sceneggiatura Damien Chazelle cast Emma Stone (Mia Dolan) Ryan Gosling (Sebastian Wilder) John Legend (Keith) J.K. Simmons (Bill) Rosemarie DeWitt (Laura Wilder) Finn Wittrock (Greg Earnest) Jessica Rothe (Alexis) genere musical durata 123 min
Si può reinventare la macchina da scrivere nell’era dei computer o la biga in quella delle automobili? Sui due piedi verrebbe da dire: “No, grazie. Non è il caso”. Eppure al cinema è quello che succede non così raramente con alcuni film che sembrano usciti dalla penna di sceneggiatori vissuti decenni fa. È il caso di questo musical che per estetica, stile, argomento, colonna sonora, recitazione e balletti sembra girato nei favolosi sixties del secolo scorso. Con Emma Stone al posto di Nathalie Wood e Ryan Gosling di George Chakiris, per dire. Ma forse è proprio il genere in sé a essere standardizzato al punto da non conoscere aggiornamenti. I musical, e i musical stelle-e-strisce in particolare, godono di una specie di extraterritorialità cinematografica che ne fanno non solo un genere a se stante, ma quasi un mondo a parte. Con le sue regole, i suoi usi e costumi, immutabili e immarcescibili. Il vero mistero è il pubblico e la sua sensibilità. Che con gli anni dovrebbe essere cambiata, ma che evidentemente cambiata non è visto il successo planetario e la messe di premi, per quanto inflazionati possano essere. E non si venga a dire che questo film è un omaggio al musical classico: questo film “è” un musical straclassico. Con tutto il carico di ciarpame retorico e bolso che comporta, ma con l’aggravante che le musiche non sono di Leonard Bernstein ma del ben più scarsino Justin Hurwitz. Al suo secondo film importante, dopo il tutto sommato discreto “Whiplash”, Damien Chazelle riesce nel difficile compito di sbagliare tutto. Dalla sceneggiatura, strampalata come poche, al casting decisamente cannato, per quanta buona volontà (degna di miglior causa) possano metterci gli incolpevoli Stone e Gosling. Per giunta, a un certo punto, la storia smette di essere un musical e diventa una normale fiction da american dream per tornare alla fine a frullare ritmi e balletti su una musica melensa e ripetitiva anche quando vira su sonorità jazz. E sia chiaro che il termine “frullare” non è scelto a caso, ma risponde perfettamente all’uso che il regista fa della macchina da presa. Più simile a una planetaria che a un registratore di immagini in movimento.
E allora perché vederlo?
Per verificare se davvero lo spirito del Natale può farci digerire tutto.
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