A Milano, a Trento e poi di nuovo a Milano, tra il 1907 e il 1914. Il film di Bellocchio inizia parlandoci del giovane Mussolini, del Mussolini socialista e anticlericale (come lo era suo padre Alessandro), infuocato estremista di sinistra e mangiapreti, baffuto e capelluto. Nel 1914 ha 31 anni ed è direttore dell’Avanti!, organo ufficiale del Partito Socialista Italiano. Ma non gli basta. Ha un’ambizione smisurata e un ego anteposto a tutto. Anche alla donna che lo ama e che sacrifica i propri averi, le proprie rilevanti sostanze per alimentare tale ambizione. Offrendogli i mezzi per fondare un altro giornale, Il popolo d’Italia, anch’esso socialista e repubblicano, ma interventista. La donna si chiama Ida Dalser e l’11 novembre 1915 gli darà anche un figlio, Benito Albino.
Si passa quindi al 1920 e al ‘22 ovvero alla Marcia su Roma e alla nomina di Mussolini a primo ministro. In parallelo all’ascesa politica del capo del fascismo il film narra la discesa agli inferi, ossia ai ripetuti ricoveri nei manicomi prima di Pergine Valsugana e poi di San Clemente a Venezia, di Ida Dalser a motivo dei suoi reiterati e pervicaci tentativi di farsi riconoscere come legittima consorte dall’uomo che lei continua ad amare più di se stessa anche lui l’ha ormai definitivamente abbandonata al proprio destino. Insieme con l’incolpevole bambino che, separato dalla madre, cresce a sua volta in collegi e orfanotrofi. Il film si conclude nel 1937, alla morte di Ida seguita di pochi anni da quella di Albino, entrambe vittime di un regime che dalla loro scomoda presenza, anche se reclusi, poteva avere discredito presso un’opinione pubblica ormai votata al consenso.
Nel film, Bellocchio tralascia volutamente di esaminare il contesto storico entro cui si sviluppa e cresce l’astro Mussolini e la sua avventura politica per concentrarsi sulle psicologie individuali, sulle molle comportamentali di uomini e donne comuni come sono Ida Dalser e il suo contesto familiare. Il film narra l’amore spassionato, assoluto, totale di Ida per Benito cui fa da contraltare l’opportunista e camaleontica personalità dell’uomo. Sottolineato figurativamente (l’amore) con autentici atti di devozione di Ida come allacciare le scarpe o baciare le mani al suo uomo. Sul piano sociale l’unica cosa che interessa al regista è mostrare il conformismo e il consenso che Mussolini è capace di creare attorno a sé, alla propria persona più ancora che alla propria, fragile, ideologia. Un’infatuazione collettiva che trova rispecchiamento nella psiche di Ida che vuole solo essere riconosciuta come moglie/amante dell’uomo più potente d’Italia. Che vuole essere riconosciuta nei propri sentimenti prima ancora che nei propri diritti legali. E a cui non può ovviamente importare nulla della “maschera” che ormai ogni italiano è obbligato a indossare. E si veda, a questo proposito, l’illuminante dialogo tra la donna e lo psichiatra del manicomio di Venezia sul “tempo di tacere…”.
La cifra stilistica che Bellocchio conferisce alla sua opera sottolinea in ogni parte tale intenzione drammaturgica. Affidando quasi per intero la storia a una fotografia dai toni cupi e crepuscolari, diremmo quasi notturni anche nelle scene che si svolgono alla luce del sole. Per non parlare di quelle (prevalenti) girate nel chiuso claustrofobico dei manicomi e dei collegi. Ma sono claustrofobici anche gli interni delle redazioni dei giornali, dei cinema, degli stessi ambienti domestici. E a proposito di cinema è proprio al cinema, ovvero a spezzoni di film (documentari o di finzione), che Bellocchio affida il compito di narrare l’ascesa politica del Duce quando, a un certo punto, il film si sdoppia, per così dire, tra le vicende di cui Mussolini diventa protagonista e artefice (dopo il 1920) e la vicenda tutta privata e personale di Ida e del suo sfortunato figlio. Tale materiale di repertorio, ovvero la “magia del cinema”, visto nelle sale, ma anche persino nelle corsie di un ospedale militare e nei padiglioni delle cliniche psichiatriche, rappresenta una sorta di filo rosso capace di narrare quella “storia” che il regista tralascia volutamente di descrivere. Si tratta di una percentuale rilevante nell’insieme del film di Bellocchio, che va dai Cinegiornali Luce, ai documentari muti delle case francesi Gaumont e Pathé a film come Il monello (The Kid, 1921) di Chaplin, Christus di Giulio Antamoro del 1916, Maciste alpino di Giovanni Pastrone, dello stesso 1916, del film comico Le avventure straordinarissime di Saturnino Farandola (1913) di Marcel Fabre, di Ottobre (1927) di Ejzenstejn e di Vecchia Guardia (1934) di Alessandro Blasetti. Storici, invece, il duello tra Mussolini e Claudio Treves avvenuto il 29 marzo 1915 alla Bicocca di Niguarda e storica la rissa in ospedale tra Rachele Guidi e Ida Dalser al capezzale di Musolini ferito. Non storica invece la visita di re Vittorio Emanuele III nella stessa circostanza.
Il regista
Dal folgorante esordio dei Pugni intasca (1965) all’ultima (per ora) regia con Rapito (2022) il cinema di Marco Bellocchio (n. 1939) si concentra essenzialmente su dinamiche familiari e conflitti sociali, poesia e malcontento, ribellione e libertà. Bellocchio aveva un fratello gemello, Camillo, morto suicida a 29 anni nel “fatidico” 1968. Un uomo “sistemato”, l’ultima persona da cui ci si sarebbe aspettati un gesto simile. Che sicuramente ha segnato il regista da sempre attento alle dinamiche familiari e affascinato, quasi stregato, dalla psicologia della “violenza”. A cominciare da quella contro se stessi. Basti pensare alla sua versione cinematografica di Fai bei sogni (2016). Del resto l’insieme dell’opera di Bellocchio non è altro che un costante, tenace, quasi maniacale tentativo di affrancamento dall’Essere Supremo (Dio) proprio come avviene solo a chi è cresciuto in un contesto in cui la religione dettava e definiva regole e modi, espressioni e stati d’animo, ruoli individuali e sociali. Non a caso il bersaglio costante della critica di Bellocchio è il “principio di autorità”. Sia che si manifesti nella gerarchia domestica, sia che si estrinsechi in quella politica o ecclesiale. E in molti casi – per esempio Sangue del mio sangue (2015), Buongiorno notte (2003) o, appunto, Vincere – il regista non esita neppure a forzare la storia pur di colpire il bersaglio.
Sangue e suolo
Quanto ai contesti familiari possiamo citare Sorelle Mai (2010), che altre non sono se non le zie del regista, e Sangue del mio sangue, entrambi collocati nella “piccola patria” di famiglia: Bobbio. In particolare il secondo, girato a 50 anni esatti dai Pugni in tasca. Film intimo, familiare, personale, a dispetto del soggetto, ambientato in parte nel XVII secolo, non solo per la presenza in scena dei figli Pier Giorgio ed Elena e del fratello maggiore Alberto, ma proprio per l’evocazione fantasmica del fratello morto, Camillo, che ritorna anche nel documentario Marx può aspettare (2021). Un alter ego che il protagonista sente incombere su di sé e che gli condiziona l’esistenza. Anche a motivo della religiosità materna, motore dell’azione con il suo tentativo di “riabilitare” il figlio, prete e suicida a causa della seduzione di una monaca di cui era confessore. E qui il collegamento diretto è con un altro capolavoro del regista: L’ora di religione (2002).
Il ’68 e dintorni
Per parlare del “contesto familiare” bisogna in ogni caso rifarsi al folgorante esordio del regista, un debutto di quelli che hanno segnato un’epoca. I pugni in tasca sono il primo segnale nella cultura italiana dell’imminente ’68. In una chiave più assoluta e totalizzante di quella politica che, con il trascorrere del tempo, ha finito per mostrare tutti i suoi limiti. Quel film è il ’68 dell’anima e delle relazioni domestiche, base di quelle sociali. «Il ’68 ha fatto esplodere una serie di follie tenute chiuse, di disperazioni domestiche, di violenza familiari, che il film aveva descritto, rivelato, che tutti sapevano, ma che conservavano nel proprio privato» ha detto il regista. A cominciare dallo stesso titolo, citazione di un verso di Rimbaud, il poeta dei furori e degli ardori giovanili. Si tratta della prima quartina del sonetto Ma Bohème: «Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate; / e anche il mio cappotto diventava ideale. / Andavo sotto il cielo, Musa, ed ero il tuo seguace. / Oh! quanti amori splendidi ho sognato!» Protagonista è Ale (un memorabile Lou Castel), diciottenne animato da un’assoluta e incontrollabile pulsione distruttiva, che non esita di fronte ai delitti più atroci: il matricidio e il fratricidio. Sempre in bilico tra deliri di onnipotenza e frustrazione, soccombe a sua volta, solo e inascoltato, nel corso di una crisi epilettica. La fama di Bellocchio autore “antagonista” nasce qui, da questo film che, per ragioni puramente economiche, venne girato, letteralmente, tra le mura di casa. Tuttavia il senso del discorso non poteva essere più generale. In discussione c’era un intero mondo in preda al cambiamento, una generazione (la sua) in cerca di un ruolo e di una dimensione in un’Italia che stava mutando vertiginosamente e non sempre in meglio.
Una “disonorevole” appartenenza
Per pura comodità cronologica, si può dividere la produzione cinematografica del regista in tre periodi, ciascuno contrassegnato da una precisa matrice ideologica e culturale. Al primo gruppo appartengono i film girati fino al 1976 tra cui La Cina è vicina (1967), Nel nome del padre (1972), Sbatti il mostro in prima pagina (1972) e Marcia trionfale (1976) contraddistinti tutti dal comune denominatore di rappresentare microcosmi chiusi (un circolo di partito, un collegio, la redazione di un giornale, una caserma e, in comune a tutti, la famiglia) al cui interno si sviluppano drammatiche dinamiche individuali e di gruppo che portano all’avvilimento, alla disperazione, alla follia, alla morte. Luoghi che sono terreni di coltura di una realtà esterna più grande fatta di violenza e ipocrisia.
Dalla scarna e, tutto sommato, tranquilla biografia di Bellocchio emergono due dati che presentano una certa rilevanza per la sua arte: una remota educazione cattolica negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza (il collegio di Nel nome del padre è un riflesso personale oltre che un omaggio al Jean Vigo di Zéro de conduite) e una repentina adesione al comunismo più radicale negli anni della maturità. Insomma, al cinema Bellocchio incarna, in anni tanto caldi, la coscienza critica del sistema, analizzato e aggredito nelle sue varianti più retrive e nell’ambito del più classico trittico delle oppressioni: Dio, patria e famiglia. Non a caso, nello smarrimento generale sessantottesco e post-sessantottesco, Pier Paolo Pasolini scrive a Bellocchio: «Le auguro di turbare sempre più le coscienze dell’Esercito, della Magistratura, del Clero reazionario, e insomma della Piccola Borghesia italiana, a cui abbiamo il disonore di appartenere». È il viatico di un “fratello maggiore” (Pasolini era del ‘22) al più talentuoso esponente della generazione successiva che, attraverso la carica eversiva del ’68, si affacciava alla ribalta della storia con il proprio carico di idee sovvertitrici e di rabbia non più repressa né reprimibile.
Lucida follia
Tra i film non di fiction girati da Bellocchio riveste notevole importanza il documentario a “otto mani” (in collaborazione con Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli) Matti da slegare commissionato dall’Assessorato alla Sanità della Provincia di Parma nel 1974. Il film nasce come due distinti reportage, intitolati Nessuno o tutti e Matti da slegare, la cui durata complessiva oltrepassa le 4 ore. Anche qui si parte da una citazione lirica: «Nessuno o tutti – o tutto o niente. / Non si può salvarsi da sé. / O i fucili – o le catene. / Nessuno o tutti – o tutto o niente» è il refrain della poesia Polvere da sparo di Bertolt Brecht, autore del pantheon comunista particolarmente studiato e rappresentato proprio negli anni ’70. Tema del documentario (da cui anche la committenza pubblica) era la devianza psichica. Correvano gli anni in cui Franco Basaglia si batteva per la chiusura degli ospedali psichiatrici, che nel 1978 diventerà una legge dello Stato. «La follia è una condizione umana» scriveva Basaglia. «In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere». Parole che compendiano alla perfezione il senso e lo stile del film. L’intuizione degli autori nel mettere insieme il materiale girato nelle diverse strutture sanitarie pubbliche e private è proprio quella di abolire, almeno sullo schermo, le barriere che la società, il pregiudizio, la tradizione e l’interesse economico erigevano ancora attorno alla devianza psichica.
Nei meandri della psiche
Nei primi anni ’70 Marco Bellocchio stringe amicizia con lo psicanalista “eretico” Massimo Fagioli secondo cui Freud è «un imbecille» e Marx «necessario ma non sufficiente». L’influenza di Fagioli sui film di Bellocchio è notevole, tanto che nel giro di poco tempo lo studioso entra anche nei processi creativi dei film come cosceneggiatore. Sono gli anni della crisi delle ideologie (e dell’ideologia comunista in particolare) nel momento in cui stanno maturando i più grandi sconvolgimenti politici: in Italia la fine della cosiddetta Prima Repubblica e dei partiti tradizionali sotto le inchieste giudiziarie di Mani Pulite e Tangentopoli, e, sullo scenario internazionale, il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione del blocco sovietico. Su una cosa Fagioli è lungimirante e Bellocchio non può che trovarsi d’accordo con lui: «Il comunismo ha ignorato e annullato l’inconscio. Lo stesso ha fatto e fa il cristianesimo per cui l’inconscio o non esiste o è il Male. E l’identità umana allora starebbe nella Ragione: no, le cose non stanno così. L’identità umana non è la Ragione: bisogna volgere la ricerca verso ciò che non è Ragione, l’irrazionale». Affermazione che può essere letta in filigrana sotto la grandissima parte dei film realizzati tra l’80 e il ’94, ossia Salto nel vuoto (1980), Gli occhi, la bocca (1982), Diavolo in corpo (1986), La visione del sabba (1988), La condanna (1991) e Il sogno della farfalla (1994). Periodo e titoli che rappresentano forse il momento più debole del Bellocchio autore. Debole proprio perché non solo vengono meno i supporti ideologici (possiamo chiamarle le certezze?) che l’avevano accompagnato e sorretto negli anni precedenti, ma viene anche meno un po’ di quella rabbia interiore che, se da un lato porta alla follia, dall’altro reca in sé una dirompente carica eversiva e creativa.
Il mistero dell’inconscio
Un cinema molto “teatralizzato”, ovvero Enrico IV (1984) da Pirandello con uno straordinario Marcello Mastroianni, e Il principe di Homburg (1997) da Von Kleist sono le due opere che segnano il progressivo distacco dall’influenza di Fagioli anche se il regista continua a nutrire interesse per il rapporto tra follia (ovvero sogno) e realtà in quella fascia di confine dove l’uno confluisce nell’altra e dove entrambe sfumano nel mistero dell’inconscio. Folle è il personaggio pirandelliano che si rifugia in una falsa follia per rivivere una realtà di 20 anni prima, irrimediabilmente perduta, e che dopo un delitto torna a rinchiudersi nella prigione di quella pazzia, ben più atroce di un carcere di pietra. Al personaggio kleistiano che ha ottenuto un’insperata vittoria in seguito a un atto di insubordinazione, chiamato a giudicare se stesso, si apre invece il dilemma radicale tra l’affrontare la morte per aver trasgredito gli ordini e rifugiarsi nella viltà, aver salva la vita e, con essa, la sospirata unione con la sua promessa sposa. Qui è il sogno a essere più forte della realtà. Un finale sostanzialmente ricalcato sette anni dopo in Buongiorno notte, con quella apertura all’impossibile che consente ad Aldo Moro, prigioniero delle Br, di concludere la propria vita (e la propria parabola politica) con la “fuga dalla realtà”. In una dimensione onirica che però ci restituisce la sua “storia” nella maniera più autentica. Da notare, ancora una volta, il titolo desunto da una poesia. In questo caso di Emily Dickinson: «Buongiorno, mezzanotte. / Torno a casa. / Il giorno si è stancato di me: / come potevo io – di lui? / Era bella la luce del sole. / Stavo bene sotto i suoi raggi. / Ma il mattino non mi ha voluta più, / e così, buonanotte, giorno! / Posso guardare, vero, / l’oriente che si tinge di rosso? / Le colline hanno dei modi allora / che dilatano il cuore. / Tu non sei così bella, mezzanotte. / Io ho scelto il giorno. / Ma, ti prego, prendi una bambina / che lui ha mandato via».
Ritorno alle origini
Nell’arco di un decennio, film come L’ora di religione (2002), Buongiorno notte, Vincere e Bella addormentata (2012) riportano il regista a quell’impegno ideologico che aveva contraddistinto l’inizio della carriera. Sempre filtrato da un’accurata analisi psicologica delle dinamiche esistenziali. Tuttavia è un “ritorno alle origini”, ma con un respiro più ampio, una maggiore lucidità e minore frenesia senza per questo essere arretrato di un millimetro nella critica alla realtà contemporanea. Certo, il primo decennio del XXI secolo ha poco a che vedere con i “favolosi anni ’60”, ma nel frattempo il mondo è sicuramente peggiorato e il nostro paese, forse, più di altri. Un decadimento morale prima ancora che politico. Dove le forze più retrive hanno cambiato pelle, ma non sostanza. Si sono modificate nella forma, ma non nell’azione pervasiva all’interno della società. E poco importa se sullo schermo scorrono vicende ormai consegnate alla storia come il Caso Moro, la torbida origine del fascismo o il totalitarismo curiale della Chiesa Militante: il discorso di Bellocchio è sempre rivolto all’oggi e nelle tasche del suo paletot le mani sono sempre chiuse a pugno.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.