sceneggiatura George Ovashvili cast Ilyas Salman (il vecchio) Mariam Buturishvili (la ragazza) Tamer Levent (miliziano abkazo) Irakli Samusha (soldato georgiano) genere drammatico durata 100 min
Una didascalia iniziale spiega che durante le piene primaverili il fiume Inguri forma delle isole nel proprio alveo con i detriti strappati dalle montagne del Caucaso. Terreno fertilissimo che i contadini della valle usano per coltivarvi il mais necessario a sopravvivere nei rigidi mesi invernali. Quello che la didascalia non dice è che il fiume Inguri (o Enguri) segna il confine tra la Georgia, repubblica ex sovietica diventata indipendente nel 1991, e l’Abkhazia, provincia secessionista della stressa Georgia proclamatasi indipendente con l’appoggio di Mosca nel 2008 dopo un breve, ma cruento conflitto. Qualcuno forse se la ricorderà, insieme ai nomi dell’Ossezia del Sud e del Nagorno Karabakh, altre due province georgiane ribelli sostenute dal Kremlino. Questa seconda didascalia non scritta serve a capire i “perché” del film, ossia il costante andirivieni di barche con militari a bordo (georgiani e abkazi) e il leit motiv sonoro dei colpi di armi da fuoco che contrappunta il lavoro del vecchio contadino alla prese con la sua precaria piantagione di mais. Contadino abkazo che si porta dietro, a dargli una mano, la nipote adolescente, orfana di entrambi i genitori. Nonno e nipote a un certo punto si trovano anche a curare un militare georgiano ferito, inseguito dai secessionisti che vogliono catturarlo. Una lunga estate che comincia con un rito ancestrale di possesso della nuova terra e finisce con un diluvio nel corso del quale il fiume si riprende i suoi diritti. Film di silenzi e di natura, di antichissimi gesti. Di ansia per un presente avaro non solo di risorse economiche, ma soprattutto di generosità e altruismo. Interessante anche il confronto generazionale. Ancora quasi bambina, la nipote, quando arriva in barca stringendo una bambola di pezza, sull’isola avverte i primi tormenti della femminilità, i primi brividi sentimentali senza avere nessuno a cui confidarli o con cui condividerli. Film retto per intero sui due attori in scena dall’inizio alla fine che non recitano, né interpretano, ma “sono” i rispettivi personaggi, tale è la loro immedesimazione. Ruvido, taciturno, disilluso il vecchio, fragile eppure solare la ragazzina, con i suoi occhi curiosi, il corpo acerbo costretto a massacranti fatiche sopportate senza fiatare. Film fuori dagli schemi e dalle convenzioni che si salda però a una solidissima tradizione che parte da Vertov e Dovzenko e passa per Paradzanov, Konchalowskj, Tarkowski e compagnia filmante il cosiddetto “cinema del disgelo”. Un cinema che purtroppo non c’è più o che è talmente raro da essere quasi invisibile.
E allora perché vederlo?
Per mettere il naso un pochino più in là del cortile di casa.
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