sceneggiatura Christopher Nolan cast Fionn Whitehead (Tommy) Tom Glynn-Carney (Peter Dawson) Jack Lowden (Collins) Harry Styles (Alex) Aneurin Barnard (Gibson) James D’Arcy (col. Winnant) Barry Keoghan (George Mills) Kenneth Branagh (amm. Bolton) Cillian Murphy (soldato) Mark Rylance (Mr Dawson) Tom Hardy (Farrier) genere bellico durata 102 min
Ormai nei film sulla Seconda Guerra Mondiale si tende a sorvolare il dato macrostorico per concentrarsi sulla microstoria, sulle vicende individuali, su piccoli, marginali episodi che sembrano quasi prescindere dal contesto in cui si sono verificati. Da “Salvate il sodato Ryan” (1998), passando per “Bastardi senza gloria” (2009), “The imitation game” (2014) “La battaglia di Hacksaw Ridge” (2016), “USS Indianapolis” (2016) e compagnia cantante è un susseguirsi di visioni al microscopio come se i registi facessero a gara nell’analizzare il dettaglio più minuto, nello scendere tra le pieghe più riposte delle tragedie umane… prescindendo dalle tragedie per metterne in risalto solo gli aspetti umani. Il “Dunkirk” di Nolan non fa eccezione, anzi si allinea, buon ultimo, alla serie. Con una intuizione interessante sul piano narrativo che peraltro non sposta di un etto il quadro generale: riproporre le stesse vicende da diversi punti di vista, ovvero sovrapponendo tra loro i destini dei vari personaggi non in maniera consequenziale, ma diacronica. Il che aumenta certamente l’interesse dello spettatore anche se finisce con l’ingarbugliarli ancora di più la matassa. Che va sbrogliata a parte, possibilmente prima della visione del film. Dunkirk (in inglese) o Dunkerque (in francese) è una città della Piccardia, regione dell’estremo nord della Francia tra il Canale della Manica e il Belgio, in cui nel 1940 si concentrò il corpo di spedizione britannico dopo che le armate del Terzo Reich avevano spazzato via l’esercito francese dando inizio alla conquista del paese. Centinaia di migliaia di soldati intrappolati in un fazzoletto di terra, a poche miglia dalla madrepatria, ma con serie difficoltà a resistere all’assedio. La cittadina fu teatro di una spettacolare evacuazione durante la quale furono riportati in patria 300mila soldati sotto il fuoco nemico e con il contributo anche dei civili. Chiunque disponesse di un’imbarcazione, venne infatti chiamato a fare la propria parte ovvero a salpare dai porti del Kent, raggiungere la costa francese, imbarcare quanti più ragazzi possibile e riportarli a casa per continuare la guerra a Hitler. Nolan sceglie due fantaccini che tentano con ogni mezzo di imboscarsi, altrettanti piloti della Raf che con i loro apparecchi alleggeriscono la pressione dei nemici sulle truppe all’imbarco e tre civili proprietari di un guscio di noce che partecipano al salvataggio collettivo. Vite, storie, azioni si intrecciano in mare, nell’aria e sulla terraferma in un continuum spazio-temporale che si riannoda e si scioglie svariate volte nel corso del film. Un modo di raccontare che mitizza la storia. Forse, a 78 anni dai fatti, l’unico praticabile. Del resto è sempre avvenuto così: dall’Iliade in poi.
E allora perché vederlo?
Per capire cosa significa passare dalla Storia al Mito.
“Un grande fallimento di successo” per parafrasare il rientro dell’Apollo 13: questa, in estrema sintesi, la trama ricostruita sulla ritirata inglese da Dunquerque da Christopher Nolan in “Dunkirk”.
Tutto qui? No.
No, perché Nolan vuole convincere “a priori” lo spettatore, con pochi titoli intermedi, di una struttura narrativa basata sui quattro elementi della natura (fuoco, aria, acqua, terra) scomodando nientemeno che Anassimene di Mileto e pretendendo di associare durate diverse a ciascuna di queste. Approccio cervellotico per lo spettatore che si ritrova, con qualche motivo per Nolan ma senza ragione per sé, a rivedere medesimi eventi secondo un altro “elemento” con la pretesa (di Nolan) di intuire siano diversi punti di vista.
Nolan sembra non essersi reso conto che non sta “maneggiando” un testo narrativo: tra le mani ha un film dove il tempo e le associazioni hanno effetti diversi.
Una complicazione narrativa quindi per un film che è e rimane un film di guerra, niente più.
Un film di guerra senza contesto storico, senza contesto sociale, senza contesto politico persino senza un contesto militare che non vada al di là delle dimensioni di un molo, di un paio di Spitfire, qualche bombardiere e caccia militari.
Un film di guerra dove l’eroismo non ha causa, non ha motivo, non ha sentimento.
Un film di guerra dove il nemico non ha volto, è solo esplosioni e ali d’aereo.
Un film di guerra dove la “patria” inglese ha la forma di piccole imbarcazioni civili che corrono in soccorso di militari (“Cosa vede Capitano?” chiede il militare mentre lui guarda nel binocolo. “Vedo la patria” risponde), dove il capitano rimane sul campo di battaglia anche se non ha esercito da comandare.
E poi sviolinate finali che non riescono a strappare né commozione né lacrime, la sorpresa che si è eroi non solo se si muore sul campo di battaglia, ma anche da vivi quando si batte in ritirata.
Perché vederlo? Non c’è motivo.