sceneggiatura Jean-Christophe Castelli cast Joe Alwyn (William Billy Lynn) Kristen Stewart (Kathryn Lynn) Chris Tucker (Albert Brown) Garrett Hedlund (sgt. David Dime) Vin Diesel (Shroom) Steve Martin (Norm Oglesby) Makenzie Leight (Faison) Ismael Cordoba (sgt. Holliday) Arturo Castro (Mango Montoya) Ben Platt (Josh) genere drammatico durata 108 min
Nello showbiz tutto fa spettacolo. Anche la guerra. Soprattutto la guerra. E nel mondo dello spettacolo ci vuole sempre un eroe. Come in guerra. Se poi è un’intera squadra, meglio ancora. La squadra si chiama i “Bravo”, è formata da una decina di persone al comando di un sergente, ed è reduce dall’Iraq ‘pacificato’ a suon di bombe intelligenti. La star dei “Bravo” è il caporale Lynn, giovanissimo combattente che si è guadagnato sul campo una medaglia al valore. La squadra dei fantaccini è in tournée negli States perché appunto faccia spettacolo, ossia rinsaldi l’affetto della popolazione verso lo US Army. Niente di meglio, allo scopo, che la passerella tra un tempo e l’altro di una partita di football in compagnia di una rockstar. A Dallas, a spese del patron della squadra locale intenzionato a fare un film sull’impresa dei “Bravo”. Dal loro arrivo allo stadio fino al termine dello show il film si snoda su numerosi flash-back che ricostruiscono la rete di affetti del caporale Lynn e l’azione per la quale ha ottenuto l’onorificenza. Passato e presente che convergono a rappresentarci la guerra, appunto, come uno spettacolo (non a caso le azioni dei soldati in combattimento hanno quasi le movenze di un balletto) e lo spettacolo della vita come una guerra perpetua in nome del denaro e del successo. Il tutto ammantato da una tronfia e grondante retorica del patriottismo cui fa da salutare controcanto il pacifismo radicale di Kathryn, sorella di Billy nonché involontaria causa del suo reclutamento. Il taiwanese Ang Lee gioca da maestro con questo corto circuito ideologico e temporale che gli consente di mettere a nudo tutta l’ipocrisia del cosiddetto establishment che si serve dei soldati al fronte come di chi non è partito per narcotizzare le masse e far credere a tutti che questo sia il migliore dei mondi possibili e gli Usa il paese più democratico, generoso, altruista e buono del mondo. Finché qualcuno non apre gli occhi, dopo aver chiuso quelli di un amico caduto in battaglia. Le capacità registiche di Lee emergono anche dal cast, formato in gran parte da attori semisconosciuti, tutti bravissimi. E dove le poche star (Martin e Diesel, principalmente) si mettono al servizio dell’insieme con inaspettata sobrietà e molto understatement.
E allora perché vederlo?
Perché sul Profondo Sud degli Stati Uniti non se ne è mai detto e visto abbastanza.
“L’America produce decine di incazzosi pronti a suicidarsi”: questa è la guerra in Iraq vista da chi la fa.
Il film è un palco scenico sul quale si muovono personaggi stereotipati: Billy Lynn il soldato volontario, il Sergente David Dime voce critica degli Usa, il Sergente maggiore Shroom voce interiore di Lynn, la sorella Kathryn, voce critica della società, Norm Oglesby, voce dello show business.
Marzo 2003, la “coalizione dei volonterosi” guidata dagli Usa invade l’Iraq. Motivo principale: l’Iraq ha armi di distruzione di massa chimico-biologiche. E così il protagonista Lynn va volontario in Iraq.
Luglio 2016, Gran Bretagna, parte fondamentale della coalizione: la commissione Chilcot, esaminati 150 mila documenti e cento testimoni, stabilisce che “nel marzo 2003 non c’era una minaccia imminente da parte di Saddam Hussein e le circostanze con cui è stata costruita una base legale per l’intervento erano lungi dall’essere soddisfacenti”. Questa è anche la voce critica della sorella Kathryn, non nel 2016, ma nel 2003, quando il resto della famiglia la emargina sull’altare dell’eroe William. Opinione la sua, se presente negli Usa, certamente irrilevante.
Questi i punti di partenza del film: una guerra costruita ad arte, rappresentata dai media ad arte per un pubblico, una nazione, gli Usa. “Sfortunato quel paese che ha bisogni di eroi” diceva Brecht e gli Usa di eroi ne hanno un disperato bisogno. Ma Brecht non viveva nel paese delle Stars and Stripes.
Una guerra che non viene solo dal Texas di Lynn o di George W.Bush, dal “profondo sud”, ma è fatta da militari volontari di colore, messicani e bianchi: una guerra consustanziale, connaturata alla mentalità americana.
Una guerra che Lee fa vedere dall’interno, combattuta da soldati ormai consci che la “macchina da guerra” non si esaurisce in loro. Che con loro solamente inizia.
Una guerra che “per volere di Dio e dei media” – così il Sergente Dime, voce della coscienza del paese – soddisfa il bisogno di potenza, violenza e al contempo di altruismo che l’americano medio deve sempre provare per sentirsi moralmente nel giusto. “Esportare la democrazia” diceva George W. Bush, uccidere per il bene di chi viene ucciso. “Oggi abbiamo costruito una scuola: ecco perché i ragazzini ci sparano addosso” colpisce allo stomaco il Sergente Dime.
Al petroliere persuaso che più guadagna (nel suo politically correct “faccio meglio il mio lavoro”) più potrà supportare i ragazzi al fronte – fronte che non esiste, poiché nessuno sta invadendo gli Usa – l’implacabile Sergente Dime risponde “i miei uomini sono killer. Noi uccidiamo, è per questo che ci pagate. Lei faccia il suo mestiere, noi il nostro”. Discorso chiuso.
Lynn è diverso: ha paura, ha un rapporto fusionale con il Sergente maggiore Shroom, consigliere emotivo con il kharma della predestinazione, è un leader in pectore, ha il coraggio di uccidere, ha il coraggio di piangere, conosce le proprie debolezze, è umiliato dall’ascoltare il proprio inno nazionale in una partita di football a Dallas dove è chiamato alla parte del buffone. Non il buffone di corte europeo che sollazza un re, un buffone in divisa americano che rassicura un popolo. È giovane, troppo, ma è un uomo a tutto tondo. “Il proiettile è già stato sparato” ripete il kharma il Sergente maggiore Shroom, il destino è già segnato, dalla guerra non ci si può sottrarre.
“È solo con i soldi che si alza la voce. È questo il nostro paese. È questo che mi fa paura”: non lo dice un americano con il telecomando in mano, lo dice il Sergente Dime che “per mestiere” in mano ha il mitra, lo dice rifiutando una risibile proposta, lo dice prima che il ragazzino guerriero Lynn lo ribadisca in modo sorprendente.
In narrativa sarebbe un “romanzo di formazione”: pochi giorni, nel suo stesso paese, bastano perché il soldato-eroe Lynn ne esca profondamente cambiato. Con il dubbio se il suo essere “eroe” sia un merito.
Ottima la scelta di Ang Lee di rappresentare gli eventi con protagonisti stereotipati, di utilizzare continui flashback ben orchestrati, intuitivi per i tempi e diversi ciascuno dall’altro per prospettiva: cosa non da molti. Così come la scelta del volto comune dell’esordiente Joe Alwyn-Billy Lynn.
Lee ci risparmia nauseanti telecamere in movimento in scene d’azione, sesso estremo, dialoghi volgari e fiotti di sangue: non disturba, non attrae, non distrae, non scandalizza, non terrorizza, mantiene lo spettatore “sul punto”, un punto critico. La morte non è un fatto individuale è un fatto sociale (immaginario negli Usa, reale in Iraq), è la base di rapporti tra Stati.
Non altrettanto buona l’idea di girare in 3D 4K a 120 fotogrammi al secondo, cosa che ha limitato grandemente la distribuzione nelle sale cinematografiche.
Un film da vedere e rivedere per comprendere come i media stravolgono la natura delle cose e come diamo per scontato che esistente ciò che passa nel piccolo schermo e così come passa nel piccolo schermo.
Incluso il revisionismo storico che passa nel telefilm e film Usa di oggigiorno.
ico che passa nel telefilm e film Usa di oggigiorno.