Ci vuole indubbiamente del talento per realizzare un film di 180 minuti su un pittore senza mostrare nemmeno una pennellata. Anzi: l’unico gesto “pittorico” che vediamo compiere dal protagonista è gettare un secchio di vernice su una parete bianca e passarvi sopra una mano come il più arrabbiato esponente delle avanguardie informali del ‘900. Anche se siamo agli albori del XV secolo. Il film di Tarkovskij verte infatti sulla figura – più che sull’opera – di Andreij Rubliëv (1360-1430) monaco russo e pittore di icone che per talento e capacità espressiva qualcuno ha paragonato a un Giotto o a un Beato Angelico slavo, ma di cui si conosce poco a nulla a livello biografico. Quest’ultimo fatto ha permesso al regista di conferire al personaggio sfumature psicologiche molto particolari, più in sintonia con la propria estetica che con la mentalità e il pensiero medievali. Fuor di metafora, per Tarkovskij il discorso sull’arte di Rubliëv equivale a una riflessione sulla propria arte di regista. Sul senso che ha, nella Russia degli anni ‘60, fare cinema e farlo nel modo in cui lui lo fa.
Il film, girato in uno smagliante bianco e nero, ha avuto una genesi e una realizzazione tormentata, durata lo spazio di tre anni (1966-69). Dovuta sia a una laboriosa composizione dell’impianto scenico da parte del regista, sia a problemi di censura e distribuzione da parte della cinematografia di stato sovietica ossia da parte di chi l’aveva prodotto. La sceneggiatura è stata realizzata da Tarkovskij in collaborazione con l’amico (di cinque anni più giovane) Andreij Michalkov-Konchalovskij, conosciuto alla scuola di cinema di stato Vgik, che a sua volta esordisce alla regia in quello stesso torno di tempo.
Prologo
I titoli di testa del film scorrono su un muro imbiancato, forse un intonaco appena steso in attesa dell’affresco. Segue uno strano prologo, con il volo di un uomo appeso a una rudimentale mongolfiera. È forse il desiderio dell’arte di librarsi al di sopra delle bassezze terrene? Sta di fatto che, dopo un breve tragitto, l’improvvisato Icaro si schianti al suolo sulle rive di un fiume dove un cavallo brado si rotola a terra.
Il buffone-1400
Con questa didascalia inizia la scansione narrativa vera e propria del film che si articola attorno a singoli episodi in particolari contesti spaziali e temporali. Siamo appunto nell’anno 1400 e tre monaci, Andreij, Kirill e Daniil sono diretti a Mosca. Sorpresi dalla pioggia trovano riparo in una rudimentale capanna di legno dove si sono rifugiate anche altre persone, contadini o poveri operai. In attesa del bel tempo uno dei presenti con canti e balli mette alla berlina i boiardi (la classe aristocratica) tra le risa generali. Il monaco Kirill afferma però che i buffoni sono creature del demonio. Arrivano quattro cavalieri che arrestano il buffone, lo caricano su uno dei loro animali e lo portano via dopo avergli distrutto la cetra. Anche qui la metafora è evidente: agli artisti non è permesso sbeffeggiare il potere, pena l’arresto. Intanto ha smesso di piovere e i tre monaci possono rimettersi in cammino mentre sulla riva opposta del fiume passano i cavalieri con il loro prigioniero.
Teofane il Greco-1403
Anche questo artista è un personaggio storico, vissuto tra il 1335 e il 1410, e figura nei documenti accanto al più giovane Rubliëv di cui forse è stato il maestro. Teofane è il protagonista del secondo episodio, che inizia con un’esecuzione pubblica e un lungo dialogo privato tra l’anziano pittore e il monaco Kirill. La conversazione verte sui contorni “etici” dell’arte. Secondo Kirill, per essere un ottimo artefice, a Rubliëv mancano «Il timore di Dio e la fede». Teofane gli replica: «Nella saggezza c’è sempre dolore, la conoscenza conduce al pianto» frase che può essere applicata perfettamente all’opera cinematografica di Tarkovskij. Teofane ha bisogno di un aiutante per portare a termine un importante ciclo di affreschi e sembrerebbe orientato a scegliere Kirill. All’ultimo momento però preferisce Rubliëv al che il rivale getta alle ortiche il saio e torna nel mondo ottenebrato dall’odio e compiendo un gesto di violenza gratuita che, pur non mostrata, ma soltanto suggerita, provoca nello spettatore una forte repulsione. Ci saranno molte altre situazioni analoghe nel film rispondenti, ovviamente, a una scelta estetica del regista che della violenza (suggerita più che esibita come accade invece in certi prodotti commerciali di Hollywood) fa una cifra stilistica per rimarcare il proprio pessimismo sulle qualità morali dell’uomo. Il cui destino è orientato al male.
La passione secondo Andreij-1406
Nel terzo episodio Rubliëv e Teofane discutono di arte, di sacre scritture, ma soprattutto di umanità. L’anziano maestro è pessimista. Il giovane allievo all’apparenza mostra maggiore fiducia nel prossimo, ma è soltanto uno spostamento di segno (e senso): Andreij vorrebbe uscire dagli schemi pittorici della tradizione per portare sulle tavole delle icone o sulle pareti delle chiese uomini e donne “veri”, non la loro trasfigurazione (o esaltazione) mistica. Proprio come sta avvenendo nel villaggio in cui si trovano dove è in corso una sacra rappresentazione della Via Crucis interpretata da uomini e donne comuni. Se vogliamo una forzatura storica in quanto Rubliëv è considerato dagli storici dell’arte un autentico innovatore della pittura russa, ma anche questa un’idea che calza alla perfezione per il cinema di Tarkovskij.
La festa-1408
In questo episodio Rubliëv entra involontariamente a contatto con un gruppo di persone che praticano un rito pagano. Una sorta di festa della fertilità primaverile, con i simboli dell’acqua e del fuoco, da cui è involontariamente attratto. Una giovane donna, Marfa, lo coinvolge ancora di più nel rito durante il quale il monaco viene crocifisso in modo incruento da alcuni giovani per essere poi liberato da Marfa. Il mattino seguente i partecipanti al rito vengono catturati dai soldati mentre Marfa riesce a sfuggire traversando a nuoto il fiume sotto lo sguardo assente di Andreij che sta passando su una barca. Dunque i soldati (spalleggiati da alcuni monaci) reprimono giullari, pagani e artisti. Anche qui una metafora che non ha bisogno di ulteriori commenti.
Il giudizio universale-1408
Nel successivo capitolo, ci spostiamo dalla lussureggiante natura del rito pagano al bianchissimo interno di una chiesa della città di Vladimir in attesa di essere affrescata. Tra le pareti nude, impalcature, scale, attrezzi e colori aspettano l’intervento degli artefici. Ma Rubliëv rilutta. Il soggetto da dipingere è un Giudizio Universale e il pittore non vuole che la sua arte terrorizzi il popolo e sull’argomento discute con l’amico e confratello Daniil. Un flash back ci riporta a un episodio avvenuto in precedenza quando gli sgherri del principe per il quale essi lavorano accecano per vendetta altri artisti nel folto di una foresta. Qui cade anche il gesto della vernice gettata da Andreij su una parete e il rapporto tra il vedere (o il non vedere) da parte dell’artista e la massa scura del colore steso con la mano la dice lunga ancora una volta sulle intenzioni del regista e della sua messa in scena cinematografica. L’episodio (e la prima parte del film) si conclude con l’arrivo di una donna muta, una “folle di Dio”, cioè un essere estraneo al corpo sociale, mentre un giovane apprendista legge il passo della Prima lettera di Paolo ai cristiani di Corinto (11, 3-15) che recita testualmente: «Voglio che sappiate che il capo di ogni uomo è Cristo, che il capo della donna è l’uomo e che il capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza a capo coperto fa disonore al suo capo, ma ogni donna che prega o profetizza senza avere il capo coperto da un velo fa disonore al suo capo, perché è come se fosse rasa. Perché se la donna non ha il capo coperto, si faccia anche tagliare i capelli! Ma se per una donna è cosa vergognosa farsi tagliare i capelli o rasare, si copra il capo. Poiché, quanto all’uomo, egli non deve coprirsi il capo, essendo immagine e gloria di Dio; ma la donna è la gloria dell’uomo: perché l’uomo non viene dalla donna, ma la donna dall’uomo; e l’uomo non fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Perciò la donna deve, a causa degli angeli, avere sul capo un segno di autorità. D’altronde, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo senza la donna. Infatti, come la donna viene dall’uomo, così anche l’uomo esiste per mezzo della donna e ogni cosa è da Dio. Giudicate voi stessi: è decoroso che una donna preghi Dio senza avere il capo coperto da un velo? Non vi insegna la stessa natura che se l’uomo porta la chioma, ciò è per lui un disonore? Mentre se una donna porta la chioma, per lei è un onore; perché la chioma le è data come ornamento». La “folle di Dio” tocca la vernice gettata sulla parete e si mette a piangere. «Dov’è in lei il peccato anche se non ha il capo coperto?» commenta amaramente Rubliëv mentre si allontana. Anche la donna esce di scena.
L’incursione-1408
La seconda parte del film è composta di tre soli episodi, ma più lunghi ed elaborati dei primi cinque. La differenza più evidente tra le due ante del “dittico” è che nella seconda prevale il personaggio collettivo, il popolo o l’insieme delle masse rispetto ai lunghi dialoghi che caratterizzano i primi episodi. A non cambiare è, ovviamente, il senso generale dell’opera che dalla focalizzazione sui singoli individui in scena passa qui a una dimensione più corale. Siamo sempre a Vladimir e assistiamo all’incursione di un piccolo, ma agguerrito esercito di tartari il cui kahn si è alleato con il fratello del principe, intenzionato a usurpargli il trono. In flashback assistiamo al precedente rito di conciliazione tra i due fratelli all’interno della cattedrale e sotto gli occhi del metropolita. Nell’incursione la stessa cattedrale, dove la popolazione inerme ha trovato rifugio, viene saccheggiata, data alle fiamme e il metropolita torturato a morte. Nel corso del massacro Rubliëv uccide un soldato (russo!) per salvare la “pazza di Dio” da uno stupro. Anche in questo caso la realtà della storia è più feroce delle minacce ultraterrene che Andreij non avrebbe voluto dipingere. E un piccolo secchio di vernice, forse di colore giallo, si rovescia nell’acqua di un ruscello. Va notato che nel corso di tutto il racconto l’acqua è una presenza costante e quasi ossessiva. Vero che il paesaggio russo è costellato da grandi fiumi, laghi, stagni, paludi, ma Tarkovskij sfrutta questo dato naturalistico a fini espressivi come appunto nel caso del colore che si disperde in un liquido più vasto. Anche l’arte si disperde nel tempo e nello spazio e gli uomini spesso non sanno coglierla. Dopo l’incursione, Rubliëv vaga tra le rovine della cattedrale e i corpi degli uccisi. Ritrova Teofane, che gli appare in carne e ossa anche se ormai è morto. I due si parlano per l’ultima volta e Andreij manifesta tutta la sua disperazione, ancora sconvolto dall’omicidio commesso. Fa quindi voto per il futuro di astenersi dalla pittura e dalla parola (voto del silenzio). Teofane commenta altrettanto amaramente: «Voler distruggere il male è come voler distruggere l’umanità». L’episodio si chiude sul volto addormentato, sporco, ma sereno, della “pazza di Dio”.
Il silenzio-1412
L’inverno è tornato e anche Rubliëv è tornato al monastero di Andronikov da cui era partito 12 anni prima. Compie i lavori più umili e ha fama di santo. Nel convento vive anche la “pazza di Dio”. Qui riappare Kirill, pentito, che chiede di essere riammesso nella comunità monastica. L’abate lo accoglie a patto che per il resto dei suoi giorni si dedichi alla copiatura delle sacre scritture. Un manipolo di guerrieri tartari entra nella grande corte, ma non con intenzioni bellicose. Anzi, il capo si invaghisce della “pazza di Dio” e la prende come ottava moglie portandola con sé. La donna accetta di buon grado vincendo la resistenza di Rubliëv che tenta inutilmente di dissuaderla. L’episodio si conclude con un faccia a faccia tra Andreij e Kirill.
La campana-1423
Si tratta del capitolo conclusivo ed è il più lungo e articolato. Quasi un film nel film. All’apparenza c’è un protagonista, Boris, giovanissimo fabbricante di campane, ma la sua è solo una figura catalizzatrice di tensioni drammatiche che coinvolgono l’intera comunità. È la stagione del disgelo e anche in questo episodio una scia di colore scuro che sporca il manto candido della neve introduce la vicenda ambientata nel corso di una pestilenza che ha falcidiato la popolazione. Gli emissari del principe cercano artigiani in grado di fabbricare un’enorme campana, ma la pestilenza (e i tartari) hanno portato via tutti. Il giovane Boris, poco più che un ragazzo, figlio di un maestro fonditore, chiede gli sia affidato il compito in quanto il padre, sul letto di morte, gli avrebbe trasmesso tutti i segreti del mestiere. A capo di una schiera di artefici, Boris deve ora trovare il sito adatto per creare la fornace, deve trovare l’argilla, deve scegliere la proporzione dei vari metalli che comporranno la lega di bronzo. Sa che se sbaglia, lui e i suoi compagni verranno decapitati. Il lavoro si prolunga, molte soluzioni proposte vengono scartate da Boris che sembra molto sicuro di sé anche se spesso prende decisioni contrarie all’usuale. Il lavoro procede e sul cantiere arrivano anche dei monaci tra cui Kirill e Andreij che, senza rinunciare al voto del silenzio, segue Boris quasi come un’ombra protettrice. Gli intoppi non mancano, passano i mesi, ma alla fine si arriva al momento della fusione non prima che il buffone del primo episodio arrivi quasi a uccidere Rubliëv ritenendolo responsabile del suo arresto e delle conseguenti torture. Kirill confessa di essere stato lui il delatore e rinfaccia al confratello lo spreco del suo talento in seguito alla rinuncia di dipingere. Anche questo dialogo, o meglio monologo in quanto Rubliëv continua a tacere, è una riflessione di Tarkovskij sul senso e sulla prassi artistica. Tutta la comunità è ora impegnata a estrarre l’enorme campana dalla fucina alla presenza della nobiltà e del clero. Fino all’ultimo Boris dubita che possa suonare. Quando il suono purissimo si diffonde per le campagne, ripreso da quello di altre campane, il ragazzo scioglie la tensione in un pianto dirotto. Accanto a lui c’è Rubliëv che raccoglie la confessione del giovane: il padre non gli aveva rivelato alcun segreto portandosi tutto nella tomba. A questo punto il monaco scioglie il voto del silenzio e parla a Boris proponendogli di partire insieme verso una nuova destinazione dove l’uno dipingerà icone e l’altro costruirà campane.
Epilogo
Una lenta panoramica sposta l’inquadratura dai due personaggi per fissarsi su alcune braci fumiganti della fucina dopo di che una lenta dissolvenza incrociata introduce all’unica sequenza a colori del film che, su una colonna sonora di musica corale antica, mostra per una decina di minuti i dettagli pittorici di alcune icone attribuite al pittore quattrocentesco, o risalenti alla sua epoca, tra cui la celebre Trinità considerata uno dei capolavori dell’arte russa. Come il prologo anche questa sequenza si conclude però sull’inquadratura in bianco e nero di alcuni cavalli bradi sotto la pioggia sulle rive di un fiume.
Il regista
Il russo Andrej Tarkowskij (1932-1986) è certamente uno dei registi più innovativi nel panorama europeo della seconda metà del ‘900. Nonostante la breve vita e l’esiguità della produzione artistica (solo sette lungometraggi in 25 anni) le sue opere hanno inciso profondamente nel linguaggio cinematografico e lasciato un’impronta indelebile nonostante le difficoltà incontrate all’interno del sistema produttivo sovietico, controllato dai burocrati del Pcus. Nel solco della grande tradizione cinematografica russa, all’avanguardia negli anni ‘20 e ‘30 con autori come Ejzensteijn, Viertov, Dovzenko e altri intellettuali vicini al cinema come Majakowski, Osip e Lilja Brik, Stanislawskij e Mejerchold, Tarkowskij innova radicalmente il linguaggio filmico con gli strumenti della psicanalisi, della letteratura, del teatro e della pittura fino ad arrivare a una forma estetica autonoma di grande impatto visivo. Sia che narri di un ragazzo coinvolto nelle vicende della Seconda Guerra Mondiale (L’infanzia di Ivan, 1962) sia che si rivolga alla tradizione artistica ortodossa (Andrej Rubliev, 1966-69) o che esplori le frontiere della fantascienza (Solaris, 1972, Stalker, 1979 e Sacrificio, 1986) o che indaghi i rapporti familiari (Lo specchio, 1975). Con il cinema Tarkowskij è in grado di abolire la realtà spazio-temporale per immergere lo spettatore in una sorta di narrazione libera che oltrepassa le barriere della razionalità. Particolare importanza nella poetica del regista hanno anche le vicende personali e della sua famiglia, sublimate a loro volta da uno sguardo senza tempo che parla alle coscienze di ogni individuo. Il grande affetto per la madre e la conflittualità con il padre, Arsenj, importane poeta, ma genitore assente e problematico, emergono in film come Lo specchio (1975) e Nostalghia (1983) non in forma di narcisistici amarcord, ma come esempi universali e atemporali. Perciò concretissimi e vitali.
Di lui disse Igmar Bergman: «Il film, quando non è un documentario, è un sogno. È per questo che Tarkovskij è il più grande di tutti».
Medioevo slavo… di cartapesta
Una didascalia che segue i titoli di testa del film La regina dei tartari (1960) di Sergio Grieco colloca la storia che sta per passare sullo schermo «Nelle steppe nordorientali dell’Europa alla fine del medioevo…». Dunque siamo negli ultimi decenni del XV secolo tra le attuali Polonia, Bielorussia e Russia ovvero, per restare al periodo, nel principato di Novgorod, più o meno la stessa area geografica che fa da sfondo alle imprese di Aleksandr Nevskij (XIII sec.) e alle peregrinazioni del monaco Rubliëv, all’inizio del XV. E alla coeva dominazione tartara. Anni luce lontano tuttavia da una pur minima aderenza storica a favore del più becero armamentario pepulm e cappa&spada tipici del periodo. Con la “maggiorata” italo-cubana Chelo Alonso a catalizzare gli sguardi del pubblico maschile grazie a vertiginosi spacchi nelle gonne e striminziti bolerini sul busto. Il massimo consentito dalla censura d’epoca, capace di bloccare l’uscita di un film per l’esibizione di qualche centimetro di troppo di epidermide femminile. Sul versante maschile da notare invece la presenza del prezzemolino del genere: l’italo-franco-lituano Jacques Sernas nel ruolo dell’eroe.
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