Ci vuole un notevole coraggio per scrivere un film ambientato 80mila anni prima di Cristo. E ce ne vuole forse ancora di più per produrlo e distribuirlo. Anche se, all’origine, c’è l’omonimo romanzo dovuto allo scrittore di successo J.H. Rosny aîné (1856-1940) antesignano della letteratura fantascientifica di fine ‘800. La guerra del fuoco (La guerre du feu, 1981) è infatti ambientato in una preistoria molto verisimile ricostruita in luoghi impervi, di natura selvaggia e incontaminata, nella Columbia Britannica canadese (il Canada è coproduttore insieme con la Francia), in Scozia e in Kenya. L’epoca rappresentata (80mila a.C.) coincide con l’inizio del periodo glaciale detto di Wurm destinato a durare fino al 10mila a.C. È l’epoca più fiorente per animali oggi estinti come i mammuth, che vengono mostrati in scena utilizzando elefanti addestrati e opportunamente camuffati dai truccatori. Il tempo della computergrafica e degli effetti speciali alla Jurassic Park (1997), tanto per capirci, non era ancora arrivato. Altri animali estinti caratteristici del periodo, a loro volta messi in scena con buona approssimazione, sono gli smilodonti (felini comunemente definiti, con termine improprio, “tigri dai denti a sciabola”) e l’orso delle caverne (Ursus spelaeus), molto più grande delle maggiori razze attuali. Per lo sviluppo della narrazione filmica, oltre al romanzo di Rosny, regista e sceneggiatori si sono avvalsi della consulenza di due personaggi particolari: Desmond Morris (1928) e Anthony Burgess (1917-1993). Il primo è un etologo e sociobiologo autore nel 1967 del libro di divulgazione scientifica di successo La scimmia nuda-Studio zoologico sull’animale uomo le cui tesi confluiscono in certa misura nel film.
A Morris si deve anche la consulenza sui gesti e il linguaggio del corpo che gli attori hanno utilizzato per le loro interpretazioni. Burgess è stato invece scrittore e glottoteta, ossia inventore di linguaggi. A lui si deve, tra l’altro, il romanzo Arancia meccanica (1962) da cui è stato tratto il celebre film di Stanley Kubrick del 1972. Per questo suo lavoro Burgess aveva inventato un particolare slang (parlata) usato dai componenti della banda di teppisti le cui gesta rappresentano il centro del racconto. Per il film di Annaud, Burgess è stato consulente per il “linguaggio vocale” usato dagli uomini primitivi. Ovviamente incomprensibile. Di rilievo anche la colonna sonora, in bilico tra dodecafonia e sonorità ancestrali, del musicista francese Philippe Sarde (1948). A dimostrazione del fatto che nulla cambia sotto il sole anche a distanza di migliaia di anni e che l’uomo è sostanzialmente lo stesso “animale” oggi come ieri (e, presumibilmente, domani) nel film si fa ricorso agli ingredienti abituali dei film storici: avventura, amore, lotta e catarsi finale. In scena c’è una tribù di Neandertahl, gli Ulam, che vive in grotte ai piedi di una falesia. I membri della tribù custodiscono con cura e devozione un focolare da cui attingono la fiamma per alimentare i falò con cui scaldarsi.
In seguito a un assalto dei Wagabou, tribù costituita da esemplari di Homo Erectus (sorta di scimmioni molto più primitivi) la fiammella si spegne. Incapaci di generare il fuoco, tre esploratori si staccano dal resto della tribù per cercare una nuova fonte di calore e recuperare così il prezioso elemento. Dopo innumerevoli peripezie i tre riescono a rubare alcune braci a una tribù Neanderthal antropofaga (i Kzamm) e a liberare una donna di Homo Sapiens destinata al banchetto. Costei li conduce presso la propria tribù (gli Iwaka), che è molto più evoluta. I sapiens sanno costruire utensili, vasellame e, soprattutto, sono in grado di generare le fiamme mediante lo sfregamento di due bastoni. Il ritorno dei tre alla comunità d’origine coincide con un grande balzo di civiltà grazie appunto a questa tecnica e alla fusione etnica tra Neanderthal e Sapiens.
Il film di Annaud, dicevamo, è abbastanza rigoroso e corretto per quanto riguarda la scienza paleontologica anche se oggi si tende a datare l’arrivo dei Sapiens in Europa non prima del 49mila a.C. Per quanto riguarda la contaminazione genetica tra le due specie, è assodato che la popolazione europea moderna abbia tra il 2 e il 6% di genoma Neanderthal che sale al 12-20% tra i popoli asiatici. Ma il teatro della storia potrebbe anche essere il Nordafrica dove peraltro i Neanderthal sono scarsamente documentati.
Il film è costato 12 milioni di dollari dovuti in gran parte alla preparazione e alle riprese in location impervie sparse in giro per il mondo. Quanto agli attori si tratta in tutti i casi di caratteristi poco noti resi ancor più irriconoscibili dal pesante trucco di scena. Alcuni interpreti, come Everett McGill (Naoh, il capo degli esploratori) Ron Perlman (Amoukar) Nameer El Kadi (Gaw) e Rae Dawn Chong (la sapiens Ika) sono stati per così dire lanciati da questo film e hanno ottenuto in seguito ruoli più rilevanti. L’incasso è stato di oltre 20 milioni: il coraggio è stato dunque premiato anche al botteghino.
Il regista
Dopo una lunga attività come autore di spot pubblicitari negli anni ‘60, attività esercitata saltuariamente anche in seguito, il francese Jean-Jacques Annaud (1943) passa al cinema di fiction prediligendo soggetti storici o naturalistici. A partire dal film d’esordio Bianco e nero a colori (Noir et blancs en couleur, 1976) che mette in scena con ironia la Prima Guerra Mondiale vista da un angolo sperduto dell’Africa coloniale francese. Dopo un film d’attualità non riuscitissimo (Il sostituto, Coup de tête, 1978) arrivano i tre titoli certamente più famosi e riusciti del regista: La guerra del fuoco (1981), appunto, Il nome della rosa (The Name of the Rose, 1986), dal celebre romanzo di Umberto Eco, e L’orso (L’ours, 1988) definito “favola ecologica vista dalla parte degli animali”. Dopo il sentimentale-esotico L’amante (L’amant, 1992), dall’omonimo romanzo della Yourcenar, arriva un altro successo, sempre a soggetto storico: Sette anni in Tibet (Seven Years in Tibet, 1997) complice, forse, la presenza della star Brad Pitt. Meno riuscito il successivo Il nemico alle porte (Enemy at the Gates, 2001), sull’assedio di Stalingrado nella Seconda Guerra Mondiale. In Due fratelli (Two Brothers, 2004) il regista riporta in scena gli animali, in questo caso due cuccioli di tigre. Poco riuscito, ma decisamente singolare Sa majesté minor (2007) ambientato in una Grecia preomerica intrisa di mito. Peggior risultato del regista al box office. Ancora tre storie dal passato negli ultimi tre titoli: Il principe del deserto (Black Gold, 2011) sugli albori dell’industria petrolifera in Medio Oriente, L’ultimo lupo (Wolf Totem, 2015) ancora di ambientazione cinese, e Notre-Dame in fiamme (Nôtre-Dame brûle, 2022) sull’incendio che ha devastato la cattedrale di Parigi nel 2019. A titolo riassuntivo si può dire che il percorso artistico di Annaud è stato comunque dedicato essenzialmente alla ricerca di un cinema anticonvenzionale, cosa che gli ha fatto girare meno di una quindicina di film in oltre 40 anni di attività. In alcuni casi investendo anche capitali propri in qualità di produttore. Anche questa, a suo modo, una prova di coraggio e coerenza artistica.
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