Il ruolo degli strumenti digitali è stato indagato, direttamente o indirettamente, attraverso due principali blocchi di domande.
Un primo set di item ha riguardato l’attività lavorativa dei/delle rispondenti e ha rilevato non solo lo stato occupazionale, ma anche il mantenimento, o meno, durante il lockdown dell’attività lavorativa e le modalità con cui, in caso positivo, questa è stata svolta.
I dati raccolti hanno evidenziato come soltanto una percentuale ridotta (pari a poco più del 10%) dei soggetti occupati si sia recata regolarmente presso la propria sede di lavoro. Nella maggior parte dei casi le persone hanno dichiarato di aver lavorato in smart working, sia esclusivamente in smart working (condizione che ha riguardato la quota maggioritaria delle persone che hanno risposto al questionario) sia, in misura più ridotta, alternando lo smart working ad attività in presenza. Si tratta di un dato coerente con la tipologia delle professioni esercitate dal campione in prevalenza impegnato in attività che, pur nella grande differenza di competenze e ruoli riscontrata, possono essere ricondotte al settore del terziario o del terziario avanzato.
La velocità e la capillarità con cui questa modalità di lavoro si è diffusa appare sorprendente: l’emergenza sanitaria nel breve volgere di qualche mese ha consentito un salto verso l’uso quotidiano di sistemi digitali per compiere il quale, in condizioni normali, sarebbero probabilmente occorsi diversi anni.
Ne è riprova il fatto che prima del lockdown il lavoro agile era una pratica attuata da un esiguo numero di aziende (in massima parte di grandi dimensioni e spesso impegnate in questa modalità di lavoro già prima dell’avvento della Legge 81/2017 con la quale, in Italia, è stata data una cornice normativa allo smart working) e coinvolgeva un ridottissimo numero di lavoratori subordinati (circa 570.000, stando al monitoraggio dell’‘Osservatorio Smart Working’ del Politecnico di Milano[1]) collocando l’Italia al di sotto della media europea e molto al di sotto dei valori raggiunti dai paesi del nord Europa. Secondo lo stesso Osservatorio durante la fase più acuta dell’emergenza lo smart working ha coinvolto 6,58 milioni di lavoratori agili corrispondenti a oltre un terzo dei lavoratori dipendenti italiani. Ovvero nel giro di un anno il numero degli smart worker si è più che decuplicato).
Ma che giudizio ne hanno dato coloro che lo hanno sperimentato e che ancora lo stanno praticando?
Poco meno di un terzo delle persone la ritiene una esperienza positiva tout court, meno del 10% la giudica negativamente e la restante, maggioritaria, quota dei soggetti coinvolti nella rilevazione, senza differenze significative nelle valutazioni espresse da uomini e donne, ritiene che si tratti di un’esperienza per alcuni aspetti positiva e per altri negativa.
Gli aspetti negativi vengono prevalentemente individuati nell’assenza di momenti di socializzazione con i colleghi e, più in generale, nella mancanza di contatto e di rapporto diretto con gli altri, condizione che in alcuni casi si è configurata come solitudine o addirittura isolamento della persona.
Un altro aspetto negativo appare legato alla difficoltà/impossibilità di separare nettamente, nel lavoro da remoto, la vita lavorativa da quella privata. La casa – che dovrebbe essere uno spazio e un tempo per sé – è risultata invasa dagli impegni di lavoro che spesso hanno costretto, con richieste esplicite o implicite da parte di superiori o altri interlocutori, a una sorta di reperibilità illimitata.
Senza contare, altro argomento giudicato negativamente, che l’ambiente domestico spesso non era attrezzato per svolgervi le attività lavorative, né sotto il profilo dell’organizzazione degli spazi né sotto quello della strumentazione tecnica necessaria né infine in relazione all’ergonomia della postazione, spesso inadeguata a supportare un numero elevato di ore davanti al computer. Elementi tutti, questi ultimi, che hanno contributo, nella valutazione di diversi rispondenti, a rendere difficile la concentrazione sul compito ritenuta al contrario maggiore nelle sedi abituali di lavoro.
Non da ultimo ha pesato la fatica correlata al dover inventare un modo di lavorare nuovo e diverso e al dover acquisire competenze in precedenza non richieste.
Come elementi positivi vengono citati invece il fatto di poter evitare i disagi e i costi legati al pendolarismo, e comunque agli spostamenti casa/lavoro e la possibilità di riconvertire il tempo così guadagnato in tempo per sé, elemento che unitamente alla maggiore flessibilità e autonomia nella gestione della quotidianità ha consentito di raggiungere un più soddisfacente work/life balance.
Un altro fattore che ha giocato a favore del lavoro da remoto è stata la maggiore sicurezza rispetto al rischio di contagi che il lavoro da casa ha garantito.
Così come specularmente a quanto rilevato da coloro che lo avevano connotato negativamente, diverse persone hanno considerato un elemento positivo la maggiore concentrazione, con il conseguente aumento della produttività, che l’ambiente domestico ha consentito. Allo stesso modo da alcuni è stato ritenuto fattore motivante e arricchente l’essere stati costretti ad apprendere (o migliorarne la conoscenza e la capacità di utilizzo) nuove abilità e competenze, in particolare quelle tecnologiche e digitali.
Difficile oggi dire se le attuali condizioni di lavoro, oggettivamente distanziato – quantomeno in alcune aree di attività – per ragioni sanitarie, porteranno a una reale, diversa e innovativa prospettiva con la quale concepire l’attività produttiva, capace di formalizzare gli elementi positivi sopra evidenziati e di prevedere mitigazioni e compensazioni per quelli negativi.
Quello che è certo è che se le soluzioni e i processi introdotti in via emergenziale diventeranno strutturali e, almeno in parte, verranno normalizzati e integrati, il cambiamento non potrà riguardare solo il lavoro (o la scuola) ma impatterà necessariamente sui paradigmi culturali, sull’idea di città – e di servizi e infrastrutture che la città deve offrire – sulla rigenerazione del territorio e sui modelli di socialità e di relazionalità.
Senza contare la nuova configurazione delle disuguaglianze, di genere, sociali ed economiche, che il lavoro da casa ha fatto emergere. L’isolamento domestico e il lavoro a distanza non hanno, infatti, trovato tutti pronti e preparati allo stesso modo. Al contrario, hanno messo a nudo vulnerabilità e disparità profonde rispetto alla disponibilità, o scarsità, di risorse (in questo caso il comfort della propria abitazione e l’adeguatezza della postazione lavorativa, la qualità dei dispositivi di accesso, la potenza della connessione alla rete,[2] il tempo da dedicare a compiti di cura, ecc.), disparità che non potranno essere eluse nel momento in cui si programmasse una prosecuzione dello smart working anche oltre l’emergenza.
Per questo motivo sono necessarie una analisi e una visione progettuale ad ampio raggio e il più possibile partecipate che consentano di porre le basi di un nuovo modello di welfare evitando così di consegnare alla sola tecnologia la dotazione di senso da attribuire a trasformazioni destinate a modificare profondamente la nostra quotidianità.
Il ruolo che le tecnologie digitali hanno svolto durante il periodo del confinamento, e più in generale durante la pandemia, è andato tuttavia oltre il loro impatto sulle attività lavorative.
Il secondo blocco di domande che ha consentito di enucleare elementi interessanti al riguardo era finalizzato a rilevare come fosse stato occupato il tempo durante il lockdown e, in particolare, se tra le attività svolte ce ne fossero di mai praticate in precedenza.
A quest’ultima domanda in particolare circa il 40% di soggetti ha risposto affermativamente.
Si tratta di un valore elevato (difficile immaginare una concentrazione così alta di nuovi apprendimenti in un intervallo di tempo della vita individuale e collettiva così ristretto) e sostanzialmente sovrapponibile a quanto rilevato da una ricerca realizzata da SPI CGIL e dal Dipartimento di Salute Pubblica dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche ‘Mario Negri’[3] dove su un campione di 1.480 cittadini lombardi di entrambi i sessi e di età superiore a 65 anni il 40% degli intervistati aveva dichiarato di aver trascorso il tempo del confinamento dedicandosi a nuove attività.
Ci sono al riguardo due aspetti meritevoli di attenzione.
In primo luogo occorre rilevare che, mentre non emergono differenze sostanziali relativamente alle fasce di età, è invece evidente una netta differenza di genere, con una presenza femminile nel gruppo di coloro che durante il lockdown hanno fatto cose che in precedenza non avevano mai sperimentato decisamente maggiore rispetto ai valori dichiarati dalla coorte maschile.
Un altro elemento degno di nota è costituito dal fatto che in quasi il 90% dei casi le novità indicate hanno riguardato (o hanno riguardato anche) le tecnologie digitali, in particolare l’uso di piattaforme che hanno consentito non solo di proseguire l’attività lavorativa da remoto, ma anche di mantenere le relazioni con gli altri (parenti, amici, terapeuti, assistiti), di partecipare a eventi, seguire corsi, tutorial e ascoltare conferenze, di accedere a film e programmi di intrattenimento e di fare acquisti senza uscire di casa.
La prevalenza femminile sopra richiamata potrebbe in questo caso aver funzionato nella direzione di colmare un gender gap che nelle fasce di età meno giovani sembra ancora esistere e differenziare l’approccio dei due generi rispetto all’uso di tali strumenti.
Osservando più in generale il grado di diffusione delle nuove tecnologie che questi dati documentano si possono formulare diverse osservazioni.
Innanzitutto esso testimonia come la presenza di questi dispositivi abbia consentito di mantenere le interazioni sociali fungendo da meccanismo protettivo rispetto al rischio che l’isolamento fisico e la sottrazione dei rituali di contatto sociale sperimentati durante il lockdown (in modo particolare proprio dalle persone che abitano da sole) si trasformassero in isolamento sociale ed emotivo[4].
In questo senso la contrapposizione, spesso proposta, fra un mondo reale analogico (positivo) e un mondo virtuale digitale (negativo) risulta fortemente ridimensionata e problematizzata quando il digitale diventa quasi l’unico spazio possibile di relazione (umana, educativa, terapeutica, commerciale) e di condivisione in tempo reale[5].
Secondariamente la veloce diffusione di questi strumenti mostra come la digitalizzazione fosse di fatto accessibile da subito a una platea di fruitori ben più ampia rispetto a quanto ipotizzato in tutto il periodo che ha preceduto la pandemia.
In quest’ottica il coronavirus avrebbe svolto un ruolo di disruptive innovator forzando la mano a cambiamenti che stentavano ad affermarsi – si consideri quanto già osservato a proposito dello smart working – pur essendo tecnicamente pronti per essere implementati (è evidente che se il Covid19 ci avesse sorpreso anche solo un decennio fa, quando smartphone e connessioni internet veloci non esistevano ancora, questo processo non avrebbe potuto realizzarsi e diffondersi con la capillarità che i dati sopra riportati testimoniano).
Infine è opportuno evidenziare che gli aspetti positivi sopra richiamati non cancellano, anzi lasciano ben aperti gli interrogativi sul futuro, da un lato relativamente alle difficoltà e alle disuguaglianze generate dai divari digitali, dall’altro in ordine ai rischi potenziali che la digitalizzazione diventi in qualche modo sempre più sostitutiva delle relazioni in presenza[6] e di una “comunicazione emozionale”[7] e sempre più individualizzante portando di fatto a un restringimento, fisico e simbolico, dell’idea di città e delle città stesse, scomposte in un arcipelago di singole abitazioni, interconnesse ma estranee a processi di scambio sociale più ampi.
( Dati Ricerca e Testi di Graziella Civenti, Alessandro Magni, Orleo Marinaro, Gianna Stefan)
[1] Scansani G., Pesenti L. Smart Working: oltre le utopie. Dal lavoro da remoto forzato alle nuove modalità organizzative del post-pandemia Il Messaggero, 19.11.2020; Pesenti L., Scansani G. Welfare aziendale. E adesso? Un nuovo patto tra impresa e lavoro dopo la pandemia Vita e Pensiero, 2020
[2] In Italia la banda larga ultraveloce raggiunge il 24% della popolazione contro la media UE del 60% (Querzè R., Fracaro M., Saldutti N. Lavorare da casa. I diritti (e i doveri) dello smart working RCS Media Group, 2021)
[3] Bonati M., Clavenna A. Ricerca SPI CGIL – Dipartimento di Salute Pubblica dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche ‘Mario Negri’ Ci dicevano “andrà tutto bene” ma avevamo paura, Milano, 04.11.2020
[4] Per quanto riguarda il ruolo positivo svolto dalle nuove tecnologie per le persone meno giovani si veda Chopik W.J. The benefits of social technology use among older adults are mediated by reduced loneliness Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, 2016
[5] Caporale C., Pirni A. (a cura di) Pandemia e resilienza Persona, comunità e modelli di sviluppo dopo la Covid-19 Edizioni CNR, Roma, 2020
[6] Si veda in proposito Olivia Laing Città sola Il Saggiatore, Milano, 2018, pag.212 e seguenti
[7] Borgna E. Le parole che ci salvano Einaudi, Torino, 2017, pag.132
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.