Per i produttori, realizzare un film partendo da un romanzo di grande successo è quasi sempre garanzia di un sicuro ritorno economico. Per registi e sceneggiatori la stessa cosa si configura invece come una sfida molto ardua, quasi sempre persa in partenza. Tuttavia non mancano eccezioni a quest’ultima regola. È il caso della trasposizione cinematografica del Nome della rosa, il primo e più celebrato romanzo di Umberto Eco, da cui il regista francese Jean-Jacques Annaud ha tratto l’omonimo film interpretato da Sean Connery, F. Murray Abraham e da un quasi esordiente Christian Slater. In questo caso il successo della pellicola non è da ascriversi solo alla notorietà e alla diffusione del testo letterario da cui è tratta, ma a meriti suoi e, soprattutto, ai motivi che l’hanno differenziata dalla pagina scritta. Vediamo dunque di mettere a fuoco tali differenze.
Il problema della conoscenza
Al centro dell’opera di Eco sta il problema della conoscenza rappresentato dal Secondo Libro della Poetica di Aristotele, quello che parla della commedia, ovvero del “bello che induce al riso”. Come spiegato nel libro (e nel film) quel testo aristotelico è ignoto ancora oggi, probabilmente perduto per sempre anche se si sa che è stato scritto. Il che vuol dire che, al contrario degli altri testi aristotelici, nel corso del medioevo non è stato copiato ossia non è stato ritenuto degno di essere tramandato ai posteri. Non dimentichiamo, al proposito, che nell’Europa occidentale la conservazione e la riproduzione dei testi classici (e, più in generale, di tutta la letteratura) avveniva principalmente negli scriptoria dei monasteri ossia nei luoghi in cui i codici venivano riprodotti e copiati. Non dimentichiamo neppure che fino alla scoperta della stampa a caratteri mobili, ossia fino al XV secolo, le biblioteche dei monasteri più ricchi disponevano di poche centinaia di codici. Rarissimamente si arrivava al migliaio includendo naturalmente le opere contemporanee oltre a quelle classiche.
Come l’occhio di un ciclone
Ma torniamo al romanzo di Eco. Da quanto detto si capisce che il suo centro, il perno attorno cui ruota l’azione, è un centro “vuoto”. Come l’occhio di un ciclone, immobile e tranquillo, attorno al quale si scatena la tempesta. Noi oggi riteniamo giustamente che la scienza debba muoversi in tutti i campi del sapere e delle sue applicazioni senza preconcetti. Men che meno di ordine filosofico, religioso o morale. Questa caratteristica del sapere scientifico è relativamente recente e trae origine dalle correnti razionaliste del pensiero che si affermano a partire dal XVI secolo ad opera di pensatori quali Copernico, Galilei, Hobbes, Locke e Hume. Tre secoli prima costoro avevano avuto degli anticipatori in Ruggiero Bacone e in Guglielmo d’Occam. Nel Nome della rosa il personaggio immaginario di Guglielmo da Baskerville, che non a caso è inglese, si dimostra ottimo discepolo di Bacone e Occam (esplicitamente citati) proprio nell’affidare la propria indagine sui delitti avvenuti nell’abbazia di cui è ospite unicamente agli strumenti della ragione lasciando perdere suggestioni teologiche quali le trombe dell’Apocalisse o l’azione diretta del demonio.
I limiti del sapere
Nel corso degli avvenimenti però il suo obiettivo cambia: a un certo punto non gli importa più scoprire il colpevole (o i colpevoli) dei delitti quanto raggiungere la conoscenza segreta racchiusa nel volume aristotelico. Guglielmo diventa così un antesignano dei moderni scienziati per i quali il progresso della scienza viene prima di ogni altra cosa. Anche l’inevitabile conflitto con il vecchio Jorge, il monaco cieco, rientra in questo schema poiché l’ex bibliotecario viene a impersonare quei limiti che, ancora oggi, la religione vorrebbe imporre al libero corso della ricerca. Noli altum sapere scrive l’apostolo Paolo nella sua lettera ai cristiani di Roma (11, 20) e oggi la pericope viene tradotta come: «Non montare in superbia», ma nei secoli passati quella che era una condanna della superbia morale veniva trasformata nel biasimo puro e semplice verso la curiosità intellettuale. Una sorta di “non andare al di là del tuo naso”. Trasferito il concetto dal piano ideologico a quello politico, cosa del tutto normale nel medioevo, ne conseguiva una sorta di freno totale alla libera ricerca, o meglio un asservimento del sapere razionale alle “leggi” divine. Di cui era depositaria, ovviamente, la Chiesa di Roma. Il che significava anche che la struttura sociale, ordinata gerarchicamente, dal sovrano al servo della gleba passando per clero, nobiltà e ceto artigianale-mercantile, non potesse essere modificata. Nell’Occidente cristiano dell’età di mezzo avveniva più o meno ciò che avviene oggi in alcuni paesi a maggioranza musulmana dove la sharia (norma religiosa) condiziona e determina non solo i comportamenti individuali, ma anche le relazioni sociali e la stessa impalcatura dell’apparato statale.
Eccessiva verbosità
Benché, con malcelata civetteria, Umberto Eco abbia sempre sostenuto che l’ambientazione medievale del suo romanzo rispondesse a una ragione puramente opportunistica («Il presente lo conosco solo attraverso lo schermo televisivo mentre del medioevo ho una conoscenza diretta»), come ogni autore egli lavora sul passato per parlarci del presente. Il romanzo verte dunque sulla conoscenza, sui suoi limiti, sui suoi confini, sulle sue categorie, ma, essendo Eco un semiologo, questi problemi vengono affrontati essenzialmente in termini semantici, ovvero attraverso i segni sui quali Guglielmo lavora e, di conseguenza, lavora anche il lettore. Tali segni sono naturalmente collocati nel corso della storia come indizi della vicenda “gialla” perché Il nome della rosa, benché ambientato nel medioevo, rimanda piuttosto alla novellistica di Raymond Chandler e Dashiell Hammett. Il limite maggiore del romanzo è però dato proprio da tale autoreferenzialità: il “segno” è fine a se stesso, il continuo rimando ad Aristotele non proda ovviamente a nulla e al termine dell’estenuante lettura delle 503 pagine del libro il lettore si sente un po’ come l’abate Faria del Conte di Montecristo che, dopo aver scavato per vent’anni, si ritrova in un’altra cella. A condizionare negativamente la struttura del romanzo interviene poi l’eccessiva verbosità della scrittura di Eco, che si compiace a ogni piè sospinto della propria conoscenza della materia, ma che sconfina altrettanto di frequente nella riproduzione quasi letterale di opere di autori medievali, note solo agli specialisti, come l’anonima Cronaca di fra’ Michele minorita, testo fiorentino del ‘300 che tratta gli stessi argomenti presenti nel romanzo ossia la condanna al rogo di un monaco che professava (come il francescanesimo delle origini) la povertà assoluta di Cristo. E quindi della Chiesa.
Infine, tra le fonti di ispirazione alle quali Umberto Eco ha attinto ci sono molte suggestioni del medioevo piemontese, la sua regione di origine. Dal personaggio (storico) di Ubertino da Casale, all’eresia dolciniana, diffusa principalmente nel novarese, allo stesso schema architettonico dell’abbazia ricalcato abbastanza palesemente sulla Sacra di San Michele in val di Susa.
Variazione di coordinate
Il tema del pauperismo, lasciato da Eco piuttosto sottotraccia nel suo romanzo a vantaggio dell’indagine sulla Poetica di Aristotele, rappresenta invece il leit motiv del film. Il regista infatti mette in scena il testo di Eco variandone le coordinate principali pur mantenendo il tema della conoscenza che sta al centro dell’opera letteraria. Nel libro l’inquisitore Bernardo Gui (altro personaggio storico inserito nel racconto) conclude l’interrogatorio del cellario (il dolciniano fra’ Remigio da Varagine) con queste parole: «L’imputato, reo confesso, sarà condotto ad Avignone, dove avrà luogo il processo definitivo, a salvaguardia scrupolosa della verità e della giustizia, e solo dopo quel regolare processo sarà bruciato». Nel film invece si approntano subito i roghi, non soltanto per lui, ma anche per il deforme Salvatore e per la ragazza senza nome, accusata di stregoneria, con la quale il novizio Adso di Melk, l’io narrante, ha avuto un fugace rapporto amoroso. Alla scena conclusiva dei roghi ne segue un’altra a sua volta assente nel romanzo: la morte violenta dell’inquisitore in seguito alla rivolta del popolo. Un blooper in senso stretto in quanto il film è ambientato nel 1327 mentre il Bernardo Gui storico muore di morte naturale nel suo letto quattro anni dopo. Nel film proprio la presenza, sia pur appena accennata, del popolo, personaggio collettivo del tutto assente nel romanzo, costituisce il termine di maggior interesse per comprendere lo spostamento di focale operato da Annaud rispetto a Eco. Se è vero, come abbiamo visto, che nel XIV secolo nascono i primi germogli del razionalismo, è altrettanto vero che il Trecento è anche il secolo dei cosiddetti movimenti pauperistici ovvero di quelle rivolte che scossero, dal punto di vista ideologico e politico, le fondamenta stesse della società e che costituirono i prodromi di quella rivolta di classe che avrà la sua affermazione compiuta solo nella Rivoluzione Francese del 1789. Il romanzo accenna vagamente solo all’eresia dolciniana, caratterizzata peraltro dai forti accenti populisti e “anticapitalistici”, ma furono molti altri i movimenti analoghi nel corso del secolo: la Jacquerie francese del 1357, il Tumulto dei Ciompi nella Firenze del 1378, le analoghe sommosse a Gand e Ypres nel 1379, a Lubecca nel 1380, a Rouen e, ancora, a Parigi nel 1382. Insomma in tutto il vecchio continente le classi subalterne prendono coscienza della loro condizione e si ribellano al potere e quindi, indirettamente, alla Chiesa. Sulla scorta proprio di quelle tensioni religiose, di quel dibattito estremamente sentito, sulla povertà di Cristo e sulla ricchezza dei suoi rappresentanti terreni.
Le rivolte dei poveri
Annaud ha dunque spostato il problema della conoscenza dall’astrattezza della filosofia (e della semiologia) al concreto del conflitto sociale anche se, per la sua formazione culturale tende a vedere questa lotta politica con l’occhio dell’antropologo più che del sociologo. Per quanto sia significativa, infatti, quella mano contadina armata di pietra, nel buio rotto solo dalle fiamme dei roghi, è solo un accenno che non risparmia neppure l’ultimo, stucchevole incontro del novizio con la ragazza, anch’esso assente nel romanzo. La figura della giovane però è a sua volta interessante proprio per la diversa connotazione che il film ne dà, divergendo, ancora una volta, dalla pagina scritta. Figura inconsistente e meno che fugace nel romanzo, nel film diventa la portatrice del messaggio più drammaticamente “moderno” dell’intera vicenda. Al pari di tanti giovani di oggi, lei è quella che prende la vita così com’è, senza porsi domande, senza preconcetti, senza dogmi. Spinta dalla fame, ma anche da un più profondo, sia pur solo accennato, “male di vivere”. La giovane diventa così l’emblema di un’umanità che ha rinunciato a credere in qualcosa. Come i pauperes nel medioevo, così oggi la società (dei ricchi, dei potenti, dei sapienti) relega un numero sempre maggiore di giovani a un ruolo subalterno rendendoli schiavi di falsi messaggi. Nell’età di mezzo le promesse di redenzione e felicità ultraterrena a compenso dell’inferno terreno, oggi, come testimoniano con allarmante frequenza le cronache, il consumismo sfrenato brucia invece esistenze (proprie e altrui) per un post su Instagram o per un like sui social.
Destini incrociati
Detto delle diversità tra libro e film è giusto rimarcare anche le analogie. Entrambi, per esempio, rispettano le cosiddette unità aristoteliche (luogo, tempo e azione) ossia mettono in scena vicende che originano, si sviluppano e si concludono in un medesimo luogo circoscritto, in un lasso di tempo limitato, e dove l’azione drammaturgica segue una linea progressiva (inizio-sviluppo-fine) senza divagazioni o diramazioni narrative. Tuttavia Annaud non rinuncia a sovrapporre a tale schema compositivo un finale alla Griffith ossia un montaggio parallelo (mostrare alternativamente due fatti che avvengono in contemporanea, ma in luoghi diversi) con Guglielmo e Adso nella biblioteca alla ricerca del libro proibito e Bernardo Gui con il suo codazzo di scherani nella spianata all’esterno dell’abbazia dove sono stati eretti i roghi.
Come mai il pubblico ha accolto con grande favore un libro così poco comprensibile come quello di Eco e il film che ne è stato tratto? Per una ragione, principalmente, al di là delle profonde differenze che intercorrono tra le due opere. A tutti è parso evidente il messaggio che sottende entrambe: la spinta all’abbattimento degli idoli, la trasformazione del dogmatio noli altum sapere paolino, nel sapere aude (abbi il coraggio della conoscenza) di Kant. Forse è proprio questa qualità consolatoria del libro e del film che ne ha decretato il successo. Il pubblico ha sempre bisogno di personaggi vincenti, anche sul piano puramente intellettuale, come Guglielmo da Baskerville. Se poi questi intellettuali hanno il volto di Sean Connery…
Il regista
Dopo una lunga attività come autore di spot pubblicitari negli anni ‘60, attività esercitata saltuariamente anche in seguito, il francese Jean-Jacques Annaud (1943) passa al cinema di fiction prediligendo soggetti storici o naturalistici. A partire dal film d’esordio Bianco e nero a colori (Noir et blancs en couleur, 1976) che mette in scena con ironia la Prima Guerra Mondiale vista da un angolo sperduto dell’Africa coloniale francese. Dopo un film d’attualità non riuscitissimo (Il sostituto, Coup de tête, 1978) arrivano i tre titoli certamente più famosi e riusciti del regista: La guerra del fuoco (1981), appunto, Il nome della rosa (The Name of the Rose, 1986), dal celebre romanzo di Umberto Eco, e L’orso (L’ours, 1988) definito “favola ecologica vista dalla parte degli animali”. Dopo il sentimentale-esotico L’amante (L’amant, 1992), dall’omonimo romanzo della Yourcenar, arriva un altro successo, sempre a soggetto storico: Sette anni in Tibet (Seven Years in Tibet, 1997) complice, forse, la presenza della star Brad Pitt. Meno riuscito il successivo Il nemico alle porte (Enemy at the Gates, 2001), sull’assedio di Stalingrado nella Seconda Guerra Mondiale. In Due fratelli (Two Brothers, 2004) il regista riporta in scena gli animali, in questo caso due cuccioli di tigre. Poco riuscito, ma decisamente singolare Sa majesté minor (2007) ambientato in una Grecia preomerica intrisa di mito. Peggior risultato del regista al box office. Ancora tre storie dal passato negli ultimi tre titoli: Il principe del deserto (Black Gold, 2011) sugli albori dell’industria petrolifera in Medio Oriente, L’ultimo lupo (Wolf Totem, 2015) ancora di ambientazione cinese, e Notre-Dame in fiamme (Nôtre-Dame brûle, 2022) sull’incendio che ha devastato la cattedrale di Parigi nel 2019. A titolo riassuntivo si può dire che il percorso artistico di Annaud è stato comunque dedicato essenzialmente alla ricerca di un cinema anticonvenzionale, cosa che gli ha fatto girare meno di una quindicina di film in oltre 40 anni di attività. In alcuni casi investendo anche capitali propri in qualità di produttore. Anche questa, a suo modo, una prova di coraggio e coerenza artistica.
Le invenzioni dei “secoli bui”
Oculi de vitro cum capsulam! Così un amanuense definisce i rudimentali occhiali che Guglielmo da Baskerville estrae da sotto la tonaca e poggia sul naso per leggere meglio una minuta su un foglio. Siamo nello scriptorium dell’abbazia e tale “novità tecnologica” desta naturalmente curiosità e stupore. Nel romanzo, Eco si compiace di questa “chicca” facendo sapere al lettore che uno strumento oggi così diffuso come le lenti correttive della vista fosse già in uso nel XIV secolo. Ennesima riprova che l’età di mezzo fu un’epoca di grande progresso e sviluppo tecnologico e non quella parentesi di oscurantismo e ignoranza tra antichità e rinascimento così come molti credono ancora oggi. Secoli “luminosi” non certo bui, anche se le condizioni materiali di vita degli uomini, l’igiene e la profilassi lasciassero piuttosto a desiderare.
Tanto per fare alcuni esempi di tali invenzioni, al medioevo risalgono la staffa, che ha rivoluzionato le tecniche di cavalcatura (e anche della guerra), lo spallaccio per gli animali da tiro (nell’antichità si usava una specie di collare, molto meno efficace), la carriola, che ha alleggerito il lavoro manuale di contadini, muratori e molti altri operai, per non parlare delle finestre di vetro, ignote all’antichità, e dei bottoni per chiudere gli abiti al posto delle fibule che serravano le toghe. E se non bastano questi piccoli, ma importantissimi oggetti di uso comune anche oggi, pensiamo ai cosiddetti numeri arabi che hanno rivoluzionato e semplificato enormemente calcoli e conteggi. Introdotti in Europa nel ‘200 dal matematico pisano Leonardo Fibonacci che, guarda caso, era di stanza a Bugia (l’odierna Beaja, Algeria) con il fondaco (magazzino) di famiglia. Pensiamo alla bussola e a cosa ha significato questo strumento per la navigazione. Pensiamo, infine, all’istituzione di banche, università e ospedali (i luoghi di cura per i malati), tutte “invenzioni” dell’età di mezzo che durano ancora oggi, basate sugli stessi principi che avevano ispirato gli uomini e le donne del medioevo. E l’elenco sarebbe ancora molto, molto lungo.
Per tornare agli occhiali di fra’ Guglielmo, nel proporre questa piccola chicca Uberto Eco aveva certo presente gli affreschi trecenteschi della basilica domenicana di San Nicolò, a Treviso. Attribuiti a Tommaso da Modena i dipinti riproducono i quaranta uomini ritenuti allora più importanti per l’ordine religioso. Tra questi figura Hugues de Saint-Cher (o Ugo di Provenza), il primo domenicano a essere nominato cardinale, rappresentato mentre è intento a chiosare un testo avvalendosi appunto di un paio di oculi de vitro cum capsulam. La prima rappresentazione al mondo di una persona con gli occhiali.ù
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