regia e sceneggiatura Paolo Genovese cast Giuseppe Battiston (Beppe) Anna Foglietta (Carlotta) Marco Giallini (Rocco) Edoardo Leo (Cosimo) Valerio Mastrandrea (Lele) Alba Rohrwacher (Bianca) Kasia Smutniak (Eva) Benedetta Porcaroli (Sofia) Elisabetta De Palo (nonna) genere drammatico durata 92′
Sette personaggi in cerca d’amore. Sette amici, quattro uomini e tre donne più o meno della stessa età, tre coppie e un single. Metti, una sera a cena, tutti attorno allo stesso tavolo. E metti il “gioco della verità” come quando erano ragazzi solo che ora, a dare impulso alle storie, sono gli smartphone con tutti i loro contenuti più o meno inconfessabili, più o meno decenti, più o meno imbarazzanti: sesso, bugie e applicazioni.
Rocco ed Eva, chirurgo lui, psicanalista lei, sono gli anfitrioni. Coppia in crisi, con troppo silenzi e una figlia adolescente in piena rotta di collisione. Gli ospiti sono Lele e Carlotta, anch’essi professionisti, con due figli e parecchie incomprensioni a carico. Bianca e Cosimo invece sono sposati da poco e sembrano il ritratto della felicità mentre Beppe, reduce da un fallimento sentimentale, si presenta solo. I messaggini partono, partono le telefonate e i watsapp che mettono a nudo piccole meschinità e grandi fallimenti, ma è solo l’antipasto perché con le portate a seguire i temi si fanno scottanti: tradimenti e menzogne, pregiudizi ed egoismi che non salvano nessuno. Le coppie scoppiano, o meglio vengono a galla le magagne tenute accuratamente nascoste sotto la patine del quieto vivere, delle convenzioni o delle convenienze in un crescendo di tensione drammatica fino allo scioglimento finale, che non scioglie nulle e lascia i nodi in sospeso. Perché la prima “dote” in comune tra i personaggi è l’ipocrisia.
Far recitare sette persone gomito a gomito, nello stesso luogo, per 90 e passa minuti di film non è da tutti e Genovese vi riesce in modo egregio, senza sbavature e con polso fermo. Merito anche di una sceneggiatura coi fiocchi. Certo, quando vengono trattate questioni come l’omofobia o le piccole-grandi perversioni il tono cade un po’ nel melodrammatico e la colonna sonora si trasforma in melassa. Il quadretto degli anziani coniugi al balcone di fronte era poi decisamente da evitare. Tuttavia nella sua scelta narrativa il regista ha saputo confrontarsi egregiamente con illustri precedenti che si chiamano Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock, La parola ai giurati (1957) di Sidney Lumet e L’angelo sterminatore (1962) di Luis Buñuel. Film claustrofobici dove la bravura degli interpreti e il loro affiatamento sulla scena devono essere pari alla capacità del regista di trovare adeguate soluzioni stilistiche con la macchina da presa. Certo, Mastrandrea non è Jimmy Stewart né Giallini Henry Fonda e le pur brave Foglietta, Rohrwacher e Smutniak messe insieme non fanno una Silvia Pinal, ma alla fine Perfetti sconosciuti raggiunge quel mix di qualità che lo colloca meritatamente ai vertici della recente produzione nazionale.
Allora perché vederlo?
Per non cadere in paranoia ogni volta che squilla un cellulare
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