Un’altra area che è parso cruciale indagare in relazione al periodo di confinamento, ma più in generale rispetto a questo tempo di pandemia, è quella delle relazioni sociali.
Come si sono modificate le relazioni con gli altri in un’epoca che, per la prima volta nell’esperienza di quasi tutti noi, ha posto dei vincoli severi alle possibilità di incontro fisico e di partecipazione sociale?
E che ruolo hanno svolto, se e quando presenti, tali relazioni? Sono state supportive? Ovvero capaci, pur all’interno dei vincoli dati, di essere effettivamente presenti nella quotidianità delle persone e di rappresentare un riferimento nei momenti critici?
Per quanto riguarda le risposte fornite alla prima domanda, si può notare come nella maggior parte dei casi le restrizioni indotte dalla pandemia non abbiano modificato le caratteristiche dei contatti con le reti sociali di riferimento.
Per quasi la metà dei soggetti nonostante il fatto di non potersi incontrare i rapporti si sono, infatti, mantenuti stabili. L’altra metà si è ripartita, in proporzioni più o meno simili, tra coloro ai quali stare più tempo in casa ha addirittura permesso di coltivare di più le proprie relazioni, anche se solo telefonicamente o via chat/video chat e coloro che hanno invece visto la propria rete di rapporti ridursi in maniera significativa a causa del non potersi incontrare fisicamente.
Interessante osservare come le risposte fornite dalla coorte femminile e da quella maschile presentino alcune differenze.
Tra i maschi risulta, infatti, un po’ più bassa la percentuale di coloro che dichiarano il mantenimento, nonostante le limitazioni, dei legami esistenti. Molto più bassa la percentuale di coloro che hanno approfittato del confinamento per coltivare di più le proprie relazioni. E, conseguentemente, più alta quella di coloro che dichiarano che le loro relazioni si sono ridotte in maniera significativa a causa del non potersi incontrare fisicamente.
Si tratta di risultati in qualche modo attesi: le differenze di genere in ordine alla cura e alla manutenzione dei legami sono state, infatti, sottolineate da diversi autori[1], concordi nell’attribuire alle donne una maggiore competenza e una maggiore disponibilità nella gestione di tali compiti.
Relativamente al ruolo svolto dalle reti sociali, il questionario ha indagato se, con quale frequenza e da chi le persone siano state aiutate a far fronte agli eventuali momenti di difficoltà incontrati durante il lockdown (situazione che ha riguardato – con modalità e gravità anche molto diverse – circa il 40% dei soggetti coinvolti nella rilevazione).
Le difficoltà emerse sono risultate riconducibili alle seguenti condizioni, riportate rispettando la frequenza con cui sono state citate dai rispondenti[2]:
- avere avuto timore di uscire, o non averlo potuto oggettivamente fare, per raggiungere farmacie, supermercati e/o altri luoghi in cui poter acquistare ciò di cui si aveva bisogno
- aver vissuto un forte disagio psicologico
- avere avuto difficoltà a comunicare con il proprio medico di base e/o con i servizi sanitari per avere informazioni chiare e/o supporto
- avere avuto problemi di salute
- non aver saputo a chi rivolgersi per chiedere aiuto rispetto ai propri bisogni
- avere avuto e avere gravi problemi economici
A questi valori deve essere aggiunta una quota significativa di persone che, nello specifico spazio previsto dal questionario, hanno indicato altre condizioni non codificate (quali, per esempio, l’isolamento e la mancanza di rapporti sociali in presenza, l’incertezza del futuro, la fatica di una autosufficienza forzata, ecc.).
Relativamente alla frequenza con cui le persone che hanno dovuto fronteggiare tali disagi hanno ritenuto di essere state aiutate, il campione si è suddiviso in tre gruppi più o meno simili dal punto di vista della consistenza numerica.
Poco meno di un terzo ha infatti dichiarato di non essere ‘mai o quasi mai’ stato aiutato. Il 38% circa di essere stato aiutato ‘ogni tanto’ e un altro 30% circa di soggetti di essere stato invece aiutato più frequentemente (‘spesso’ nella maggior parte dei casi e ‘quasi sempre’ o addirittura ‘sempre’ in poco più del 10% dei casi).
Coerentemente con il maggior impegno femminile nella cura delle relazioni sopra citato, le valutazioni rispetto all’aiuto ricevuto sono risultate più positive da parte delle donne che con frequenza inferiore rispetto a quella riscontrata nella coorte maschile hanno affermato di non essere mai state aiutate e con maggiore frequenza hanno ritenuto invece di avere ricevuto supporto spesso.
Interessante analizzare da chi questo supporto sia stato fornito. Al primo posto, presenti nelle risposte di oltre il 60% dei soggetti (con, nuovamente, una maggiore frequenza nelle risposte delle donne) figurano gli amici. Seguono i parenti che risultano comunque rivestire un ruolo molto importante e risultano citati nella metà delle risposte. Quindi i vicini di casa, con valori decisamente inferiori ma ancora molto significativi (sono presenti, infatti, in poco meno del 30% delle risposte) e a seguire, con percentuali progressivamente più basse, i colleghi di lavoro, le associazioni/organizzazioni di volontariato e le parrocchie, i conoscenti, gli operatori sanitari, gli operatori sociali e/o del Comune.
In una quota, infine, relativamente ridotta di risposte, le persone hanno dichiarato di aver trovato risposta ai propri bisogni presso altri soggetti non codificati (quali negozianti del quartiere, badanti o colf, servizi di delivery).
L’insieme di questi dati evidenzia alcuni aspetti meritevoli di approfondimento.
Innanzitutto l’inedito ruolo preponderante svolto all’interno di queste reti dai rapporti amicali.
Il fatto che le relazioni amicali (che per alcune autrici[3] rappresenterebbero, in virtù della forte connotazione di scelta che le caratterizza, proprio l’elemento peculiare che contraddistingue i social networks dei singles rispetto a quelli dei coniugati) possano costituire il baricentro emotivo-affettivo ma anche materiale nella vita delle persone – in particolare in alcune fasi di questa e in particolare per coloro che abitano da soli soprattutto se senza figli – è un dato già emerso da diverse analisi e ricerche condotte negli ultimi decenni, soprattutto in ambito anglosassone[4].
La conferma che ne viene fornita dai risultati della ricerca qui presentata acquista tuttavia, in quanto espressa da un contesto quale quello italiano in cui il ruolo della famiglia rimane centrale, un significato particolarmente pregnante e indicativo dei cambiamenti in atto.
Non a caso, infatti, anche in Italia – seppure in ritardo rispetto ad altri paesi – si sta cominciando a ripensare, e anche a ridefinire terminologicamente, il concetto di ‘famiglia’ (è il caso, per esempio del termine ‘iperfamiglia’[5]) arrivando a includervi l’insieme di relazioni con gli altri significativi, indipendentemente dal fatto che tali legami siano biologici e/o che abbiano un qualche tipo di riconoscimento istituzionale.
Durante il lockdown la questione ha avuto non irrilevanti risvolti pratici. Basti pensare alla discussione sui ‘congiunti’, poi riqualificati come ‘affetti stabili’, che per un certo periodo di tempo ha rappresentato la complessa linea di demarcazione tra i contatti consentiti e quelli interdetti.
Ma, come i dati sopra presentati ben evidenziano, è il mondo delle reti di prossimità nel suo complesso (e quindi amici ma anche parenti, vicini di casa, colleghi di lavoro, volontari) a risultare presente e disponibile per le persone che abitano da sole e che si sono trovate in difficoltà nel periodo del confinamento.
Gli operatori dei servizi formali (siano essi sanitari o sociali) risultano, al contrario, molto meno attivi nell’intercettare e nel rispondere alle problematiche vissute dai cittadini nonostante le caratteristiche dei bisogni riportati dai rispondenti chiamino frequentemente in causa come primo attore proprio il mondo istituzionale. Quando le persone dichiarano di avere vissuto un forte disagio psicologico, di avere fatto fatica a comunicare con il proprio medico di base e con i servizi sanitari, di avere avuto problemi di salute denunciano, infatti, implicitamente l’assenza, o quantomeno l’inadeguatezza, di una medicina territoriale e di comunità.
Tale carenza è stata, peraltro, evidenziata ripetutamente negli ultimi mesi a proposito della gestione della pandemia da parte della Regione Lombardia il cui modello sanitario ospedalo-centrico ha visto allocare negli ultimi decenni quote sempre più consistenti delle risorse disponibili sulle cure ospedaliere lasciando di conseguenza sguarnito il fronte che avrebbe dovuto rappresentare la prima barriera alla diffusione del virus e che avrebbe dovuto gestire il più possibile a livello di base i bisogni delle persone.
Analogamente la difficoltà sperimentata da diversi soggetti nell’individuare gli attori del sistema a cui portare le proprie necessità o i propri problemi economici appare indicativa di servizi sociali poco radicati sul territorio, poco proattivi ovvero poco capaci, anche in questo caso verosimilmente per carenza di risorse, di assumere come committenza la popolazione complessiva del proprio bacino di riferimento e non solo l’utenza in carico.
Risultati simili erano peraltro già emersi in una precedenza ricerca sulle donne che vivono da sole a Milano[6] dove analogamente si era evidenziato come tra le donne di età superiore a 65 anni residenti in una specifica zona del decentramento amministrativo più del 40% delle intervistate (ovvero una percentuale molto elevata, soprattutto in considerazione del fatto che le interviste erano state effettuate prevalentemente in ambiti di socializzazione in cui l’informazione aveva la possibilità di circolare più facilmente) non conoscesse l’offerta di servizi presente sul territorio. Non solo, oltre la metà di coloro che avevano affermato di conoscerla avevano citato volontari, parrocchie, sindacati, associazioni, badanti, ovvero avevano indicato come servizi realtà non riconducibili al sistema di offerta pubblico/privato accreditato. Il che autorizzava a concludere che, in definitiva, solo circa 1 anziano su 3 conoscesse (e spesso comunque in maniera piuttosto approssimativa) la presenza e l’ubicazione di strutture a cui avrebbe potuto rivolgersi in caso di bisogno.
Un ultimo elemento degno di nota è come, nella attuale indagine, le persone che hanno dichiarato di essere state aiutate a fronteggiare le difficoltà abbiano nella maggior parte dei casi indicato più soggetti quali fonte di aiuto. Questo identifica le loro reti sociali di riferimento come reti capaci di combinare risorse differenti e pertanto di essere, quantomeno potenzialmente, in grado sia di garantire aiuti ‘di riserva’ per far fronte ai bisogni sia di rendere disponibili interventi differenziati e complementari la cui efficacia può essere massimizzata proprio dalla loro diversità e integrazione.
( Dati Ricerca e Testi di Graziella Civenti, Alessandro Magni, Orleo Marinaro, Gianna Stefan)
[1] Putnam R.D. Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America Il Mulino, Bologna, 2004; Gerstel N. Rethinking Families and Community: The Color, Class and Centrality of Extended Kin Ties Sociological Forum, 26, 1, 1-20, 2011; Klinenberg E. Going Solo. The extraordinary Rise and Surprising Appeal of Living Alone The Penguin Press, New York, 2012
[2] Trattandosi di una domanda a risposta multipla i valori riportati costituiscono la somma di tutte le occorrenze di ciascuna opzione
[3] De Paulo B., Morris W. Singles in Society and in Science Psychological Inquiry, n. 16, pag. 57-83, 2005
[4] Tomassini C., Glaser K. Anziani, sistemazioni abitative e assistenza in Pinnelli A., Racioppi F., Rettaroli R. (a cura di) Genere e demografia Il Mulino, Bologna, 2003; Roseneil S., Budgeon S. Cultures of Intimacy and Care beyond the Family: Personal Life and Social Change in the Early 21st Century Current Sociology, 52, 2, 2004; Ghisleni M., Greco S., Rebughini P. L’amicizia in età adulta. Legami di intimità e traiettorie di vita Franco Angeli, Milano, 2012; Chopik W.J. Associations among relational values, support, health, and well‐being across the adult lifespan Personal Relationship, 24, 2, 408-422, 2017; Blieszner R., Ogletree A.M., Adams R.G. Friendship in Later Life: A Research Agenda Innovation in Aging, 3,1, 2019
[5] Annalisa Camilli lo riprende dalla scrittrice Elena Stancanelli in E se ricominciassimo dall’iperfamiglia? Internazionale, aprile 2020. Nel mondo anglosassone già da tempo si discute di chosen families o families of choice (famiglie scelte o famiglie per scelta) e di intentional communities (comunità intenzionali) per esprimere il medesimo concetto. Si veda al proposito anche il volume The Care Manifesto a cura di The Care Collective recentemente tradotto in Italia (Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza Ed. Alegre, Roma, 2021) da Marie Moïse e Gaia Benzi in cui analogamente si ragiona di parentele alternative della cura
[6] Civenti G. Una casa tutta per sé. Indagine sulle donne che vivono da sole FrancoAngeli, Milano, 2015
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.