Benché tratti di un fatto storico, peraltro abbastanza marginale avvenuto a inizio ’500, non è azzardato definire questo film di Ermanno Olmi il più “politico” tra quelli girati dal regista bergamasco nella sua lunga carriera. Film politico in quanto alla base del Mestiere delle armi l’autore colloca il dissidio tra etica e profitto. Che è, a ben guardare, uno dei temi caratterizzanti l’età moderna. Specialmente nell’epoca industriale dell’800 e del ‘900 e in quella postindustriale contemporanea. Dove l’etica si colora del verde della questione ecologica mentre il profitto capitalistico della vecchia borghesia si esaspera in forme post capitaliste del mercato globale e delle acrobazie finanziarie. Processo iniziato al principio del XVI sec. quando alla forte spinta spirituale che aveva determinato gli eventi nell’età di mezzo viene a sostituirsi un ben più pragmatico senso della concretezza terrena, sfrondato da ogni paludamento religioso. Facciamo un esempio: se è certamente vero che le crociate medievali, non non solo quelle volte alla Terra Santa, ma anche quelle combattute sul suolo europeo come la Reconquista spagnola o quella di Filippo Augusto di Francia contro i Càtari (o albigesi), si basavano su ragioni economiche e politiche, la loro “giustificazione” ideologica era caratterizzata da una vigorosa istanza spirituale. Al punto che nel 1096, prima che le armate di Godefroy de Bouillon (Goffredo di Buglione) si mettessero in marcia, era partita una folla di pezzenti guidata da Pietro d’Amiens (detto Pier l’Eremita) convinta di conquistare Gerusalemme con la sola forza della fede. Quasi superfluo aggiungere che al primo scontro con i turchi selgiùchidi, avvenuto a Civetot, in Asia Minore, tutti questi “pellegrini” inermi furono trucidati. Ma torniamo al film di Olmi. Il narrato si concentra sugli ultimi giorni di vita e sulla morte del capitano di ventura Giovanni de’ Medici, detto Delle Bande Nere, avvenuta a Mantova il 30 novembre del 1526. Il contesto generale è la discesa in Italia delle truppe imperiali tedesche (i Lanzichenecchi), comandate da Georg von Frundsberg, che nel maggio successivo metteranno a sacco Roma. Il Medici, al comando delle truppe pontificie, era stato l’unico a opporsi validamente ai nemici con una tecnica di guerriglia che aveva impedito loro la traversata del Po. Nello scontro di Governolo, presso Mantova, però Giovanni era stato colpito a una gamba da un colpo di falconetto, un pezzo di artiglieria graziosamente fornito agli imperiali da Alfonso d’Este, il duca di Ferrara, che gli aveva procurato la cancrena. Per Olmi il contrassegno della modernità non è la fine degli ideali cavallereschi impersonati dal Medici, bensì il relativismo morale, il compromesso con la propria coscienza che caratterizza gli altri personaggi. A cominciare proprio dai principi italiani come i governanti di Ferrara e di Mantova. Per i quali il fine da raggiungere può giustificare anche i comportamenti più spregiudicati (o spregevoli). Siamo esattamente nell’ambito di quel “realismo” politico che caratterizzerà le pagine del Principe di Macchiavelli, uscito nel 1532. Realismo, non relativismo. Olmi tuttavia non manca di sottolineare, per contrasto, tale mutamento etico caratterizzante l’età moderna, con la torma di soldati sbandati che fanno a pezzi un crocefisso ligneo per scaldarsi nella fredda notte padana.
Il regista
Figlio di un ferroviere e di una casalinga, Ermanno Olmi (1931-2018) cresce tra Milano, dove vivono i suoi genitori, e Treviglio (Bg), nella casa dei nonni materni. Il padre, socialista, lascia le Ferrovie dello Stato per non iscriversi al Partito Fascista. Segue un periodo di precarietà e povertà per la famiglia, mitigato solo dall’assunzione dell’ex ferroviere alla Edison per manovrare piccole locomotive alle Officine del Gas. Sul finire della Seconda Guerra Mondiale, Olmi padre muore e la Edison assume la vedova. Dopo studi poco proficui, interrotti prima del diploma, anche il giovane Ermanno entra nell’azienda di Foro Bonaparte. Qui, ben presto comincia a interessarsi delle attività ricreative e dopolavoristiche. In breve passa alla sezione cinema ovvero alla realizzazione di cortometraggi che documentano l’attività del colosso energetico nel settore idroelettrico con la costruzione di dighe e centrali in molte località dell’Arco Alpino. In pochi anni gira decine di documentari nei quali mette in risalto soprattutto il contributo umano alla realizzazione dell’opera, al di là delle sue specifiche tecniche. Su questa falsariga si colloca anche il primo lungometraggio a soggetto: Il tempo si è fermato (1959). Protagonisti il guardiano di un cantiere in alta quota e uno studente-lavoratore che lo affianca per alcune settimane durante la stagione invernale. Il rapporto-scontro tra i due uomini, le diverse mentalità, il gap generazionale e la maestosità della natura sono i temi su cui si sviluppa il racconto.
L’Italia del boom
A trent’anni Olmi lascia la Edson e si dedica professionalmente al cinema. Il posto (1961) e I fidanzati (1963) sono i titoli di questa prima stagione che risentono della lezione neorealista sul piano estetico, ma anche di uno spiccato autobiografismo. I contesti rurali o di piccolissima borghesia urbana conosciuti nell’infanzia e nell’adolescenza torneranno spesso nei suoi film. Seguono il docufiction E venne un uomo (1965), sulla figura di papa Giovanni XXIII, e il semidocumentaristico I recuperanti (1969), girato sull’altopiano di Asiago tra le persone che campano rischiando la vita per raccogliere e vendere sul mercato del ferro gli ordigni inesplosi della Prima Guerra Mondiale. In quest’ultimo caso, l’autore si avvale di attori non professionisti, ma il neorealismo è per Olmi solo una scelta formale perché la sua attenzione si concentra invece sugli aspetti interiori, personali, della condizione umana lasciando di sfondo le tematiche più squisitamente politiche.
Un’estetica cristiano-sociale
Il dato caratterizzante la poetica del regista è la sua dichiarata adesione al cristianesimo, sia pur vissuto e interpretato in maniera molto personale. Un “cristianesimo critico” che affonda le sue radici in una lunga tradizione storica, sociale e anche artistica sempre presente nella cultura italiana, sia pur in posizioni minoritarie. Dopo Un certo giorno (1968), Durante l’estate (1971) e La circostanza (1974), legati all’attualità della crisi subentrata al boom, ottiene un grande successo di critica e pubblico con L’albero degli zoccoli (1978), affresco rurale sulla Lombardia dell’800. L’ispirazione gli viene dalla memoria degli anni passati nella cascina della nonna, a Treviglio, ma la sintesi estetica non è un semplice “amarcord”. Per Olmi civiltà e natura, storia e mito, fisico e metafisico, immanente e trascendente sono compresenti nell’esperienza umana e interagiscono secondo un disegno che, benché sconosciuto alle creature, è comunque ordinato al loro bene. Il male, l’infelicità, il dolore derivano dall’ignoranza di questo disegno, dal fatto che le conoscenze e la stessa esistenza sono limitate e condizionate. L’uomo può solo abbandonarsi, con la forza della fede, al trascendente. È questa la saggezza contadina che anima i braccianti della Bassa, che li aiuta a superare i rovesci della fortuna, ma anche a sopportare le angherie dei padroni. Non per debolezza o mancanza di coscienza sociale, ma per virtù cristiana, plasmata sull’esempio del crocifisso.
La messa in scena delle Scritture
Con gli anni ‘80 la riflessione del regista si sposta verso un’analisi (e quindi una rappresentazione) ancora più diretta dei problemi della fede mediante la messa in scena di alcuni testi della Sacra Scrittura, sempre però tradotta in vicende e storie di vita. È un lungo periodo che comprende titoli come Camminacammina (1982), La leggenda del santo bevitore (1988), il documentario Lungo il fiume (1992), Il segreto del bosco vecchio (1993), Genesi-La creazione e il diluvio (2000), Cantando dietro i paraventi (2003) e Centochiodi (2007). Genesi è sicuramente il capitolo più originale della Bibbia televisiva prodotta dalla LuxVide di Franco Bernabei. Mito cristiano e società tribale si fondono in una riflessione antropologica sull’origine del cosmo. Il testo sacro si trasforma in un mito narrato da un vecchio ai suoi discendenti, accanto al fuoco, in un bivacco di nomadi dei giorni nostri. L’origine del cosmo diventa l’alba di un giorno qualunque. Adamo ed Eva sono due adolescenti che sperimentano per la prima volta il sentimento amoroso, l’Arca di Noè una grande fattoria dove uomini e animali vivono rispettando il delicato equilibrio ecologico della natura.
La dimensione dello spirito
L’importanza della produzione documentaristica di Olmi non è secondaria – quantomeno per consistenza – rispetto a quella dei film a soggetto. Con risultati di grande rigore estetico e formale come Terra Madre (2008) puntigliosa ricerca di alternative alla globalizzazione nell’agricoltura che unisce le testimonianze dell’omonima rassegna organizzata da Slow Food di Carlo Petrini, alla ricerca di esperienze concrete come quella dell’anziano contadino che rifiuta di utilizzare chimica, ogm e qualsiasi altro presidio tecnologico nella conduzione del proprio podere. La sensibilità ecologica del resto non è un accessorio della fede, ma ne rappresenta l’aspetto più genuino e veritiero. Solo in stretto rapporto con l’insieme dell’universo l’uomo può trovare la sua dimensione più autentica. Non come vertice del creato, ma come parte – e neppure prioritaria – di esso. Di conseguenza, ciò che può rendere appena un poco più libero l’uomo è la coscienza della propria finitezza. Ecco perché, secondo Olmi, sono appunto i limiti oggettivi di una condizione socialmente subordinata o di emarginazione, quale quella dei contadini lombardi a fine ’800, della piccolissima borghesia nell’Italia del boom, il mondo dei clochard di Parigi o le nuove povertà degli immigrati, analizzate attraverso la grande metafora del Villaggio di cartone (2011), il contesto in cui si può sperimentare la vera dimensione della salvezza. Salvezza materiale, prima che spirituale.
Un’ipotesi che si fa bottega
Alla fine degli anni ‘70 Ermanno Olmi e la sua famiglia (la moglie Loredana Detto, protagonista femminile del Posto, i figli Fabio ed Elisabetta, entrambi attivi nel cinema rispettivamente come direttore della fotografia e direttore di produzione) si trasferiscono ad Asiago, il paese dei Recuperanti, in una scelta ecologica ante litteram. Conseguenza della svolta di vita è la fondazione, nel 1982 a Bassano del Grappa, della scuola-atelier Ipotesi Cinema il cui intento è quello di formare giovani generazioni di cineasti in uno spirito il più possibile vicino alle “botteghe” d’arte medievali e rinascimentali in cui maestro e allievi collaborano insieme allo stesso progetto in una forma di apprendimento comune che privilegia l’esperienza concreta alle nozioni teoriche. A Ipotesi Cinema si sono formati diversi autori che poi hanno intrapreso carriere autonome di un certo rilievo come Francesca Archibugi, Maurizio Zaccaro, Piergiorgio Gay e Mario Brenta.
Articolo davvero interessante e ricco di spunti, grazie, anche se non condivido appieno l’idea che ” le crociate medievali…si basavano su ragioni economiche e politiche, la loro “giustificazione” ideologica era caratterizzata da una vigorosa istanza spirituale”.
Secondo me è il contrario, senza dimenticare l’appello di Alessio Comnero al papa.
Gentile Maria Silvana, grazie per l’intervento.
Premetto che è estremamente complicato districarsi in un tema sterminato come le crociate a cominciare dalla montagna di bibliografia a tema, da Franco Cardini in giù. Limitandoci alla prima crociata (1096-1099) proprio l’appello del “basileus” (imperatore bizantino) Alessio Comneno era dovuto al fatto che si stava trovando i turchi selgiuchidi nel cortile di casa, dopo aver perso quasi tutta l’anatolia. A corto di risorse interne si era rivolto a ovest nonostante le ferite dello scisma (1054) fossero ancora molto fresche. Ragion di stato: l’anatolia val bene una messa se l’odiato papa di roma induce i “franchi” a prendere le armi a proprio favore. Salvo pentirsene amaramente quando si ritrova a dover nutrire (vitto, alloggio e stallaggio) l’esercito dei “pellegrini in armi” sulle proprie terre. e fa dei numeri da circo per sloggiarli in fretta e mandarli ad assediare antiochia. dove l’armata cristiana arriva quasi a sfaldarsi perché ciascun principe pensa a costituire il proprio piccolo feudo infischiandosene bellamente del santo sepolcro ancora in mano agli “infedeli”. e l’impresa rischia davvero di fallire se non intervengono le flotte pisana e genovese a garantire i rifornimenti e trasportare i crociati via mare. naturalmente si tratta di armatori (mercanti) che non agiscono certo “gratis et amore dei” (per grazia ed amore di dio), ma per lucrare sui noli. potremmo continuare a lungo… certo: la “crociata dei pezzenti” era un altro paio di maniche, ma sappiamo anche com’è andata a finire