Lascio Lina al suo impasto di orgoglio e inganno e ritorno da Marco. E da sua moglie, che trovo sull’orlo della disperazione. Da loro il copione è sempre lo stesso. Forse peggiorato. Fra le lacrime lei mi confessa la latitanza dei loro pochi amici, solo qualche telefonata dei pochi parenti rimasti. E lui che passa le giornate davanti al televisore. Avrebbe da tornare al lavoro nel giro di un paio di settimane, ma lui non vuole. Non ci vuole più tornare.
Le dico: lui si è perso. Dobbiamo aiutarlo a ritrovarsi. Serve un supporto psicologico. Rapidamente. Le indico un paio di associazioni che a Milano lavorano su questo genere di problemi, e che avevo incontrato attraverso il corso di Nestore. Le dico che ne ha bisogno lui quanto lei: sta soffocando. O riesce a prendere le distanze, o non sarà di aiuto né a lei nè a lui. Annuisce. “Sì, Gino, senz’altro è così. Mi sento impotente in questo momento, non so cosa fare. Mi spiazza continuamente: ora rancoroso, ora infantile. Non me lo aspettavo da lui. Non mi parla, si assopisce spesso. Mi sento sola Gino, sola con questo enorme problema”.
La rassicuro che le due associazioni possono molto. Le consiglio anche di parlarne con i medici. Forse serve un trattamento farmacologico anche per questo. Torno da lui: “Marco, come posso aiutarti? Che cosa posso fare?”
Il suo sguardo incontra il mio: è vuoto e indecifrabile. “La malattia è mia, che aiuto puoi darmi?”
“Dimmi dei tuoi pensieri”.
Esce dal suo mutismo. Positivo. Parla a tratti, mischia rabbia a dolore. Lo interrompo: “Marco, c’è una cosa che vorresti fare ora, e che potrebbe alleviarti?”
Mi guarda con stupore, eufemisticamente. “Dillo tu”, mi risponde.
“Certo! Sai che cosa vorrei ora? Gustare con te una di quelle brioche colme di crema pasticcera, con il velo di zucchero vanigliato sopra, rare a trovarsi, e un fumante cappuccino, con il cacao sulla schiuma”.
“Ma stai scherzando? Ma mi prendi in giro? Secondo te io adesso mi metto a pensare a questo?” La collera monta fra vocali e consonanti.
“Magari non ti piacciono le brioche. Che cosa ti piace? E perché non puoi pensarci? Stare in adorazione del tuo dolore che vantaggio ti dà?”
Cerco di essere più assertivo. Voglio che stacchi la sua attenzione dal suo dolore. Non credo capisca, è troppo immerso nel suo male. Non so se sia giusto, opportuno ricalcare la sua rabbia.
Sua moglie è lì, davanti a noi due, con il suo sguardo sembra solidarizzare con il mio tentativo.
“Gino, che domande mi fai? Che cosa vorrei adesso? E me lo chiedi anche? Guarda, guarda le mie gambe!”
“Marco, puoi fare qualcosa su questo? Sì o no?”
Interviene la moglie, il tono è molto aspro, quasi di rabbia: “Non ti rendi conto che se vai avanti così distruggi te stesso e anche me? A questo non ci pensi, vero? La tua vita non è finita, accidenti! Ti hanno detto forse che hai chiuso con il lavoro? Questo non è il Marco che io conosco, con il quale ho condiviso la mia vita fino ad ora”. E chiude con un lungo sospiro. Cammina verso la finestra, sistema le tende, poi si volta verso di me ed il marito e con un tono di voce completamente diverso: “Adesso ho voglia di una tazzina di caffè. La vuoi anche tu? La vuole anche lei, Gino?”
Marco zittisce dopo il fievole sì.
Hai bisogno di un aiuto, gli dico. Conosco un paio di associazioni che possono darti una mano, per uscire da qui. E tua moglie prenderà contatto con loro. Se riesci, cerca di essere fiducioso.
Marco con fatica si alza dalla poltrona e compie qualche passo lungo la diagonale della stanza. Torna indietro e scosta le tende come erano prima. Fuori non è certamente una giornata primaverile, ma uggiosa e coperta. Ripercorre la diagonale, il passo è meno incerto. Ritorna alla poltrona, mi guarda e mi dice: “quando pensi che verranno?” “3-4 giorni, penso”. “Bene”, mi risponde. Arriva il caffè: la moglie vede Marco in piedi. Di nascosto mi sorride.
Quando vado via, accenna un abbraccio e mi sussurra “Grazie Gino”. Esco commosso. Forse è fatta.
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