’intima unione tra la passata grandezza di Roma e le audaci imprese della nostra epoca fascista». Più chiaro di così…
In apertura: Camillo Pilotto è Annibale
Audaci imprese
Vediamo allora come tale intento si traduce in essere e a cosa si allude nell’articolo. Le “audaci imprese” di cui si parla è la Guerra d’Etiopia ossia della brutale aggressione scatenata dall’Italia fascista contro il paese africano tra l’ottobre del 1935 e il maggio del ‘36 e continuata ben oltre la fine delle ostilità con continue violenze sulla popolazione locale. L’invasione è il motivo per il quale la Società delle Nazioni (antesignana dell’Onu) emette una serie di sanzioni economiche contro l’Italia. Ecco dunque che, a fini propagandistici, l’Enic (Ente Nazionale Industrie Cinematografiche) crea un apposito consorzio per la produzione del film ottenendo anche dal Ministero della Guerra (che dal 1947 si chiamerà Ministero della Difesa) l’ausilio delle forze armate per le scene di massa. Dopo aver valutato alcuni nomi di prestigio per la regia, tra cui quello di Alessandro Blasetti, la scelta cade su Carmine Gallone, un affidabile artigiano della macchina da presa con all’attivo già una trentina di film tra cui alcuni successi come Malombra (da Fogazzaro, 1917), Redenzione (melodramma storico-religioso del 1919) e Gli ultimi giorni di Pompei del 1926. Nel cast entra il gotha dell’attorialità dell’epoca con interpreti teatrali e cinematografici molto popolari: Camillo Pilotto (Annibale), Fosco Giachetti (Massinissa), Isa Miranda (Velia), Francesca Braggiotti (Sofonisba), Memo Benassi (Catone), Franco Coop (Mezio), Lamberto Picasso (Asdrubale) e Carlo Ninchi (Lelio). Per il ruolo principale la scelta cade sul fratello maggiore di quest’ultimo, Annibale Ninchi, grande interprete teatrale dalla voce stentorea, ma con scarsa dimestichezza cinematografica. Sarà uno dei punti deboli del film. Per la colonna sonora si scrittura il celebre compositore Ildebrando Pizzetti che qui però non dà una prova all’altezza della fama. Le musiche sono infatti retoriche e roboanti e anziché interagire con le immagini per rafforzarne il significato si sovrappongono a esse prevaricandole. Un passo indietro rispetto a quanto Pizzetti aveva fatto nel 1914 con la composizione della Sinfonia del fuoco per il kolossal Cabiria di Giovanni Pastrone, film anch’esso incentrato sulla Seconda Guerra Punica (218-202 a.C.), il più lungo e famoso dei tre conflitti che, nell’arco di oltre un secolo (tra il III e il II a.C.), avevano opposto Roma a Cartagine.
La disfatta di Canne
Di questo conflitto infatti si parla, come spiega una lunga didascalia iniziale che inquadra i fatti, scritta in caratteri maiuscoli romani (con la v al posto della u) sul sottofondo, tanto per cominciare, di una musica retorica ed enfatica. Ecco alcuni estratti: «La competizione tra le due nazioni assume il drammatico aspetto di lotta per la vita e per la morte…». «Nell’anno duecentodiciotto a.C., Annibale cala dalle Alpi alla testa di cinquantamila uomini seminando dinanzi a sé rovina e strage…». «In uno sforzo disperato, Roma raccoglie un’altra armata, ma il due agosto del duecentosedici a.C. cinquantamila romani sono massacrati nella pianura di Canne». Uno stacco ci porta su una distesa di cadaveri. Da terra si leva un’insegna con l’aquila e una stentorea voce off proclama: «Vendichiamo Canne!».
Come si può già intuire da questi pochi elementi, il film si compone attorno alcuni slogan enunciati nel tipico lessico fascista. Parole come nazione, patria, vendetta, vittoria, armi, volontari, reduci ricorrono con stucchevole frequenza al pari di un profluvio di fasci littori e saluti romani. Retorica e propaganda.
Etiopia e Spagna
Ma andiamo più nel dettaglio. Nella popolare canzone Faccetta nera, composta nel 1935 proprio per la campagna d’Etiopia (Abissinia per l’epoca), un verso recita: «Vendicheremo noi camicie nere / gli eroi caduti liberando te». A cosa si allude? Alla disfatta di Adua del 1896 e già questo è un parallelismo esplicito, per gli spettatori di allora, tra gli antichi fasti della Roma latina in Africa e gli attuali “fasti” del regime nello stesso continente.
Le scene successive ci portano all’interno del Senato Romano dove è in corso una verbosa e sterile discussione. Dallo svolgimento della trama si intuisce l’idea, schiettamente fascista, dell’inutilità del “dibattito parlamentare” a tutto vantaggio delle scelte lungimiranti del condottiero che appare subito dopo, come in un’epifania messianica, in toga candida, al sommo di una scalinata, circondato da un tripudio osannante di sostenitori protesi in spasmodici saluti a braccio teso. Siamo nella fragrante metafora dell’uomo solo al comando, del duce che si identifica tout-court con il popolo e la patria.
Un altro accenno storico riferito a Scipione («Le facili vittorie in Spagna…») ci consegna a sua volta un’immagine dei tempi: quella Guerra Civile Spagnola iniziata appunto nel 1936 che vedeva l’Italia fascista schierata, con la Germania di Hitler, al fianco dei golpisti di Francisco Franco.
Sempre durante la lunga sequenza iniziale che narra il preludio alla spedizione africana di Scipione assistiamo ad alcuni “siparietti” popolari con protagonisti personaggi comuni o, appunto, reduci di Canne. È una scelta di Gallone e degli altri sceneggiatori: mescolare l’alto e il basso, i personaggi storici e la quotidianità spicciola degli uomini e delle donne senza nome. Non è una novità, né per il cinema né per molte altre forme d’arte, a cominciare dalla letteratura, con il precedente specifico, già citato, di quel Cabiria del 1914 che è stato certamente un riferimento e un modello da seguire da parte dei realizzatori di questo film. Va peraltro detto subito che, contrariamente all’opera di Pastrone, tale scelta si mostra qui piuttosto debole. La pagina web di Treccani Cinema valuta così il risultato: «[Il film] soffre di una sostanziale mancanza di armonia tra i personaggi storici e quelli immaginari. Questi ultimi appaiono privi di un reale spessore. Il tentativo di alleggerire la narrazione ufficiale ricorrendo a digressioni sentimentali e avventurose produce un’alternanza di scene la cui coesione risulta artificiale. Il desiderio di realizzare un film che si mantenga il più fedele possibile agli avvenimenti storici e sia nello stesso tempo assai spettacolare, o addirittura divertente, si traduce in un’opera ibrida». Opinione del tutto condivisibile.
Le campagne del regime
Al termine di questa lunga pagina introduttiva di natura pubblica, il narrato ci porta all’interno della casa di Scipione con un’inquadratura anch’essa estremamente significativa per l’epoca: la moglie del condottiero si spoglia dei propri gioielli e li depone in un forziere preso poi in consegna da un legionario. È una chiara allusione alla campagna denominata Oro alla patria culminata il 18 dicembre 1935, giornata in cui gli italiani erano invitati (per non dire obbligati) a consegnare allo stato le proprie ricchezze in metallo prezioso a cominciare dalle fedi nuziali. Rimandiamo alla relativa pagina di Wikipedia per una spiegazione più esauriente.
La storia ci dice che cinque anni dopo quella campagna, il regime, ormai in procinto di entrare nel nuovo conflitto mondiale, darà vita alla campagna Ferro e bronzo alla patria (2 aprile 1940) di cui saranno vittima principale le recinzioni in ferro (tranne i cancelli), a volte di notevole pregio artistico, di case, ville e palazzi, rimpiazzate da recinzioni piuttosto bruttine in cemento o laterizio molte delle quali sopravvissute fino a oggi.
Anche la scena finale, con il ritorno di Scipione alla vita civile in quella che parrebbe una villa rustica, contiene un preciso riferimento. Coppie di buoi aggiogate agli aratri fanno da bucolico sfondo al generale vittorioso che affonda le mani in un sacco di grano destinato alla semina. Il riferimento va a una delle prime e più durature campagne lanciate dal regime: la cosiddetta Battaglia del grano. Iniziata nel 1925 doveva servire a rendere autosufficiente l’Italia nella produzione del cereale più diffuso e utilizzato. Dieci anni dopo, sempre a motivo delle sanzioni, era stata rilanciata con ancora maggiore enfasi e un ricorso ancora più massiccio alla propaganda. Si veda al proposito il cinegiornale Luce del luglio 1935 con Mussolini a torso nudo e occhialoni da lavoro che trebbia il grano nelle campagne di Sabaudia:
Scipione Africano o Annibale Italico?
Altro cambio di scena sullo schermo e altre parole d’ordine di stretta osservanza fascista. Scipione allestisce un esercito e il richiamo alle armi diventa quasi contagioso tra tutti i ceti sociali: «Cancellare l’onta di Canne, dare alla patria una giusta pace e un più sicuro avvenire» si dice esplicitamente. Anche qui il riferimento immediato, per gli spettatori del 1937, è il concetto di Vittoria mutilata. L’espressione viene coniata da Gabriele D’Annunzio al termine della Prima Guerra Mondiale e il fascismo la fa immediatamente propria per rivendicare territori in Europa e in Africa e giustificare eventuali colpi di mano militari. Anche qui, per brevità, rimandiamo alla relativa ed esauriente voce di Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Vittoria_mutilata. Lo stesso si può dire per l’avvenire radioso ossia per un altro leit motiv della mitologia fascista.
L’apice della retorica si raggiunge però, in modo piuttosto sorprendente, in una scena in cui il protagonista è Annibale, all’interno della propria tenda da campo, quando, dopo 16 anni di campagna militare in Italia, riceve l’ordine di rientro a Cartagine perché Scipione minaccia la città con il suo esercito.
«Non Roma ha vinto Annibale, ma il destino implacabile» afferma il condottiero. Il suo luogotenente, Maharbale, gli replica: «La tua vittoria più grande l’avrai in Africa, difendendo la tua patria». Annibale: «Patria? Se la patria è quella terra per la cui conquista patire e combattere è una gioia, se la patria è quella in cui hai posto tutte le tue ambizioni e ne hai fatto la ragione stessa del tuo vivere, la terra che può farti soffrire nell’abbandonarla sino a morirne, la mia patria è l’Italia». E a queste alate parole la nobile romana Velia, che si era introdotta di nascosto nella tenda per uccidere il generale nemico, desiste dal suo proposito lasciando cadere a terra il pugnale di cui era armata.
Ormai si profila lo scontro finale e, sulla scorta dei testi di Tito Livio (scritti peraltro due secoli dopo i fatti) ripresi quasi alla lettera, sceneggiatori e regista mettono in scena il faccia a faccia tra i due condottieri al termine del quale ciascuno arringa le proprie truppe. Scipione, naturalmente, con un fraseggio molto simile a quello che si sarebbe sentito di lì a poco dallo storico balcone di piazza Venezia rivolto, purtroppo, a soldati veri in procinto di partire per una guerra non cinematografica: «La fortuna vi offre la ricompensa più bella: morire per la patria! Il vostro grido sia: vittoria o morte!»
Il bilancio di un’impresa
Già ne abbiamo fatto cenno: la ricostruzione storica (il contesto, ma anche costumi e scenografie) è estremamente corretta, frutto evidente di una profonda conoscenza delle fonti. Le risorse economiche e umane messe in campo permettono inoltre di realizzare ambientazioni di grande impatto visivo con scenari a grandezza naturale. Dalle piazze, alle fortificazioni, alle navi. Lo stesso per le scene di massa con l’impiego di migliaia di comparse ovvero reparti del Regio Esercito. Tutto molto accurato e preciso. Con un solo “svarione”, sicuramente deliberato. Nel suo verboso sermone alle truppe dal cassero della nave che lo porterà in Africa il condottiero dice: «Vi prego, o dei, che tutte le cose che compio e che compirò siano prospere a Roma, al suo popolo, ai nostri alleati, agli amici dell’impero…». Ebbene, Publio Cornelio Scipione non avrebbe mai potuto pronunciare queste parole in quanto l’Impero Romano sarebbe venuto di lì a due secoli mentre un altro impero, ed è certamente quello a cui ammicca il film, era stato proclamato il 9 maggio 1936 in seguito appunto alla conquista dell’Etiopia: l’Impero Fascista.
Detto questo, però, va rimarcato il fatto che anche la più stretta aderenza alle fonti e la correttezza storico-archeologica non impediscono di piegare la storia a scopi che non hanno nulla a che fare con il passato, ma molto a che fare con gli interessi del presente. Specialmente in un contesto totalitario dove sia la storia sia i mezzi di comunicazione di massa sono usati per puntellare e sostenere il consenso attorno alle parole d’ordine del regime. In ogni caso il risultato non si dimostra all’altezza delle ambizioni. Scipione l’Africano non ottiene il successo commerciale sperato nonostante la generosa Coppa Mussolini assegnatagli alla Mostra di Venezia del 1937 come miglior film italiano.
A questo proposito, pare che al termine delle riprese Gallone abbia pronunciato la frase: «Se il film non piace a Mussolini mi suicido». A Mussolini il film non piacque, principalmente per la performance di Annibale Ninchi, ma Gallone continuò ancora a lungo a fare i suoi film e addirittura a tornare, come si dice, sul luogo del delitto nel 1960, in pieno tripudio peplum, con Cartagine in fiamme, dall’omonimo romanzo di Salgari. Il film è ambientato nel corso della Terza (e ultima) Guerra Punica (149-146 a.C.) e ha tra i protagonisti un giovanissimo Mario Girotti (doppiato da Pino Locchi) non ancora assurto ai fasti del western spaghetti sotto il nome di Terence Hill (sempre doppiato da Locchi):
Il regista
Carmine Gallone (1885-1973) è un autore eclettico. Ha praticato quasi tutti i generi cinematografici, specialmente i più popolari, ed è anche un autore prolifico, attivo dal 1914 al 1962. Una carriera dunque di quasi mezzo secolo dagli anni del muto all’ultimo decennio durante il quale il cinema è stata l’arte visiva più popolare e diffusa. In questo lungo arco di tempo gli si riconoscono oltre 100 titoli (dunque più di due all’anno) tra cui una ventina di film muti. Gallone ha lavorato anche all’estero, in Francia, Austria e Germania, quando in Italia l’industria cinematografica era in crisi. La sua specializzazione, se così si può dire, sono le trasposizioni o adattamenti cinematografici di (o da) opere liriche: Casta diva (1935), Il sogno di Butterfly (1939), Amami Alfredo (1940), Manon Lescaut (1940), Rigoletto (1946), Il trovatore (1949), La forza del destino (1950), Cavalleria rusticana (1953) e Carmen a Trastevere (1962), rielaborazione/attualizzazione della Carmen di Bizet in ambiente romanesco con musica di Angelo Lavagnino. In questo ambito gli si devono anche le biografie di celebri musicisti: Giuseppe Verdi (1938) e Puccini (1953). Suoi sono anche due dei cinque film sui personaggi di Guareschi interpretati da Gino Cervi e Fernandel: Don Camillo e l’on. Peppone (1955) e Don Camillo monsignore… ma non troppo (1961).
In principio fu “Cabiria”
Date le notevoli affinità, pur nelle ancor più notevoli differenze di stile e di realizzazione, tra Scipione l’Africano di Gallone e Cabiria di Giovanni Pastrone, proponiamo un’ampia lettura critica anche di quest’ultimo film. Con un’avvertenza: Cabiria, come vedremo, è una pietra miliare nella storia del cinema, Scipione l’Africano il tentativo non riuscito di rinverdire quella stagione artistica.
Romanzesche avventure
«Visione storica del terzo secolo a.C.» è il sottotitolo di Cabiria, prodotto nel 1914 dalla Itala Film di Giovanni Pastrone. Produttore, sceneggiatore, regista, Pastrone profonde nella lavorazione di questo film, dall’inusitata (per l’epoca) durata di 123 minuti, enormi risorse economiche, copiose energie intellettuali e le maestranze più all’avanguardia. A cominciare dal geniale operatore di macchina e “direttore delle luci” (oggi direttore della fotografia o light designer) Segundo De Chomón. Questo aragonese globe trotter arriva a Torino come oggi i giocatori di calcio nei club più prestigiosi: strappato alla concorrenza a suon di rialzi dell’ingaggio. Nato a Teruel, approda sotto la Mole dopo aver percorso mezza Europa lasciando sul suo cammino geniali innovazioni come panoramiche, carrelli, sovrimpressioni. Tutte novità assolute per la giovanissima “settima arte”.
«Visione storica del Terzo Secolo a.C.», dicevamo. Il racconto si sviluppa infatti su una quindicina d’anni, prima e durante la Seconda Guerra Punica (218-202 a.C.), culminata nella spedizione di Annibale in Italia, nella resistenza di Siracusa all’assedio romano con l’aiuto di Archimede, il matematico ucciso da un legionario durante il successivo saccheggio della città, e nella risolutiva campagna militare di Scipione, detto per questo l’Africano, culminata nella vittoria di Zama.
Il film narra, in sintesi, tutte queste vicende storiche, ma le lascia, per così dire, sullo sfondo a vantaggio delle vicissitudini di personaggi di fantasia, protagonisti di romanzesche avventure. La narrazione comincia infatti nella casa di Batto, possidente terriero romanizzato che vive in una grande villa rustica alle pendici dell’Etna, dove la vita scorre serena tra attività domestiche e rurali. Tale pace bucolica viene bruscamente interrotta da un’eruzione del vulcano che distrugge la dimora e obbliga alla fuga i suoi abitanti. La figlia di Batto, di nome Cabiria, ancora bambina, e la sua nutrice, Croessa, vengono rapite da pirati e portate al mercato degli schiavi di Cartagine dove la piccola viene acquistata e destinata, con altri fanciulli, ai sacrifici umani nel tempio del dio Moloch. Nella disperata ricerca di aiuto, Croessa incontra Axilla, sorta di agente segreto romano infiltrato nella città nemica, e ottiene che costui, con il determinante aiuto del fedele e forzuto servo Maciste, sottragga la bimba alla morte. In seguito Croessa viene uccisa, Cabiria finisce al servizio della principessa Sofonisba, Axilla riesce a fuggire e torna a Roma mentre Maciste viene condannato a girare in perpetuo la mola di una macina.
Anni dopo, in seguito a un naufragio, Axilla finisce nella ricostruita magione di Batto dove, grazie a un anello appartenuto alla famiglia, il vecchio genitore apprende che sua figlia potrebbe essere ancora viva. Il seguito della vicenda coincide con la vittoriosa campagna di Scipione cui fanno da corollario la liberazione di Maciste e le nozze tra Axilla e Cabiria.
Artista e travet
Pioniere anche nelle tecniche di marketing, Pastrone (che di suo era violinista e ragioniere, dunque mezzo artista e mezzo travet) decide di associare al film il nome più à la page nella cultura del tempo: Gabriele D’Annunzio. Divo dei salotti letterari, conteso da donne dell’aristocrazia e dagli editori, in quel momento il vate vive a Parigi nell’autodefinito «volontario esilio». In realtà un espatrio assai poco romantico e molto più simile a una fuga da creditori imbufaliti e mariti furibondi. Ma lasciamo la parola a Maria Adriana Prolo, storica fondatrice e direttrice del Museo del Cinema di Torino, che a Cabiria ha dedicato uno studio ancora oggi fondamentale: «Il 6 giugno 1913 [Pastrone] invia al poeta la lettera in cui i due soci dell’Itala Film [lo stesso Pastrone e Carlo Sciamengo], proclamandosi “cinematografai”, dichiarano di avere in mente un progetto “di grande profitto e minimo disturbo” e chiedono l’autorizzazione di sottoporglielo […] L’Itala Film avrebbe offerto a D’Annunzio 50mila lire-oro per il suo nome come autore del film, per il titolo e per le didascalie». Il solo D’Annunzio avrebbe dunque percepito un compenso il cui importo, all’epoca, sarebbe bastato per produrre un intero film e questo fa capire quanto fosse esorbitante lo sforzo finanziario messo in campo da Pastrone per realizzare Cabiria. Tanto che, alla fine, il costo raggiungerà il milione di lire.
D’Annunzio non si fa pregare e applica alla lettera l’invito al «grande profitto e minimo disturbo». Le sue ampollose e arrovellate didascalie sono la parte più debole del film, la meno cinematografica nella loro esibita letterarietà e nella stucchevole ricerca di termini dotti e obsoleti, di latinismi, insomma di tutto il peggior ciarpame lessicale che lo scrittore attinge dal proprio repertorio. Oggi rappresentano la zavorra più pesante per un’opera che conserva invece nel suo aspetto figurativo un’incredibile freschezza di ispirazione e una straordinaria modernità di stile. Specialmente quando De Chomón riesce a muovere la macchina da presa. Diversa la sorte dei nomi dei personaggi di fantasia e qui D’Annunzio conferma la sua formidabile inventiva. A cominciare da quel Maciste, «antichissimo soprannome del semidio Ercole», specifica il vate in una lettera a Pastrone, archetipo e iniziatore della lunghissima galleria di uomini forti del cinema che ha avuto il suo apogeo nel genere peplum tra gli anni ‘50 e ‘60 del ‘900. Grazie anche al suo interprete, il camallo del porto di Genova, Bartolomeo Pagano, passato dall’oscuro lavoro di scaricatore di navi ai fasti del nascente star system.
Come una première teatrale
Anche per la musica serve un nome di richiamo e, su suggerimento dello stesso D’Annunzio, Pastrone contatta Ildebrando Pizzetti che nel 1908 aveva già composto la partitura per La nave, tragedia scritta dal vate diventata poi a sua volta un soggetto cinematografico. Pizzetti compone la celebre Sinfonia del fuoco per baritono, coro e orchestra della durata di circa dieci minuti contenente l’Invocazione a Moloch, la crudele divinità fenicio-cananea cui la tradizione attribuisce sacrifici umani. Contrariamente a quanto si legge in molti testi divulgativi, la musica di Pizzetti non è concepita per accompagnare le sequenze del film in cui si mostra appunto il tempio con la folla orante e i bambini che spariscono nel grembo infuocato dell’enorme idolo, ma come ouverture alla rappresentazione del film, concepito, di fatto, come un melodramma. La sinfonia doveva infatti introdurre alla visione del film, a sipario ancora abbassato, mentre il sottofondo sonoro da eseguire durante la proiezione delle immagini viene invece commissionato a un collaboratore di Pizzetti, Manlio Mazza, assai meno noto (e costoso) del grande maestro.
La prima del film si tiene infatti sabato 18 aprile 1914 al Teatro Vittorio Emanuele di Torino, città sede della Itala Film, con un côté di mondanità simile appunto a una première teatrale. A tutti gli spettatori viene fornito un libretto di sala, simile a quello dei melodrammi, in cui, dopo una breve presentazione storica, vengono stampate le «note all’azione», ossia le didascalie dannunziane. I formati del libretto sono tre, diversi a seconda degli ordini di posti. Per il pubblico di platea e dei palchi un in-folio con incisioni e un ritratto del poeta ricavato da quello dipinto da Romaine Brooks; per gli spettatori della galleria il formato è ridotto e senza ritratto, ma con le incisioni, mentre ai loggionisti va una brochure in sedicesimo con solo l’introduzione e le didascalie. In copertina, per tutti, un’incisione con un cavallo (simbolo, chissà perché, di Cartagine) azzannato alla groppa da una Lupa, animale araldico di Roma, sullo sfondo stilizzato di una palma.
I motivi di una scelta
Ma perché proprio una «Visione storica del Terzo Secolo a.C.»? Come ogni opera d’arte anche il film di Pastrone pur parlando del passato ci parla del presente. Forse l’ispirazione del soggetto viene suggerita al produttore-regista dai fatti di cronaca politica più recenti, a cominciare dalla Guerra Italo Turca combattuta tra il 1911 e il 1912 che potevano in qualche modo richiamare i fasti delle antiche conquiste romane nello stesso quadrante geografico. Dal conflitto che portò alla conquista della Libia si può inoltre risalire di non molti anni al cosiddetto Schiaffo di Tunisi perpetrato dalla Francia ai danni dell’Italia nel 1881, quando il governo della Terza Repubblica occupò con un colpo di mano militare la Tunisia, stato vassallo dell’Impero Ottomano governato da un bey, facendone un protettorato (e poi colonia) francese a scapito delle analoghe mire italiane, basate sulla presenza nel paese della più numerosa comunità straniera. Dal piano storico si può inoltre passare a quello più strettamente commerciale con il tentativo dell’Itala Film e, più in generale, dell’industria cinematografica italiana, di scalzare il dominio dei mercati detenuto fino a quel momento dai marchi transalpini Pathé Frères e Gaumont. Rivalsa economica, ma anche culturale in quanto a Cabiria viene subito riconosciuto quel primato artistico che ne fa uno dei film più rilevanti della storia del cinema. È nota, per esempio, l’ammirazione che suscitò in Fritz Lang, che ne riprese alcune idee nel suo Metropolis (1927), e in David Wark Griffith, pioniere del cinema americano, che ne trasse ispirazione diretta per l’episodio babilonese del suo Intolerance (1916), ma che, più in generale, fu condizionato nell’elaborazione della sua opera dalle notevoli innovazioni stilistiche ed estetiche della pellicola di Pastrone. A sua volta Intolerance influì su autori come Sergej M. Ejženstejn e Carl Theodor Dreyer (Pagine dal libro di Satana, 1921) sicché si può dire che Cabiria è stato il volano creativo per una folta schiera di personalità della storia del cinema oltre che della pletora dei già citati film in costume antico-romano del secondo dopoguerra.
La romanità sul grande schermo
A questo punto bisogna analizzare le fonti iconografiche di Cabiria. Come per molti altri film coevi di ambientazione antica (per esempio Gli ultimi giorni di Pompei, 1913, di Eleuterio Rodolfi, prodotto dalla Ambrosio di Milano), l’ispirazione visiva è data dalla pittura dei preraffaeliti inglesi ovvero da autori come Sir Lawrence Alma Tadema e John William Waterhouse interpreti a loro volta di una romanità manierata e sognante. Molti interni, per esempio l’appartamento regale di Sofonisba, rimandano invece all’Art Nouveau primo ‘900 mentre i costumi della stessa Sofonisba, con i loro diademi, le piume, i turbanti, fanno tanto Belle Époque. Il tocco di contemporaneità non stride peraltro con ambientazioni, costumi e con le grandiose scenografie in scala 1:1, ancora possibili negli anni pionieristici, filologicamente desunti (o rielaborati) dalle pur scarse fonti archeologiche. Con Cabiria abbiamo inoltre la rara fortuna di poter ammirare ancora oggi una pur piccola parte di quelle scenografie a cominciare dalla statua di Moloch, visibile al Museo del Cinema di Torino, all’interno della Mole Antonelliana. Per le scene con l’esercito di Annibale che valica le Alpi o la spedizione africana delle legioni romane, Pastrone gira gli esterni in autentici scenari naturali: le Valli di Lanzo, in Piemonte, e il deserto libico. Anche queste innovazioni non da poco (fino a quel momento i film a soggetto erano girati interamente in studio, con fondali dipinti) hanno determinato da un lato il successo commerciale di Cabiria, dall’altro il suo rilievo nella storia del cinema.
Blooper… ai fichi
Tanta accuratezza, sfarzo e sforzo produttivo cascano però in un clamoroso blooper per quanto riguarda la rappresentazione dei giardini. Quello della grande villa di Batto e quello, si presume ancor più vasto e rigoglioso, della reggia cartaginese, chiamato da D’Annunzio gli Orti di Asdrubale. Le coste della Sicilia e del Nordafrica hanno in comune il clima e, dunque, anche la flora. Quell’insieme di alberi d’alto fusto, arbusti, erbe e fiori che compongono la cosiddetta macchia mediterranea. Le scene in esterni dei giardini sono state girate in non meglio precisati giardini liguri. Ancora oggi le riviere di levante e di ponente ne ospitano numerosissimi, pubblici e privati. A cominciare dai celeberrimi Giardini Hanbury di Mortola, nei pressi di Ventimiglia. Per le riprese del film, i giardini prescelti sono stati adattati alle esigenze cinematografiche con inserzioni di erme (quello di Batto) o di pilastri e aste sormontati da cavalli, liocorni e altri animali araldici (quelli cartaginesi). In entrambi i casi nelle inquadrature fanno bella mostra rigogliosissime piante di agave e altrettanto fiorenti fichi d’india. Anche se questi vegetali fanno ormai parte della macchia mediterranea, si tratta però di essenze di origine americana, portate nel Vecchio Continente solo dopo le scoperte geografiche del XVI secolo.
Per evitare il clamoroso errore, sarebbe bastato a Pastrone interpellare qualche botanico: sicuramente gli sarebbe costato meno di D’Annunzio. In alternativa, si potrebbe invece aggiornare il celebre aneddoto relativo a Catone il Censore il quale, ogni volta che prendeva la parola nel Senato Romano e qualsiasi argomento trattasse, concludeva il ragionamento con la frase: «Ceterum censeo Carthaginem delendam esse (infine ritengo che Cartagine debba essere distrutta)». In una occasione, a rimarcare il concetto, avrebbe estratto da sotto la toga un cesto di fichi freschissimi provenienti appunto dalla città nemica, per mostrare quanto fosse prossima la sua minaccia. In un’ipotetica scena di Cabiria avrebbe potuto esibire fichi… d’india!
Siccome poi la storia, anche quella del cinema, ha sempre la sua nemesi (vendetta), per ironia della sorte il terzo figlio di Pizzetti, Ippolito, nato dodici anni dopo il film, è stato un celebre paesaggista, architetto di giardini, docente nonché autore della garzantina (enciclopedia) dei fiori e del giardino. Non risultano suoi commenti professionali all’opera di Pastrone.
Gli altri Scipioni dello schermo
Parlato in romanesco stretto e girato negli scavi di Pompei (cosa che oggi sarebbe inaudita, ma che nel secolo scorso era abbastanza frequente), Scipione detto anche l’Africano (1970) di Luigi Magni (1928-2013) non presenta solo queste peculiarità. Nel cast ricompare un protagonista del film di Gallone, Fosco Giachetti, qui nei panni di Aulo Gellio. Vittorio Gassman è Catone il Censore e Silvana Mangano Emilia Terza, moglie dell’Africano. Ma il colpo da maestro di Magni, specialista in film di ambiente e storia di Roma come In nome del Papa Re (1977), Arrivano i bersaglieri (1980) e State buoni, se potete (1983) è l’aver portato sullo schermo a interpretare i fratelli Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano, e Lucio Cornelio Scipione, detto l’Asiatico, due fratelli-attori: Marcello e Ruggero Mastroianni. Tanto celebre il primo, grande divo, quanto oscuro il secondo che qui è alla sua prima e unica prestazione davanti alla macchina da presa. Per gli addetti ai lavori però Ruggero Mastroianni è notissimo dietro la macchina da presa o meglio, alla console della moviola essendo uno dei più apprezzati montatori del cinema italiano (incluso questo film). La vicenda narra un episodio poco noto, ma documentato dalle fonti, di malversazione da parte dell’Asiatico che fu scoperto e denunciato da Catone. Le rovine archeologiche, che fanno da quinta “reale” senza modifiche o aggiustamenti, i costumi ben ricostruiti e la parlata, tendono a creare una sorta di corto circuito storico tra passato e presente (gli anni ‘60-70) per dimostrare quanto attuale fosse l’italico e atavico vizio di gestire a fini personali le risorse pubbliche e di quanto inutile fosse la moralistica difesa del malversatore. Lodevole intento, che si arena tuttavia in una realizzazione un po’ stucchevole, verbosetta e noiosa nonostante le indubbie capacità degli interpreti. Incluso il Mastroianni “minore”.
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