Sesto incontro. Il tema sembra poco appetitoso: le risorse che metto in gioco per il mio progetto. Ma è così importante? Che cosa vuol dire “risorse”? Ogni tanto sento usare parole che mi disorientano ….Ascolto il docente di turno che apre con una riflessione quanto mai chiara e condivisibile: ognuno di noi non possiede tutte le risorse utili a soddisfare i propri bisogni e desideri. Chi ci sta intorno ci può essere di aiuto, può disporre proprio di quelle risorse che possono essere per noi interessanti. E quindi la vera domanda sulle risorse è: che cosa chiedo e a chi? E dietro a questa domanda ce n’è un’altra, ben più strategica: quanto noi siamo disposti a chiedere?
E’ vero, chiedere ci risulta difficile, un po’ perché non sappiamo che cosa ci serve, un po’, almeno parlo per me, perché un sottile imbarazzo mi pervade. La reazione della “classe” a queste parole non tarda ad arrivare ed è animata: chiedere vuol dire porsi in una condizione di debolezza, vuol dire andare da un estraneo e spiattellargli le proprie cose, così facendo ci si impegna poco e si scarica sugli altri le proprie responsabilità, e poi come si affronta la delusione del no e del rifiuto, se uno ha responsabilità fa di tutto per provarci prima da solo, fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio…..Questo quel che è uscito. Un fuoco di fila, un “rifiuto” compatto.
Il docente ci guarda, sorride, e non dice nulla. Sembra la sua una pausa alla Celentano. Si anima il partecipante che ha ricevuto i bigliettini (lo ricordate, vero?): “perché non dovremmo chiedere? Io ho chiesto a Gino di darmi una mano per il mio progetto, perché il suo entusiasmo può aiutarmi ad accendere il mio, perché sento che mi ascolta. E non sento di cedere le mie responsabilità. L’ho deciso io, e se capisco che per qualche motivo la cosa non funziona, lo ringrazio e la domanda la pongo a qualcun altro. Anzi. Se fosse stato Gino a farsi avanti, molto probabilmente gli avrei detto di no”.
Altra pausa. Interviene un altro: “io non andrei mai a chiedere. Le mie cose preferisco risolverle da solo, faccio fatica a fidarmi degli altri. Per una vita ho fatto così, non ho mai avuto l’esigenza di bussare a qualche porta. Se l’avessi fatto mi sarei sentito come un fallito”. Resto perplesso: perché queste reazioni? E’ l’orgoglio (la butto lì: penso con questa parola di sintetizzare un po’ il “non detto” del gruppo) una risorsa per tutte le stagioni, capace da sola di consentire a un progetto di prendere forma? In definitiva, tengo più al mio orgoglio o al mio progetto? Può l’orgoglio contribuire al mio benessere? L’orgoglio, se riesco, non mi esalta, mi consente solo di dire “era scontato che accadesse”. Se non riesco, ci obbliga a soffrire in silenzio. A nascondere: e soffrire in silenzio fa ancora più male. Io credo che manifestare la propria debolezza, se è il caso, sia un gesto di grande forza, che mobilita rispetto. Non è forse “bello” raccontare agli altri quel che intendi fare, condividere l’entusiasmo del fare, ascoltare i dubbi? Un entusiasmo che non è condiviso possiamo chiamarlo ancora così? Noi esistiamo attraverso le relazioni che abbiamo con gli altri. Ritorno a quello che scrissi in uno dei pezzi precedenti, esiste un filo invisibile che ci lega tutti, indistintamente. Anzi penso che il mio progetto non avrà senso se non coinvolgo altri, se altri non sono presenti negli “obiettivi”. Avrei voluto dire tutto questo al gruppo, ma mi precede il docente, e ci spiazza.
Perché questa resistenza al “chiedere”? Se giudicate “sconveniente” il chiedere, perché state pensando al volontariato? Il volontario non è colui che dona qualcosa di se stesso in risposta a una domanda di aiuto? Il volontario non può pretendere di sapere a priori che cosa serve all’altro. Compito suo è anche stimolare e accogliere la domanda dell’altro, non presumere e di conseguenza agire. Se così fa, in realtà probabilmente sta facendo qualcosa per sé, scambiandola per un atto di gratuità. Facendo qualcosa per qualcuno ci consentiamo di fregiarci e confermarci del titolo di “buono” (l’orgoglio che rispunta?). Ma l’altro come la pensa? Ha dovuto prendere un bicchiere d’acqua e berlo in un momento in cui non aveva sete. E noi ci facciamo i complimenti perché lo abbiamo aiutato a bere…..e ci restiamo male se non ci dice grazie….. Chiedere è importante quanto ascoltare la domanda: ci fa sentire accolti, compresi, origina fiducia, mette in moto la solidarietà, l’unica vera merce di cui di questi tempi abbiamo bisogno e non si trova, non si trova.
Ve la offro a mia volta questa riflessione che ho raccolto dal docente, che condivido: non mi sento di aggiungere altro, sono parole che arrivano diritte, giù fino in fondo all’anima e ci interrogano. Molto.
Vi ricordate Alberto Manzi? Nella sua giacca un po’ ispida e col gessetto sempre integro che ci spiegava con una chiarezza e semplicità oggi introvabili che “non è mai troppo tardi”. Sembra profetica quella frase.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.