sceneggiatura Maysaloun Hamoud cast Mouna Hawa (Leila) Sana Jammelieh (Salma) Shaden Kamboura (Nour) Riyad Sliman (Qais) Mahmud Shalabi (Ziad) Henry Andrawes (Wissam) Ahlam Canaan (Dounia) genere drammatico durata 98 min
Tel Aviv, lo sanno anche i sassi, è l’antipodo di Gerusalemme. Città sacra delle tre religioni monoteiste quest’ultima, austera, arcigna e bigotta, città totalmente “liberal” quell’altra dove anche l’appartenenza etnica tende a sfumare nel melting pot. Non arabo-palestinesi e israeliani, ma soltanto giovani che, come in tutto il resto del mondo, tirano tardi la sera con musica a palla, fumano e si fanno le canne, bevono birra e vivono i propri sentimenti senza paure, infingimenti o inibizioni. E questo vale soprattutto per due ragazze palestinesi, Leila e Salma, cui si aggiunge la più (apparentemente) conformista Nour. Avvocato la prima, barista e dj a tempo perso la seconda, studentessa la terza. Le prime due vanno a capo scoperto, fumano (azione biasimevole per una musulmana) e, soprattutto, vivono da donne libere. Si scelgono i fidanzati e si sottraggono a tutte le regole non scritte di una società maschilista e patriarcale. Salma, per giunta, è anche lesbica. Nour invece prega cinque volte al giorno, non esce senza essersi infilata in un cappottone lungo fino ai piedi, si copre i capelli con lo hijab ed è “fidanzata in casa” con un musulmano osservante. Vero che quest’ultimo, come la maggior parte dei baciapile di tutte le religioni, vive la classica doppia morale, ma sta di fatto che anche Nour progetta la propria vita, magari con meno sballo delle altre, ma non con minore autonomia. Tralasciamo gli episodi minuti su cui è costruita la storia di queste tre giovani donne e veniamo al punto, beceramente sintetizzato dal solito, orripilante e fuorviante titolo italiano. Film sulla libertà, sulla disobbedienza, sulla forza dell’amore? Chi tradisce la lettera spesso tradisce anche le intenzioni. L’originale “Bar Bahar”, discretamente tradotto nell’inglese “In Between” (nel mezzo) significa “mare-terraferma”: «un riferimento all’irrisolvibile tensione che vivono le tre giovani, sospese tra il mare (Tel Aviv) e la terra (le rispettive famiglie residenti nel nord della Galilea)» scrive acutamente l’italo-israeliana Bianca Ambrosio, che prosegue: «Le protagoniste del film non sono alla ricerca di se stesse. Si sono infatti già trovate. Hanno già scoperto la propria identità. È l’ambiente circostante a essere incapace di accettarle e comprenderle per quello che sono.» Ed ecco il punto. La regista palestinese Maysaloun Hamoud, al suo esordio in una produzione franco-israeliana, punta proprio a questo: forse è venuto in momento che nel mondo islamico, come non molti anni fa in quello occidentale, avvenga una vera e propria “rivoluzione femminista” che spazzi via, come è giusto che sia, tutti i tabù, le regole non scritte, le tradizioni che fanno della donna un oggetto senza personalità in un mondo governato dai maschi. Significativo al proposito in breve dialogo in auto, sul finale del film, tra Leila e il giovane di cui si è innamorata, ma che sta per lasciare. Detto tutto ciò, da un punto di vista puramente cinematografico non bisogna nascondere qualche riserva sullo stile, ancora immaturo, e sulla “furbizia” di alcune soluzioni sceniche che mostrano tutti i limiti della Hamoud come autrice. Se continuerà a raccontarci storie così, affinando solo un po’ la tecnica, avremo tutti da guadagnarci.
E allora perché vederlo?
Per celebrare l’otto marzo in maniera decisamente anticonformista
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