Nel 1951 Alberto Moravia pubblica il romanzo Il conformista nel quale si può leggere in filigrana la vicenda dei fratelli Carlo Alberto e Nello Rosselli, cugini per parte di madre dello scrittore, assassinati in Francia, dove si erano rifugiati, da agenti fascisti nel 1937. Gli anni ‘30 sono chiamati dagli storici il periodo del “consenso” ovvero quella fase del fascismo in cui non solo la pervasività del regime aveva ormai intriso ogni aspetto della vita sociale italiana, ma si era diffusa tra le masse un’adesione generalizzata e acritica alle direttive e alle scelte politiche di chi era al governo del paese. Grazie anche alla totale assenza di oppositori che erano stati uccisi (Matteotti), imprigionati (Gramsci) o esiliati (Pertini, Nenni…). Quasi 20 anni dopo, alla sua quarta regia, Bertolucci sceglie questo soggetto e lo trasferisce al cinema rispettando nelle sue linee essenziali la pagina scritta e mettendosi, per così dire, al servizio del famoso romanziere.
Non di meno compone un’opera personale dove la sua estetica “minimalista” emerge grazie anche alla prestazione dell’intero cast e, in particolare, alla “maschera” del protagonista, Jean-Louis Trintignant. Di rilievo anche il contributo del cast tecnico con le scenografie di Ferdinando Scarfiotti, la fotografia di Vittorio Storaro, i costumi di Gitt Magrini e il montaggio di Franco Arcalli. Interessante anche una certa corrispondenza, assente per ovvie ragioni nel racconto letterario e introdotta invece dal regista, tra il conformismo verso il fascismo e il conformismo borghese degli ‘60 e ‘70 dopo oltre 20 anni di governi a guida democristiana e i conseguenti fenomeni come la contestazione giovanile sessantottesca. Anche se i “rivoluzionari” di Bertolucci sono comunque destinati all’insuccesso.
Il regista
Bernardo Bertolucci (1941-2018) nasce a Parma, figlio primogenito del poeta Attilio Bertolucci che per il quotidiano locale “La Gazzetta di Parma” firma anche le recensioni cinematografiche. Fondamentale, dopo la laurea in lettere alla Sapienza di Roma, l’incontro e l’amicizia con Pier Paolo Pasolini (di 19 anni più anziano) cui fa da assistente nel film d’esordio Accattone (1961). L’anno successivo, Paolini scrive per Bertolucci la sceneggiatura di La commare secca (1962) con cui quest’ultimo esordisce a sua volta nella regia. In questo contesto gioca non poco la comune militanza politica comunista da cui però Bertolucci si stacca ben presto per orientarsi al racconto di personaggi fragili, insicuri, conformisti, come il Fabrizio del suo secondo film: Prima della rivoluzione (1964). La dicotomia tra macrostoria e microstoria, vicende individuali e collettive rappresenta una costante nella filmografia di Bertolucci che ha sempre alternato affreschi di epoche a storie minimaliste. Al primo gruppo appartengono film come Novecento (1976), L’ultimo imperatore (1987) e Piccolo Buddha (1993) mentre al secondo pellicole come Ultimo tango a Parigi (1972), La tragedia di un uomo ridicolo (1981), Il tè nel deserto (1990), Io ballo da sola (1996) e The dreamers (2003). Difficile dire quale dei due orientamenti sia più rappresentativo dell’estetica e della poetica di Bertolucci. Sta di fatto che nelle storie “intimistiche” affiorano qua e là elementi di voyerismo, compiacimenti estetizzanti e un intento di provocazione assenti o più attenuati nelle opere di maggiore respiro corale. Con 16 film girati tra il 1962 e il 2012 Bertolucci è stato in ogni caso uno dei registi italiani della sua generazione più apprezzati a livello internazionale sia dalla critica sia dal pubblico.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.