Alla fine, nonostante il mio “no, grazie”, Eusebio vuole vedermi. Appuntamento di primo pomeriggio a Parco Venezia, accanto alla statua di Montanelli. Quando lo vedo, il saluto è rapido. Mi sono preparato per chiudere con lui definitivamente la storia dell’aloe. Ma rapidamente mi rendo conto che l’appuntamento è per altro.
“Gino, grazie per essere venuto. Scusa la fretta. Siamo qui per Mario. Te lo ricordi Mario al corso?”.
“Si, Mario, quello che parlava di voler fare il giro dell’America”.
“Proprio lui. Non è vero niente. L’America è una balla. Ha recitato. E’ matto, è matto”.
“Non posso crederci!”
“Invece è proprio così! Pensa che tutte le mattine arriva puntuale alle 10, si sistema su quella panchina e ci resta fino alle 13. Senza fare nulla. Solo guardando. Non legge neanche un giornale”.
“Ma tu come lo sai?”
“Perché la scorsa settimana passando di qui per i fatti miei l’ho notato, tutto assorto nella sua osservazione. Mi sono fermato per salutarlo. E’ stato lui a dirmi tutto. Dobbiamo fare qualcosa”.
“Per caso non hai qualcosa a base di aloe da dargli? Per tirarlo su”.
“Non scherzare, Gino. La cosa è seria”.
“E perché?”
“Ma è normale secondo te piazzarsi tutte le mattine su una panchina a non fare niente? Eccolo che arriva, puntuale”.
E mi indica un ometto un po’ curvo, dal passo incerto che si avvicina a una panchina, la osserva, sembra spolverarla, e poi si siede, aggiustandosi il cappello a larghe tese che tiene sulla testa. Giuro che non l’ho riconosciuto. Eusebio mi fa cenno di seguirlo. Non capisco, ma mi adeguo.
“Facciamo finta di passare di qui per caso”, mi dice Eusebio, e attacca con una frase qualunque come se fosse l’ultima di un lungo discorso a pochi metri da Mario. Finge distrattamente di riconoscerlo ancora. Sto al gioco, continuo a non capire.
“Ciao Mario! Che coincidenza trovarti qui anche questa mattina. Io e Gino stavamo passando di qui per caso stamattina… Te lo ricordi Gino, vero?”
Mario alza gli occhi a fatica, avendo il sole proprio di fronte.
“Certamente, uno dei più secchioni del corso, quello che forse ha capito più di tutti il senso di quelle giornate. Volete sedervi?”
Lo saluto. Lo riconosco finalmente dalla voce. Il suo aspetto è trasandato, come di chi non gli importa più nulla di niente. Ci sediamo. Eusebio cerca di farlo parlare.
“Giornata calda oggi, vero?”
“Se hai voglia di parlare con me, Eusebio, cerca un argomento meno scontato e inutile. Te ne sarei grato”.
Intervengo io: “Mario, che cosa è successo dopo il corso? Come mai non sei venuto all’incontro della Associazione Nestore?”.
“Non sono venuto semplicemente perché era inutile. Per dire che cosa? Di qualche acciacco in più, o di qualche mirabile scoperta di sé dopo la frequentazione di qualche corso di autocoscienza? O degli ultimi viaggi intorno al mondo?”.
“Ho capito. Ma che cosa ti è accaduto dopo il corso?” rincalzo.
“Tante cose, tante. Ho fatto a pugni con la vita per il mio ‘progetto’ e alla fine ho dovuto arrendermi”.
“Arrenderti?”
Si infila Eusebio: “Dai, dai, Mario, non dire così! Che ne dici se andiamo a berci un caffè? Qui fuori c’è il bar svizzero che ha degli stuzzichini veramente deliziosi…”
“No, io resto qui.”
E mentre nega l’invito, passa davanti a noi un giovane dall’aria yuppie, indaffarato con il suo smartphone e le cuffie nelle orecchie, con un passo molto deciso.
Mario lo osserva e non gli stacca gli occhi finchè non scompare dietro il cancello di uscita. Come un cacciatore che punta la sua preda.
“Mario, per caso conosci quel giovane?” gli chiedo.
“No, assolutamente.”
“Posso chiederti perché lo hai fissato così intensamente?”
“Gioco a immaginare la sua vita, che cosa sta pensando, verso dove è diretto. E mi servono molti dettagli per farlo: più sono numerosi, e più è verosimile quanto immagino. E così per tutti coloro che passano. Imparo tante cose. Conosco tante persone. Le loro gioie, i loro drammi. E’ come se partecipassi alla loro vita”.
Lo sguardo di Eusebio mi dice della sua considerazione per le parole di Mario. E non riesce a trattenersi:
“Ma Mario, che cosa stai dicendo? Se non ci parli neanche!”
Mario non risponde. E’ come se quella battuta avesse profanato qualcosa di troppo intimo, segreto, probabilmente.
“Mario, perché senti il bisogno di questa ricerca della esistenza d’altri?” Mi incuriosisce.
La risposta arriva. Passa una giovane donna, molto attraente, ma questa volta non la nota: il suo sguardo mira un punto indefinito lontano.
“Sono arrivato a un momento della vita in cui si fanno le cose un’ultima volta. Quando si fanno le cose per la prima o per l’ultima volta siamo in grado di agire pienamente e sentirle davvero. E’ il mio modo per partecipare alla vita, attaccarmi a essa per cogliere le sue vibrazioni, anche più intime. Senza disturbare, in silenzio”.
Eusebio scuote la testa: se potesse ripeterebbe: è matto, è matto!
“Mario, in America ci sei andato?”
“Si, certo, ci sono andato. Internet mi ha aiutato. Nei lunghi pomeriggi estivi dello scorso anno. Con un mouse puoi andare dove vuoi.”
Guardo Eusebio: è totalmente immerso nel suo disincantato compatimento per Mario.
“Mario, ma che cosa ti è capitato? Perché dici che sei arrivato a una svolta della tua vita dove fai le cose un’ultima volta?”
“E’ una brutta parola, impronunciabile. Ma ve lo dico lo stesso. Mi conoscete. Mi onora tanto il fatto che vi siete fermati per me. Ho la morte appresso. Potrebbe venire a trovarmi in ogni momento, anche tra poco. E così io sento il bisogno ora, come non mai, di avvinghiarmi alla vita, sentirla dentro le mie vene. Ma senza disturbare. Non sono una buona compagnia. Meglio stare in disparte.”
Il viso di Eusebio cambia espressione. Si fa serio serio. “Mario, passo di qui domani, posso? Però mi devi promettere che vieni al bar svizzero.”
Mario alza il cappello e fa un cenno di assenso con il capo.
Mi accorgo che Eusebio è in imbarazzo: ha voglia di scappare via.
“Mario, allora veniamo domani. A questa ora. Ti va bene?”
“D’accordo. E non preoccupatevi di me se troverete la panchina vuota. Magari sarò su un’altra panchina, lassù, dove voi non potete venire. E la vista è molto migliore.”
Si aggiusta il cappello e sorride.
“Arrivederci signori, arrivederci. Comunque vi aspetterò.”
Eusebio non mi da il tempo di salutare.
Mi prende per un braccio e mi porta via. E’ fatto così: sa solo scappare.
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