Ho deciso di chiamare Marco. E’ passato tanto tempo, non si è fatto più sentire. Ci eravamo lasciati bene, con qualche lacrima dal sapore diverso.
Risponde la moglie. La voce è diversa. Il tono è di sorpresa, ma intuisco che qualcosa ancora non va. Lancio un generico vederci “nei prossimi giorni, quando volete”. La sua risposta non lascia dubbi: “quando vuoi Gino, noi siamo qui. Meglio al pomeriggio”.
“E se passassi dopodomani?”.
“Certo Gino, per te la nostra porta è sempre aperta. Vieni dopo le 15. Ti aspetto”.
Ho passato due giorni a immaginare che cosa potesse essere successo. Quel che poi ho trovato mi ha proprio stretto il cuore. E capire la latitanza di una telefonata da parte loro.
Quando arrivo mi viene ad aprire Marco. Appoggiato ad una stampella, il passo è incerto, ma si muove. I suoi gesti sono affaticati, lenti. Con il saluto Marco abbozza un sorriso quasi impercettibile. Entro. La casa è nella penombra, calda. C’è disordine dappertutto.
“Aspetta che chiamo mia moglie, sarà contenta di vederti”. E scompare dietro una porta. Osservo quel che è intorno a me: un disordine di cose accatastate da tempo. Persino i piatti con i resti di una cena abbandonati sopra una pila di riviste. Non era la casa che avevo lasciato. Sento dei rumori dietro la porta, qualche incomprensibile frase. La luce filtra a fatica dalle tapparelle basse.
La porta si apre: lei è in vestaglia, dimagrita, il volto scavato e i capelli assolutamente senza una idea di pettinatura. Si appoggia nell’incedere. Mi stringe la mano. Come stringere un foglio di carta.
Marco l’aiuta a sedersi. Lei si adagia sulla poltrona, spossata.
“Gino, vuoi un caffè?”.
“No, Marco, ti ringrazio, l’ho già bevuto prima di venire qui”.
Lui si siede nella poltrona accanto alla moglie. Mi invita ad accomodarmi sul divano. Faccio spazio fra cuscini e vestiti probabilmente da stirare.
Mi guardano. Aspettano attenzione.
“Sono passati alcuni mesi, non vi ho più sentiti, ho pensato di venire a trovarvi”.
Cerco di centellinare le parole. Sento che sta per arrivarmi addosso un groviglio di malessere e dolore. Cerco di evitare la domanda “come va?”.
“Marco, raccontami di questi mesi, del tuo lavoro. Dell’aiuto delle associazioni che ti avevo segnalato. Se posso fare qualcosa per te”.
Lei piange. Lui cerca di consolarla, accarezzandole gli arruffati capelli. Passa qualche istante ed insieme anche la commozione di entrambi . Rispetto quel silenzio.
“Gino, io mi sto curando, ma la malattia procede di gran carriera. Abbiamo avuto e continuiamo ad avere aiuto da alcuni volontari che ci hai segnalato. Sono bravi, la loro solidarietà ci sostiene. Ho ripreso a lavorare, faccio solo mezza giornata, mi affatico facilmente, e poi lei ha bisogno di me”.
E si rivolge alla moglie con una tenerezza infinita, concedendole un lunghissimo sguardo. Altra lunghissima pausa. A lei luccicano di nuovo gli occhi. Ci sono momenti in cui le parole hanno il potere di profanare il silenzio. Li ho seguiti con lo sguardo, quasi in raccoglimento. Colgo in quegli occhi pieni di dignità nella sofferenza una grande intensità.
“Purtroppo un mese prima di Natale, lei ha avuto dei disturbi improvvisi, ha fatto delle analisi in fretta e furia e….”.
La guarda di nuovo. Lei si abbandona ad un lungo respiro, che sento faticoso.
“Gino non chiedermi di che si tratta. Sono parole che fanno male solo a sentirle. Ora è a letto. Quando le cure fanno effetto riesce a stare in piedi un paio di giorni, ma poi la spossatezza la riconduce lì”.
Sorride… “sono diventato il suo infermiere di fiducia. Solo le punture non posso farle, con il mio tremolio non so quanti buchi le farei. Abbiamo i volontari che ci assistono. Ed anche sul lavoro son tutti bravi, cercano di lasciarmi tranquillo, di proteggermi dalle tensioni quotidiane. E’ il gruppo che tu conosci e che hai saputo creare in questi anni. Merito tuo2.
“Non dire così, Marco. Tutti hanno merito. E che cosa fanno per aiutarti?”.
Cerco di aprire verso una attenzione diversa. Marco racconta, per un momento sembra anche divertito. Mi cita circostanze, pratiche dalla vita difficile, le piccole incomprensioni.
Per un momento noto un rilassamento nei due. Poi un’altra pausa, lunga.
Lei prova ad inserirsi: “E tu Gino, come va la tua vita?”. La voce è bassa, le vocali incespicanti.
Non so che cosa rispondere. Mi piacerebbe fosse qui quella arrogante di Matilde…
Le racconto della mia vita con Lina e di volontariato. In modo compassato, come se leggessi l’elenco della spesa. Mi chiedono del Lago d’Iseo (per Marco è la mia “fissazione”). Provo con il racconto a trasportarli là, a immaginare quelle atmosfere distese, il placido scorrere del tempo. E’ il regalo che riesco a fare loro. Si prendono per mano, i lineamenti del volto di lei sembrano meno contratti, le gambe di lui meno nervose. Riesco a rubarli al loro malessere per una mezz’ora. Non mi accorgo che sono ormai le 19. Suonano alla porta. Marco riprende la stampella e con il suo passo incerto si avvicina all’ingresso. “E’ la nostra vicina, mi dice. Ha 20 anni più di noi, ma è ancora arzilla: ci ha adottati e ci fa da mangiare. E’ fissata con le polpette. Per fortuna le fa buone”.
A quel punto mi sono congedato. Forse potevo restare lì ad aiutarli, o forse no. Li ho lasciati con la promessa di tornare con Lina, e la sua specialità della carbonara.
Seppur con fatica, anche lei si alza dalla poltrona, si avvicina e mi sussurra: “grazie per essere venuto, e torna. Oggi sei stato la medicina migliore per me. Davvero arrivederci”.
Sono uscito turbato e molto pensieroso: mi hanno fatto accarezzare il senso della vita. E intuire quanto bisogno è accanto a noi, discreto. Che dignitosamente non chiede ma accetta tutto quel che puoi dare. Che ti sembra ben poco, ma in realtà è tanto.
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