Nella storia dell’Unione Sovietica la fine degli anni ‘30 coincide con le più terribili purghe staliniane. Che coinvolgono alcuni tra gli amici più intimi e tra i più assidui collaboratori di Ejzenstejn, tra cui il drammaturgo Isaak Babel e lo scrittore Sergej Tretyakov, arrestati e condannati ai lavori forzati, ossia praticamente condannati a morte. Anche attorno a lui lo spazio si stringe. Il biennio 1936-37 è per il regista il più amaro: alle spalle ha una lunga inattività forzata e due film, quello sul Messico e Il prato di Bezin, che gli sono stati letteralmente strappati di mano e che non è mai riuscito a ultimare. Anche i progetti gli vengono sistematicamente ostacolati. Gli resta solo l’insegnamento all’Istituto Superiore della Cinematografia di Stato, ma per un creatore di immagini come lui, questa attività equivale a una condanna.
La nuova estetica, imposta d’autorità in tutti i rami dell’arte, dalla letteratura al teatro, dalla scultura al cinema, è il cosiddetto realismo socialista, un complesso di regole, a volte anche minuziose, tese a conferire all’espressione estetica una valenza sociale e politica. In concreto questo significa limitare pesantemente la libertà degli artisti che sono costretti, per esempio e per limitarci al cinema, a inserire in ogni storia un eroe positivo, a connotarlo come emanazione del popolo e la cui azione deve essere uniformata alle direttive del partito comunista. Questioni attinenti la sfera sentimentale devono essere solo accennate e sempre nel quadro di una esaltazione delle virtù collettive del gruppo di appartenenza (la fabbrica, il kolchoz, l’esercito ecc.). Film esemplare del realismo socialista è considerato Ciapaiev (1934), di Sergej e Georgj Vasiliev (omonimi, non parenti), un polpettone indigesto e agiografico su un contadino, il personaggio del titolo, che durante la guerra del 1919 tra l’esercito dei Bianchi e l’Armata Rossa, attraverso i consigli di un commissario del Pcus, prende coscienza del suo ruolo nella costruzione della nuova Russia bolscevica e muore da eroe.
Passato e presente
Questo modo di fare cinema è semplicemente e diametralmente opposto a quanto Ejzenstejn ha realizzato nelle sue opere ed elaborato teoricamente nei suoi scritti. Nei suoi film il personaggio principale è sempre la massa, il popolo nel suo insieme. La struttura drammatica del narrato si è sempre sviluppata secondo il principio dialettico della tesi e dell’antitesi. Stessa cosa sul piano visivo attraverso un accuratissimo montaggio, elemento base della forma cinematografica. Una struttura estetica, quella propugnata da Ejzenstejn, in aperto contrasto con i dettami, appunto, del realismo socialista. Il prestigio della sua figura è tale però che l’affidargli una nuova realizzazione, dopo che il regista ha fatto pubblica ammenda dei propri “errori” di fronte al Congresso degli scrittori e cineasti sovietici, è parso quasi un atto doveroso anche ai burocrati del Pcus.
È in questa non certo invidiabile situazione che gli viene offerta la possibilità di tornare dietro la macchina presa. Per evitare rischi gli si impone come soggetto la biografia di un principe russo del XIII secolo, Aleksandr Nevskij, che, per un breve periodo, era riuscito a liberare le pianure comprese tra il Baltico e il Don dalla dominazione mongola e che era riuscito, soprattutto, a fermare l’espansione verso Est dei Cavalieri Teutonici e Portaspada nella battaglia sul lago ghiacciato Pejpus avvenuta il 5 aprile 1242. Quando un esercito raccogliticcio e male armato di fanti aveva battuto la più poderosa e terrificante macchina bellica dell’epoca che, fino a quel momento, sotto le insegne della croce nera, aveva seminato sangue e distruzione tra i popoli slavi. Per limitare ulteriormente i danni, i burocrati affiancano a Ejzenstejn, come aiuto registi (in realtà come “controllori”), proprio i Vasiliev di Ciapaiev. Ejzenstejn accetta e si adatta alle direttive, ossia lascia mano libera ai suoi “assistenti” nell’impostazione generale dell’opera. Il principe Nevskij diventa così un precursore del piccolo padre, uno Stalin medievale che libera Novgorod a furor di popolo, che arringa le folle con discorsi patriottici e che compare sulla soglia della sua tenda come un’icona sacra. Il bianco e nero della fotografia è morbido, persino patinato, teso a esaltare le imprese dell’eroe cui fanno da contraltare popolaresco le smargiassate di Gavrila e Vasilij, soldati tutti d’un pezzo innamorati della stessa donna, la vergine guerriera Olga, e che per lei si buttano nelle imprese più rischiose.
Soluzioni formali
Ejzenstejn si concentra e concentra tutto il suo smisurato talento sull’episodio chiave del film, la battaglia sul lago ghiacciato. La veridicità e la verisimiglianza storica sono rispettate scrupolosamente tuttavia il regista fa di questo scontro uno strumento narrativo straordinario per riaffermare tutte le proprie idee sul cinema: la massa come protagonista al posto del singolo personaggio, il colore, ossia le tonalità del bianco e del nero, usate in modo antinaturalistico e a fini espressivi, il montaggio (cioè la composizione iconografica) all’interno dell’inquadratura e il montaggio tra inquadrature come giustapposizione di piani e forme plastiche in contrasto tra loro in modo da dare dinamicità al narrato anche senza una vera e propria azione scenica. Infine la musica, non come aggiunta all’immagine, estranea al racconto e puramente riempitiva, ma come elemento rafforzativo alla resa espressiva dell’immagine stessa. Tra la battaglia e il resto del film si avverte uno stacco netto, uno scarto di stile inspiegabile se non si conoscono i retroscena che abbiamo sommariamente descritto.
Vediamo allora le principali soluzioni formali adottate dal regista a partire dall’ultimo elemento: la musica. Per la partitura Ejzenstejn si rivolge a Sergej Prokofiev, compositore già affermato, e i due lavorano gomito a gomito. A volte Ejzenstejn illustra al musicista i contenuti di una scena che intende girare e Prokofiev compone secondo le linee guida di quella che sarà l’immagine sullo schermo. A volte avviene invece il contrario: seguendo la sua ispirazione Prokofiev fa sentire al regista un brano ed Ejzenstejn escogita una soluzione visiva che corrisponda concettualmente a quei suoni. A questo scopo egli arriva perfino a commissionare allo scenografo strumenti musicali di pura invenzione che affida ad alcune comparse per il semplice motivo che la musica, in quel momento, gli suggeriva quella rappresentazione. Più spesso i due lavorano sul materiale girato intervenendo e modificando partitura e montaggio in modo da ottene un perfetto contrappunto tra esse. Musica e film vivono infatti in un rapporto indissolubile e se la partitura di Prokofiev, nota appunto come Cantata del Nevskij, è apprezzabile anche in una sala da concerto, essa è tuttavia di gran lunga più significativa solo in simbiosi con le inquadrature di Ejzenstejn.
I “colori” del bianco e nero
Contrariamente al resto del film, il chiaroscuro della battaglia è caratterizzato dall’assenza delle sfumature. I cavalieri sono una massa bianca, hanno elmi che nascondono interamente il volto e si muovono con cadenza quasi da automi. Il loro precedente più immediato sono i cosacchi che sparano sulla folla inerme nella scena della scalinata del porto di Odessa nella Corazzata Potëmkin. Le armate del Nevskij sono vestite di nero e sono a volto scoperto. Bianca è naturalmente la grande distesa di ghiaccio che copre le rive e lo specchio d’acqua del lago. I cavalieri avanzano a cuneo, secondo la loro tattica consolidata, e il bianco copre interamente lo schermo. Arrivati a contatto con il nemico non trovano però chi li affronti di petto, ma una massa scura che si apre al loro passaggio, ondeggia, si spezza e si ricompone con grande mobilità e con movenze perfette. È la tattica del Nevskij, che attira così i cavalieri in una trappola mortale. Il bianco e il nero si alternano a ritmo di ballata epica, sulla cadenza delle note, così come i primi piani, i dettagli delle armature o dei combattimenti si alternano ai campi lunghissimi delle masse in movimento. I cavalieri arrivano al centro del lago dove l’imminente disgelo ha assottigliato la crosta gelata e dove essi, appesantiti dall’armatura e dal destriero, spezzano il ghiaccio e sono inghiottiti dall’acqua. Il bianco dei loro mantelli e delle loro insegne si dissolve nel nero dei fanti russi, più leggeri e mobili sui lastroni, e scompare nell’oscurità dell’acqua che diventa la loro tomba. Una pagina di storia è stata scritta. L’espansione dell’ordine monastico-guerriero si è arrestata e il mondo germanico ha tentato invano di schiacciare sotto il proprio tallone i popoli slavi. Succederà altre volte, nel corso dei secoli, ma sempre con lo stesso risultato. Una pagina di storia medievale del tormentato continente europeo è servita però, settecento anni dopo, a scrivere una pagina di grande cinema.
Il regista
Se il cinema è (anche) un’arte lo si deve in buona parte a lui: Sergej Mihailovic Ejzenstejn. Dove nelle iniziali di nome e patronimico S. M. qualcuno ha letto Sua Maestà. È stato il più grande autore sovietico, ma se venisse al mondo oggi non sarebbe neppure cittadino russo. Nato a Riga (Lettonia) il 10 gennaio del 1898 muore a Mosca l’11 febbraio del 1948 stroncato da un infarto a 50 anni e in piena maturità creativa. Ejzenstejn è stato regista, ma anche grande teorico del cinema, perché alla realizzazione dei film ha sempre fatto corrispondere una profonda riflessione estetica e poetica sul linguaggio cinematografico e la sua messa in scena. A vent’anni, studente di ingegneria, aderisce con entusiasmo alla Rivoluzione d’Ottobre e subito dopo, nei primi anni ‘20, si impegna in attività teatrali con gruppi di artisti rivoluzionari d’avanguardia. Nel 1924 gira il suo primo film, Sciopero che di colpo svecchia le convenzioni del cinema ed elabora un linguaggio visivo assolutamente innovativo sviluppato poi nei due film successivi, i capolavori rievocativi della rivoluzione bolscevica: La corazzata Potëmkin (1925) e Ottobre (1927). Quella che sembrava una carriera destinata a un successo incontrastato (vista anche l’entusiastica accoglienza dei suoi film all’estero), con l’ascesa di Stalin diventa invece una lotta senza quartiere contro un potere politico invadente e ottuso che lo emargina sempre più. La sua idea di rivoluzione permanente, ossia di una continua tensione tra realtà e utopia, è osteggiata dai nuovi padroni della Russia che pianificano la normalizzazione forzata del paese. Il suo film del 1929 La linea generale, sulla modernizzazione dell’agricoltura e l’emancipazione rurale (ricordiamo che sotto gli zar vigeva ancora la servitù della gleba), viene ostacolato e gli vengono imposte modifiche che ne stravolgono il significato. Ejzenstejn parte allora per il Messico dove progetta un film epico e dove gira centinaia di migliaia di metri di pellicola che però non riuscirà mai a montare. Il film successivo, Il prato di Bezin (1935), non viene neppure distribuito e la copia negativa finirà distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale. A tutt’oggi ne resta solo qualche frammento. Ejzenstejn può tornare dietro la macchina da presa solo nel 1938 con Aleksandr Nevskij e nel 1943 con la prima parte di quella progettata trilogia su Ivan il Terribile, il fondatore della Russia moderna, che non riuscirà a ultimare. Osannato e premiato per il primo capitolo sullo zar del ‘500, sostanzialmente frainteso però nella sua reale portata, il regista viene di nuovo pesantemente censurato per La congiura dei boiari, seconda parte della saga che contiene anche l’unica sequenza da lui realizzata a colori. Al colore aveva dedicato un intero volume delle sue opere teoriche.
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