sceneggiatura Gianni Amelio, Alberto Taraglio cast Renato Carpentieri (Lorenzo Bentivoglio) Giovanna Mezzogiorno (Elena Bentivoglio) Micaela Ramazzotti (Michela) Elio Germano (Fabio) Greta Scacchi (Aurora) Arturo Muselli (Saverio) Giuseppe Zeno (Giulio) Maria Nazionale (Rossana) Renato Carpentieri jr (Francesco) Bianca Panicci (Bianca) Giovanni Esposito (Davide) genere drammatico durata 105 min
Non da oggi il cinema ha scavato nel “lessico familiare”. Con esiti straordinari, per esempio, nel caso di un certo Ingmar Bergman. Ma quella è la società nordica, la Scandinavia, sia pur resa universale dal tocco del genio. Ebbene, in questa tenerezza tutta mediterranea, tutta napoletana, il calabrese Amelio tocca corde che ricordano il maestro venuto dal freddo. A cominciare dal fatto che la famiglia non è quella dei legami di sangue, ma degli affetti. Così succede che un anziano avvocato vedovo non abbia dialogo con i figli naturali, ma trovi sintonia in una coppia di giovani vicini di casa. Un uomo vissuto, arrivato quasi al capolinea e non in maniera specchiata (“Essere avvocati e pure onesti… son due cose che non tornano”), e due giovani con i loro marmocchi alla ricerca di equilibri non sempre facili, in una città aliena per loro quanto interiorizzata per l’altro. E quando nell’appartamento da mulino bianco avviene una di quelle tragedie domestiche cui la cronaca ci ha ormai abituato, al vecchio leguleio saltano tutte le coordinate esistenziali. “Dice un poeta arabo: ‘La felicità non è una meta da raggiungere, ma una casa a cui tornare. Che non è davanti a sé, ma dietro'”: è la battuta che offre la chiave di lettura del film. Un film scabro, chiuso in se stesso come l’anziano protagonista, eppure ricco di domande, di provocazioni morali che ci offrono il ritratto di una società smarrita e spenta, proprio a cominciare dagli affetti. A onor del vero va detto che la storia parte bene, ma poi, dopo il fattaccio, si perde un po’ per strada, ma si tratta di inezie: avercene di film così. Due ultime note, non marginali: raramente al cinema Napoli è stata così efficace e funzionale al narrato. Non una scenografia, ma un esterno modellato sugli umori dei personaggi. Che sia il cuore antico della città, con piazza Gesù Nuovo, Galleria Umberto I, i vicoli, le piazzette, i cortili, ma anche la Napoli avveniristica del Centro Direzionale e del Palazzo di Giustizia o del nuovo Ospedale del Mare. Film anche d’attori, visto il tema, quindi con un cast da soppesare bene. Carpentieri è semplicemente superlativo, per intensità e misura. E questa non è una novità. Germano, Mezzogiorno, Scacchi e compagnia cantante svolgono il compito con puntualità e misura mentre non da oggi, a nostro modestissimo parere, Micaela Ramazzotti evidenzia doti interpretative più che modeste, nonostante i premi. Anche qui, con i suoi inutili vezzi, le mossettine, l’insopportabile birignao, conferma l’opinione.
E allora perché vederlo?
Per fare un salutare esame di coscienza sul nostro proprio “lessico familiare”.
“Non siete neanche preparati a diventare orfani” dice il padre – l’avvocato in pensione Lorenzo Bentivoglio, non a caso “Bentivoglio” di cognome, un cognome “parlante”, come si suole dire – ai due figli. In questa semplice e atroce frase è condensato il fallimento di una educazione, l’assenza di ogni affetto paterno, la disistima reciproca tra “persone per bene”.
Il perimetro di affetti non coincide con il perimetro della famiglia, la verità non fa parte della famiglia.
Fabio (Elio Germano), marito modello con evidenti crisi isteriche – prima aggredisce un venditore ambulante per poi umiliarsi davanti a lui, che non conosce la via intermedia del chiedere “scusa” -, da ragazzino dice a un compagno di classe “Quanti soldi vuoi per diventare mio amico?”. È il Fabio che, sempre da ragazzino, si dice ai genitori colpevole di un tentato omicidio per avere la loro protezione e con questa l’amore. Quando da adulto le dirà di averle mentito la madre lo picchia.
È facile capire come Fabio sia cresciuto in un capovolgimento di affetti – in una “famiglia disfunzionale” si direbbe, dove un figlio che si professa assassino è amato e quando si dichiara innocente è punito -, è normale che dica a Lorenzo che “nella vita tutto quello che facciamo è una scusa per farci volere bene”: altro non è che il contratto non scritto sulla base del quale è cresciuto.
La moglie Michela (Micaela Ramazzotti) a sua volta non ha avuto una vera famiglia, né ha desiderato i due figli.
A questa trama principale si affianca una trama che dire “secondaria” sarebbe sminuirla, tutta di Lorenzo in cui il suo affetto per i figli si è perso per strada: “ho smesso di amarli” dice, così, quasi fosse cosa naturale. Persone diverse, famiglie diverse: la figlia Elena (Giovanna Mezzogiorno) non riesce a fare a meno del padre, è tenace nella sofferenza, si umilia pur di averlo, non vuole perderlo. Non è la figlia amorevole: vuole un padre che è padre, vuole un padre che sa essere un padre, vuole l’uomo Lorenzo-padre. Tutto qui.
Accetta, lasciando credere di non accorgersene, che il padre Lorenzo vada a prendere a scuola il figlio: è il legame, il filo non dichiarato, ma forte perché veramente affettivo che li lega, è l’idea del padre Lorenzo di poter essere parte di una famiglia. Una nuova famiglia. Tutto in silenzio.
Amelio utilizza questa seconda vicenda – la persona di Lorenzo è il punto di congiunzione – non come contraltare in positivo della seconda – le vicende non si intersecano -, quanto perché sembra voglia dire che non esiste famiglia con fondamenta e fondamenti stabili: tra le fondamenta formali e i fondamenti affettivi Amelio punta il dito sui secondi.
La famiglia non è per-sé, in sé stessa, il luogo in cui le persone possono essere felici. Può accadere – incidentalmente: non accade a uno solo dei personaggi del film – e, se accade, accade per le singole persone, non per la “istituzione-famiglia”: il figlio Saverio (Arturo Muselli) non sentirà il bisogno del padre e, a dire il vero, non sembra sentire il bisogno della sorella Elena. La “istituzione-famiglia” non esiste, è una costruzione di chi vi appartiene: esistono i singoli legami tra persone.
Napoli non è protagonista, non ha una identità propria, resta sullo sfondo come una sorta di “vestito” della vicenda: scelta ottima. La vicenda potrebbe svolgersi a Milano o in provincia e niente cambierebbe.
Dare aggettivi alla interpretazione del cast, a Carpentieri in particolare, è difficile: qualsiasi aggettivo la sminuirebbe. Ciò nonostante sono ben diretti – farsi prendere la mano da un attore della caratura di Carpentieri è facile – con un tenore semplice che lascia sempre prevalere in contenuto sulla forma.
Da rivedere – personalmente era la seconda volta – con mentalità aperta per capire da adulti da dove arrivano alcuni nostri problemi, da coppie quali possano essere le nostre aspettative e da genitori le nostre responsabilità nei confronti dei figli.