Negli anni ‘50 e ‘60 del ‘900 il genere cinematografico più diffuso è il peplum con film ambientati nelle antiche civiltà del Mediterraneo e del Vicino Oriente. Dunque storia romana, greca, mesopotamica, egiziana oltre a civiltà immaginarie come quella della mitica Atlantide. Numerosissimi i titoli desunti dall’Antico e dal Nuovo Testamento o da opere della letteratura antica, da Omero a Petronio Arbitro a Luciano di Samosata.
Una percentuale non irrilevante rievoca la civiltà dell’antico Egitto. Sia durante il periodo faraonico propriamente detto (dal 3000 circa al 332 a.C.), sia nel periodo ellenistico, concluso con il regno di Tolomeo XIII Filopàtore e di sua sorella Cleopatra al termine del quale, nel 30 a.C., il paese diventa provincia romana per restare tale fino alla conquista araba del VII sec.
Il dissidio con il clero
Il film sicuramente più interessante (e anomalo) del genere è Il faraone girato nel 1966 dal regista polacco Jerzy Kawalerowicz. Interessante, in primo luogo, perché tra i più rigorosi dal punto di vista filologico e archeologico grazie ai contributi determinanti di Kazimierz Michałowski (1901-1981), egittologo e accademico polacco di fama mondiale, e Shadi Abdelsalam (1930-1986), scenografo e sceneggiatore egiziano esperto della civiltà faraonica. Autore a sua volta come regista di due film a tema molto particolari: il lungometraggio La mummia (al-Mumiya, 1968) e il corto el-Fallâh el-fasîh (lett.: Il contadino eloquente) del 1970. Il primo è basato su un fatto storico: il ritrovamento a fine ‘800 delle mummie dei ramessidi custodite fino a quel momento in gran segreto da una tribù beduina che le utilizzava come risorsa economica mediante le spoliazioni dei gioielli contenuti nei sarcofagi. Il secondo è la messa in scena in costume antico dell’omonimo poema scritto nell’Egitto del XX sec. a.C.
Ma torniamo al film di Kawalerowicz. Anomalo, dicevamo, a partire dalla scelta del soggetto. Personaggio principale è infatti l’immaginario faraone Ramsete XIII (mai esistito, al pari del padre, Ramsete XII) che ancor prima di salire al trono dichiara guerra alla casta sacerdotale, strutturata come uno stato nello stato. Tale conflitto emerge sin dalle primissime inquadrature, un prologo che è quanto di più inconsueto si possa immaginare rispetto ai coevi “polpettoni” storici. Un esercito in marcia si ferma per non calpestare nel suo cammino due scarabei sacri che spingono nel deserto una pallina di sterco. La cosa genera subito uno screzio tra l’erede al trono, che comanda le truppe, e il sommo sacerdote e determina la morte di uno schiavo che si impicca perché, per deviare dalla via, i soldati colmano il fossato che lui stava scavando da anni per ottenere la libertà. È il preludio alla lunga serie di attriti tra il futuro faraone e la casta sacerdotale che rappresenta il leit motiv del film, culminato in uno scontro senza esclusione di colpi.
La storia si colloca nel X sec a.C. ovvero in un periodo di debolezza del potere centrale a vantaggio di potentati locali e dei cosiddetti Profeti di Amon, una dinastia parallela a quella faraonica il cui capostipite è Herihor, sommo sacerdote del tempio di Karnak, personaggio storico realmente vissuto e personaggio chiave del film. In un breve dialogo tra il nuovo sovrano appena insediato e il sacerdote di Seth quest’ultimo fa un preciso riferimento cronologico: «Più di 400 anni fa Amenhotep IV scacciò i sacerdoti e si impossessò dei tesori dei templi». Il personaggio evocato (Amenhotep o Amenofi IV) è meglio noto come Akhenaton, il “faraone eretico” che regnò tra il 1378 e il 1352 a.C. Salito al trono, tentò di sostituire il pantheon tradizionale (Amon-Ra, Horus, Iside, Osiride, Anubi, Toth, Bastet ecc.) con il culto del dio unico Aton rappresentato dal disco solare. Per rimarcare tale rottura con il passato, Akenaton trasferì la sua capitale da Tebe ad Akhetaton, città fatta costruire dal nulla nei pressi dell’attuale Amarna, nel medio corso del Nilo. Il sovrano fu probabilmente ucciso da una congiura di palazzo e i suoi successori restaurarono i culti tradizionali, reinsediarono i sacerdoti nel loro ruolo dominante e riportarono la corte a Tebe. Su di lui scese una damnatio memoriae durata fino alle scoperte archeologiche dell’800 che riportarono alla luce anche reperti artistici realizzati sotto il suo regno, come il celebre ritratto della regina consorte Nefertiti, conservato a Berlino, caratterizzati da un notevole realismo. Totalmente diverso dalla stilizzazione dell’arte classica egiziana.
Realismo e fedeltà storica
Il film di Kawalerowicz narra dunque una vicenda molto simile a quella di Akenaton con alcune “licenze” dovute probabilmente al testo dello scrittore tardo romantico Bolesław Prus (1847-1912) da cui è tratta la sceneggiatura. A cominciare dai banchieri fenici che spingono il giovane sovrano alla guerra con l’Assiria per lucrare su entrambi i contendenti (una costante storica di ogni tempo e luogo). Stesso discorso per la sollevazione popolare repressa dai sacerdoti grazie alle loro conoscenze astronomiche. Anche questa una costante storica: la paura creata ad arte per manipolare le masse.
Il film si fa apprezzare per l’accuratezza delle ricostruzioni scenografiche, dei costumi e per numerosi particolari del vissuto quotidiano come la cerimonia di imbalsamazione del faraone. A questo “realismo” fa spesso contraltare l’uso della macchina da presa con ardite inquadrature non naturalistiche (per esempio a piombo sulla verticale) con vertiginosi scorci che esaltano il portato drammatico della scena. Notevole anche l’inquadratura finale con un lento zoom sulla porta del palazzo reale di fronte a cui cui l’esercito si schiera in attesa dell’epifania del faraone. Il buio che sta al di là della soglia inghiotte lentamente ogni altra immagine, metafora della dissoluzione del potere. Anche la musica, quasi del tutto assente, è concentrata solo in brevi momenti come sottolineatura sonora della casta sacerdotale e richiama vagamente il canto gregoriano.
Specchio dell’oggi e del domani
Film di produzione interamente polacca (Kawalerowicz è anche coproduttore), doveva in qualche modo rappresentare il controcanto del blocco sovietico al dilagare dei film di genere sfornati da Hollywood e dai suoi satelliti (a cominciare da Cinecittà). Gli esterni sono stati girati nei pressi di Bukhara (Asia Centrale), ossia nel deserto del Kizilkum, opportunamente “africanizzato”, mentre alcune scene sono state girate nei siti archeologici egiziani di Luxor. E proprio qui, per assurdo, la fedeltà storica viene meno in quanto templi, colonnati, fregi, statue sono riprodotte sullo schermo come le vediamo oggi, ossia del colore naturale della pietra, mentre nell’antichità erano dipinte in modo vivacissimo. Diverso il discorso per le Piramidi di Giza, mostrate in una breve sequenza. Nel X sec. a.C. dovevano già essere più o meno come ai nostri tempi, essendo state costruite 1500 anni prima. Le scene di caccia nella palude e del grande vascello reale sono state invece girate nella zona dei Laghi Masuri (Nordest della Polonia) anch’essi doverosamente “africanizzati” per le esigenze del set. Nonostante questo, la vegetazione è quasi del tutto assente nelle scenografie. Una scelta opposta rispetto alle lussureggianti quinte dei peplum convenzionali, ricchi di fiorenti giardini e oasi rigogliose. A dominare, anche cromaticamente, è l’ocra della terra, la polvere del deserto che sembra fare tutt’uno con l’incarnato dei personaggi, fatta eccezione per i sacerdoti e le loro candide tuniche di lino. Anche questo in coerenza con le fonti archeologiche così come i succinti costumi femminili scambiati dalla critica più miope per ammiccamenti al botteghino tanto che alcuni fotogrammi erano persino finiti sulle cosiddette “riviste per soli uomini”. La stampa dell’epoca inoltre pose più risalto al gossip che all’analisi critica. Complici peraltro anche alcuni “effetti collaterali” del film, come l’espulsione dall’università dell’attrice Barbara Brylska (definita all’epoca la Brigitte Bardot polacca) per le sue scene di nudo e l’amore nato sul set tra lei e il protagonista, Jerzy Zelnik. Emuli oltrecortina dei ben più famosi (e pagati) Liz Taylor e Richard Burton che si erano a loro volta incontrati e innamorati sul set di Cleopatra (1963) di Mankiewicz.
Dal punto di vista critico, nel migliore dei casi il film è stato frainteso e assimilato al resto della produzione di genere. Forse proprio per la mancanza da parte degli esegeti di un’adeguata preparazione culturale, necessaria a decodificare i rimandi storici e i numerosi significati latenti. Benché collocato nel X sec. a.C. il film guarda infatti alle “rivoluzioni” (giovanile, studentesca, femminista, sessuale, antimilitarista, ecologista) che stavano emergendo nel mondo proprio dalla seconda metà degli anni ‘60. Apologo sulle nequizie del potere clericale, dell’ipocrisia di una religione vissuta in modo formale che calpesta la dignità dell’uomo, dell’oppressione delle masse. Insomma: un ritratto in nero della Polonia comunista, ancor più attuale, per altro verso, nella Polonia postcomunista, sovranista e illiberale del XXI secolo.
Note La copia del film distribuita in Italia è quella originale di 2 ore e 24 minuti. Purtroppo è doppiata, persino nei canti del coro, tranne le brevi scene reintegrate i cui dialoghi sono in originale (polacco) sottotitolate.
Il regista
Jerzy Kawalerowcz (1922-2007) Nato a Gwozdziec, oggi in Ucraina, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale interrompe gli studi e prende parte attiva alla resistenza. Cessate le ostilità, nel 1948 si laurea in Storia dell’Arte all’Accademia di Cracovia, ma inizia subito la carriera cinematografica come assistente di diversi registi. Nel 1951 gira il suo primo film cui seguono altri titoli diffusi solo in Polonia. Dal 1955 al 1968 e poi dal 1972 è direttore artistico del gruppo di produzione Kadr che catalizza attorno a sé le migliori forze emergenti del cinema polacco. Con Andrzej Wajda e Andrzej Munk è considerato uno dei capofila della cosiddetta “scuola polacca”, sviluppata nella Scuola del Cinema di Lodz da cui escono talenti come Zanussi, Polanski e Kieslowski. Dagli anni ‘60 si impone anche a livello internazionale con film come Il treno della notte (1959), Madre Giovanna degli Angeli (1960), Maddalena (1972), girato in Italia, e appunto Il faraone che appartengono al suo periodo più fecondo. Continua a lavorare e insegnare fino ai primi anni 2000.
Altri film di ambiente egiziano
Il già citato regno di Amenhotep-Amenofi IV (ossia Akenaton) è il quadro storico entro cui si colloca Sinhue l’egiziano (The Egyptian, 1954) di Michael Curtiz il cui protagonista è un medico, amico e poi avversario del “faraone eretico”. Piuttosto accurato nelle scenografie e, in generale, nella ricostruzione storica (anche se vengono riprodotte pitture e bassorilievi realizzati al tempo di Ramesse II, ossia posteriori di due secoli) pecca di verbosità e lentezza. Scarso il successo al botteghino. Anche l’italiano Nefertite, regina del Nilo (1961) di Fernando Cerchio, con Amedeo Nazzari, è ambientato in quel contesto, ma la ricostruzione storica è del tutto fantasiosa al pari di costumi, scenografie, ambientazioni e citazioni varie. A cominciare dalle campagne militari contro i caldei, popolazione attestata storicamente solo a partire dall’VIII sec a.C. mentre qui siamo nel XIV a.C.. Il pretesto narrativo è la storia d’amore tra Tanit/Nefertiti e lo scultore Tumos (autore del famoso busto oggi a Berlino) ostacolata dall’essere la donna destinata alle nozze reali. Per il resto è il festival del blooper, dai costumi con fasce, pelli, fronzoli, parrucche e monili improbabili, abiti beduini, bighe e armature di tipo romano e le solite staffe ai cavalli. Per culminare nell’atelier di scultura con modelle in posa, scalpelli di ferro e cose altrettanto inverosimili per l’epoca rappresentata. Immancabile la danza del ventre e la lotta corpo a corpo con un leone. Tra gli svarioni più clamorosi un bell’ananans (di origine americana) nelle fruttiere del banchetto reale e piante di bambù (vegetale ancora oggi assente in Egitto) nei giardini del faraone. Buon successo al botteghino.
Tra gli altri titoli più noti del genere possiamo citare La regina delle piramidi (Land of the Pharaohs, 1955) di Howard Hawks con lo zampino in sceneggiatura del Nobel William Faulkner, ambientato all’epoca di Cheope, ossia agli albori della civiltà egiziana, e quelli basati su Cleopatra, che chiude il lunghissimo ciclo storico di quella civiltà. Si va dal Cleopatra del 1932 di Cecil B. DeMille, all’omonimo kolossal del 1963 di Joseph Mankiewicz, all’italiano Le legioni di Cleopatra (1959) di Vittorio Cottafavi dove, per un evidente lapsus del doppiatore Emilio Cigoli, Marco Antonio (Georges Marchal) cita tra gli alleati un certo Filadelfo di Patagonia (la regione più meridionale dell’America del Sud). Con ogni probabilità nel copione c’era scritto Paflagonia, regione storica dell’Asia Minore affacciata su Mar Nero, ma tant’è…! Tutti con il consueto retaggio di ricostruzioni e situazioni di fantasia che li appiattiscono su un immaginario stereotipato. Al punto che le storie paiono coeve cancellando i quasi 3000 anni che invece le separano. Sotto questo profilo non fanno naturalmente testo le parodie Totò contro Maciste (1962) e Totò e Cleopatra (1963), entrambi di Fernando Cerchio, che non si annoverano certo tra le cose memorabili del principe della risata. Stesso regista, stesse scenografie di Nefertite, regina del Nilo e qualche spezzone di scene di massa riciclato di sana pianta.
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