Dopo 20 anni di assenza da un set cinematografico, il ferrarese Florestano Vancini torna per l’ultima volta dietro la macchina da presa per narrare un frammento di storia della sua città collocato nei primissimi anni del XVI secolo. Il fatto storico è la congiura di Ferrante (1477-1540) e Giulio d’Este (1478-1561) contro il fratello Alfonso (1476-1534), duca di Ferrara e marito di Lucrezia Borgia. In scena anche un altro fratello della casata estense, il cardinale Ippolito (1479-1520), esemplare perfetto di quel clero corrotto, gaudente e lussurioso che in quello stesso torno di tempo aveva indignato Lutero e determinato la sua “protesta”. Della serie “fratelli-coltelli”, il cardinale Ippolito aveva fatto ferire, sfregiare e accecare a un occhio Giulio, suo rivale nei favori di una cortigiana.
In questo preciso quadro storico il regista introduce alcuni personaggi di fantasia cui affida ruoli di rilievo a cominciare dal protagonista, il giullare di corte Taddeo Brugnola, detto Moschino, il sopranista (cantante lirico castrato) Giancantore, la contadina e poi cortigiana Martina. In scena anche Ludovico Ariosto e un giovanissimo Tiziano Vecellio (il pittore) che si definisce ancora “allievo del Giorgione”. Ricordiamo per inciso che il cardinale Ippolito sarà il distratto dedicatario dell’Orlando Furioso in cui Ariosto non manca di celebrare la famiglia estense facendone risalire l’origine al paladino Ruggiero. Per altro verso lo stesso Ariosto cita un tale Moschino in una delle sue Satire composte tra il 1517 e il 1525.
La congiura avviene nel 1506, appena un anno dopo la morte di Ercole I (1431-1505) di cui Alfonso, Ferrante e Ippolito erano figli legittimi mentre Giulio era figlio illegittimo, ma non per questo meno introdotto a corte. Tra i congiurati anche il conte Albertino Boschetti di San Cesario (1450-1506) e suo genero, il capitano De Roberti. Scoperta e sventata la congiura, il duca Alfonso fa condannare a morte, per decapitazione e squartamento, Boschetti e De Roberti, esecuzione avvenuta il 12 settembre 1506, ma concede la grazia ai fratelli commutando la pena in carcere a vita. Ferrante morirà in prigione nel 1540 dopo 34 anni di detenzione mentre Giulio verrà graziato dal pronipote, Alfonso II, dopo aver trascorso in carcere 53 anni, 6 mesi e 17 giorni. Aveva 81 anni e ne sopravvisse ancora due.
Ebbene, il film di Vancini ricostruisce con meticolosa puntualità l’ingarbugliata vicenda attraverso la voce narrante e la presenza scenica di Moschino che patisce a sua volta i rovesci della fortuna causati dalla tempesta che si scatena in seno alla famiglia regnante.
Il titolo prescelto, che suona un po’ lambiccato, deriva invece da una composizione poetica di Antonio Cammelli, detto il Pistoia (1436-1502), ripresa a sua volta da Matteo Bandello (1485-1561) nel suo Novelliere e riferita però a un altro buffone di corte degli Este: Pietro Gonella (o Gonnella, 1390-1441) e al suo signore Niccolò III. In buona sostanza si tratta, come mostrato nel film, di una burla con esiti imprevisti ordita, per una volta, dal nobile ai danni del guitto.
Il regista
Questo film del 2004 è l’ultimo girato Vancini (1926-2008) a conclusione di una lunga carriera di regista cinematografico e televisivo. Un ritorno dietro la macchina da presa dopo oltre 20 anni dalla sua ultima pellicola: La baraonda del 1980. Accanto a film di argomento contemporaneo, Vancini si è dedicato anche al filone storico con film come La lunga notte del ’43 (1960), opera prima dall’omonimo racconto del suo concittadino Giorgio Bassani, Bronte (1972) su un episodio poco eroico del nostro risorgimento avvenuto nel corso della Spedizione dei Mille che il sottotitolo definisce come “Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai raccontato”. Il più noto e, forse, il meglio riuscito è comunque Il delitto Matteotti del 1973, ricostruzione dell’omicidio perpetrato dalle camicie nere ai danni del deputato socialista nel giugno del 1924. In televisione Vancini è noto principalmente per aver girato La piovra 2 (1986) e Piazza di Spagna (1992).
Quella volpe di Cesare Borgia!
Le complesse vicende del primo ‘500 italiano sono state oggetto anche del film Il principe delle volpi (1949) di Henry King, dall’omonimo romanzo di Samuel Shellabarger. Girato in un sontuoso bianco e nero, presenta un cast “all star” che comprende Tyron Power, Orson Welles, Everet Sloane, Katina Paxinou e l’italiana Marina Berti. Una didascalia iniziale avverte che il film è stato girato nei luoghi stessi delle vicende narrate, dove possibile. Ovvero dove tralicci e pali elettrici, strade asfaltate ecc non impedivano di piazzare la macchina da presa. Gli esterni ci mostrano peraltro Siena, San Gimigniano, Monteriggioni, San Marino e Gradara mentre gli interni sono stati ricostruiti a Cinecittà.
La storia ha un inizio quasi epico: il 18 agosto 1500 ovvero il giorno del funerale del secondo marito di Lucrezia Borgia (all’epoca ventenne), Alfonso d’Aragona. Le mire espansionistiche del fratello di lei, Cesare (Welles), la destinano però subito a un altro Alfonso, il figlio ed erede di Ercole d’Este di cui il Valentino cerca l’alleanza per le sue conquiste in Italia Centrale. E qui subentra il personaggio di fantasia interpretato da Power, ovvero Andrea Orsini, sedicente nobile che in realtà si chiama Andrea Zoppi ed è figlio di contadini. La vicenda si ingarbuglia sempre più tra amori, battaglie, tradimenti, congiure e tutto quanto può imbandire il genere cappa e spada. Sulle orme di Orsini-Zoppi andiamo infatti prima a Venezia e poi, lungo i canali del Po, a Ferrara, rinomata per le sue artiglierie. Facciamo grazia della trama e ci concentriamo su alcuni aspetti formali come la fotografia e i costumi, giustamente premiati con altrettanti Oscar, e sulla buona ricostruzione dei viaggi sulle chiatte tirate da cavalli. Ma i blooper sono in agguato a partire dalle gondole senza il felze (la copertura dei sedili) che era invece di rigore nel ‘500 e nei secoli successivi. Orsini-Zoppi, inoltre, è un pittore e, sempre a Venezia, propone a un mercante d’arte una propria tela. Una tela, appunto, identica a quelle in uso oggi. Con un ritratto femminile molto novecentesco. Assolutamente incongruo con il secolo in questione. Tanto per capirci, la Gioconda di Leonardo, ritoccata dall’autore fino al 1519, e la Fornarina di Raffaello, del 1520, sono dipinti su tavola, non su tela. È pur vero che proprio nel ‘500 nella pittura italiana si introduce l’uso della tela, ma dopo la metà del secolo e per opere a grandi dimensioni. I primi sono appunto i grandi “teleri” del Tintoretto e del Veronese. Altra assurdità, inserita nei dialoghi, è l’uso dell’olio bollente durante l’assedio della fantasiosa Città del Monte (San Marino). Nessun capitano di ventura avrebbe mai sprecato un elemento così prezioso per uno scopo tanto aleatorio. Ma tant’è: l’olio bollente è entrato nella fantasia popolare e nulla può levarglielo.
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