Ieri davanti al giornalaio. Con il mio pacchetto di riviste sottobraccio mi avvio verso casa ma una donna vestita di bianco, intrisa di fretta, mi aggancia il braccio e tutto il mio tesoro di carta rovina in terra. Mi chino per raccoglierlo, infastidito. Sento un “mi scusi” che sa di semplice rituale educato. La guardo in faccia, lei mi fissa e ne esce con un “ma tu sei Gino, vero?”
La guardo meglio. Si, è una delle partecipanti al corso Nestore. Nicoletta. La riconosco. Rimetto sotto braccio il mio fagotto di carta e abbozzo un sorriso. Il tono delle scuse diventa più sincero: “scusa davvero Gino, ma ultimamente sono diventata un po’ distratta”. Fingo di credere alla distrazione, e congelo il fastidio. “Nicoletta, come stai?”.
“Mah, così così… Mi fa piacere vederti. Procedi con il tuo pensionamento? Hai dato spazio a quel che abbiamo imparato al corso? Il fatidico progetto di vita, ti ricordi?” E accompagna l’ultima frase con un sorrisino eloquente. Un condimento di sarcasmo che non mi piace.
“Certo che ricordo, eccome se lo ricordo”.
“Hai da fare? Ti va se beviamo un caffè insieme?”
Stavo per dirle di no, ma mi sembrava scortese. Acconsento.
In un bar lì vicino, anonimo e di passaggio, con un arredamento che sa di seconda mano di trattoria di 50 anni fa, ci sediamo. Ci servono frettolosamente il caffè, come se il locale fosse superaffollato. Eravamo gli unici seduti.
“Allora Gino, come stai, che cosa mi racconti?”
Non ho molta voglia di aprire il mio libro. “Bene… un po’ di sbandamento all’inizio, poi con il corso ho trovato la strada giusta. Faccio qualche viaggetto, un po’ di volontariato…”
Taglio corto. Non ha voglia di ascoltarmi. Caso mai di essere ascoltata. Ed è così.
“Per me è stato solo una perdita di tempo quel corso. Una perdita di tempo. Ti raccontano che la strada è in discesa e poi invece la scopri tutta in salita. Ma dove sta il “progetto di vita”? Mi sono illusa, e ora ne sto pagando le conseguenze”
Mi aspetta una lunga confessione, lo sento. Cerco una posizione comoda. Ma la sedia non è dello stesso parere. Pazienza.
“Che cosa ti è capitato?”. E’ la domanda che si aspettava.
“Le cose con mio marito non vanno assolutamente bene. Sto pensando di lasciarlo.”
“Perché hai voglia di parlarne ora e con me?”
“Perché ho bisogno di parlarne con qualcuno. E’ un peso che ho qui e non riesco più a reggere.
Da tempo ormai sopporto un rapporto divenuto malato. Il pensionamento ha fatto scivolare mio marito in una situazione quasi depressiva. E’ un no continuo su tutto, è sempre in casa, fa poco, dorme tantissimo. Non vuole vedere nessuno. E con me è intrattabile, maleducato. Mi rinfaccia continuamente tutto quello che nel nostro rapporto negli anni non ha funzionato”.
Una lunga pausa e arriva il pianto. Trema. Gli occhi sono bassi. La gonna raccoglie tutte le copiose lacrime. Singhiozza.
Lascio che il silenzio raccolga il suo dispiacere.
Poi, a mezzavoce, provo: “Da quanto va avanti così?”
“Ormai quasi due anni. E non c’è verso a cambiare. Se provo a parlarne, lui si arrabbia, dice che non lo capisco, che è un momento così e che devo accettarlo. Ma per me è diventato l’inferno”.
E le lacrime tornano copiose. Il barista mi guarda male: non capisce, mi pensa responsabile di quel pianto.
Lascio che si calmi un attimo.
“Nicoletta, che cosa posso fare per te?”
“Non lo so, non lo so”. E mi prende la mano. “Gino, sono sola, ho bisogno di qualcuno”.
Credo di comprenderla perfettamente. E’ giunta al limite, la sua richiesta di aiuto sarebbe stata per chiunque lei avesse incontrato e riconosciuto.
“Nicoletta, tu non hai bisogno di me. Ma di uno psicologo. E di un avvocato. Ti stai distruggendo. Fermati in tempo. Ma prima di questo: andate da uno psicologo insieme, no?”
“Non lo accetterebbe. Per lui sono io il problema. E poi non credo più in questo rapporto. E’ diventato tossico per me”.
“Allora l’avvocato. Ma cerca di disintossicarti prima. Milano certamente non manca di proposte. Iscriviti a qualche corso, cerca di restare fuori di casa quanto puoi. Ti risulta difficile farlo?”.
“Ho paura di restare da sola, Gino.”
“Comprendo: ma soffriresti di più restando sola o continuando a far parte di questa depressiva tragedia?”
Mi guarda. Ora è meno agitata. Il pianto ha lavato via la sua afflizione.
“Non so risponderti Gino. Fra due dolori è sempre difficile scegliere quale è più leggero”
“Mi rendo conto, ma il tuo stare meglio passa attraverso quella domanda”
Fissa il fazzoletto, e lo strofina fra le dita. Quella domanda le risuona dentro. Ma non mi aspetto risposta. Mi rendo conto che ha da trovarla. E non sarà facile per lei. Non così scontata.
Si ricompone i capelli, asciuga le ultime lacrime rimaste sul volto.
“Scusa se ti ho trattenuto per così tanto, Gino. Ora sto meglio. Grazie”
“Grazie per che cosa?”
“Per il tempo che ti ho strappato a forza. E per non esserti negato. Potrò ancora incontrarti prossimamente?”
“Se vuoi, certamente”.
Ci alziamo. Lei si dirige dal barista per pagare i due caffè. Sento distintamente la sua battuta: “Signora, lo lasci quell’uomo, ho visto quanto l’ha fatta piangere. Uomini così non meritano, mi creda.”
“Grazie per il consiglio. Ne terrò conto”. Viene verso di me e mi sorride: “Come cambia la realtà se vista con altri occhi. Forse di questo ho bisogno”.
E così Nicoletta si è allontanata con un sorriso. E uno spruzzo di speranza dentro di sé.
Grazie ad un improvvido barista.
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