Per due settimane Lina non si è fatta trovare. Forse è Osvaldo a tenerla impegnata. Oggi sono a casa per riparare un rubinetto ormai logoro e qualcuno suona alla porta.
Era lei, si, proprio lei. Lina. Vestita di rosso. E fresca di parrucchiere. E con una pacchetto che lasciava intuire la presenza di una torta. Credo che solo nella mia infanzia mi sia capitato di restare imbambolato come in quel momento. “Posso?” Esordisce lei. Mi sveglio: “Osvaldo lo hai lasciato legato giù all’ingresso? Potresti portarlo su, una ciotola per lui c’è”. Assolutamente caustico. Lei ha una smorfia, non ha gradito. Ma non mi interessa. “Sei in partenza? Così elegante… a Parigi è molto trend di questi tempi il rosso?”
E’ ancora sulla porta. Se mi lasci qui vado via, dice seccata. Vieni, vieni, ho ancora 10 minuti e poi ho da uscire…. Ed entra trascinando con sé una folata di profumo alla cannella. Quasi da intossicare.
“A cosa devo la tua visita? Oggi non è il mio compleanno, nè il tuo se non ricordo male. Onomastici, anniversari… no, non mi viene in mente niente… o sei qui per l’estremo saluto?”
Non parla. Metto giù cacciavite e chiave inglese e mi siedo. “Accomodati. In che cosa posso esserti utile? Se hai bisogno ho una vecchia guida di Parigi del Touring Club, magari…”
Non parla. Apre il pacchetto sul tavolo e appare una torta al cioccolato. Una sacher. Si, la mia preferita.
Ricapitolando: visita improvvisa, vestita di rosso, la torta preferita, nessun capello fuori posto… o ha litigato con Osvaldo o si è pentita per come mi ha trattato. Per un ultimo saluto non ci si acconcia così. E Osvaldo non è giù che aspetta in auto. Vado diritto: “Perché questa torta? Per caso viene dalla pasticceria Canossa?”
Non parla. Si alza, prende due piattini, due forchette, un coltello e finalmente parla: “Prepari tu un buon tè?”
La incalzo: “Lina, perché quella torta, e perché sei qui?”
“Gino, ho da parlarti”.
“Per il tè serve allora la caraffa?”
Ero insieme contento e infastidito della sua presenza. Nel silenzio, mentre preparo il tè, lei sistema con cura le fette di torta sul tavolo: con quella geometrica precisione che solo lei ha. E aggiunge le tazze del tè. Precisione millimetrica. Non la sopporto.
Mentre si muove il profumo di cannella non perdona: non riesco a stare zitto.
“Ti prego, le dico, siediti: appena ti muovi mi fai venire voglia di panna montata”.
Il te è pronto. Se ne accorge e si preoccupa di portare tutto sul tavolo. Casa mia per lei non ha segreti.
Finalmente rompe il silenzio: “Gino, lo sai perché sono qui?”
“Non lo so, ma credo sia il momento di porre le domande in borsetta e di passare a qualche affermazione. Me la devi. Niente giochetti”.
E intanto guardo la torta, magnifica, soffice, di un marrone turgido. Fresca. Non vedo l’ora di affondare la forchetta. Ma fingo indifferenza.
“Che cosa stavi facendo con cacciavite e quel coso lì?”
Mi verso del tè. E faccio lo stesso per lei. Con finto distacco sollevo la forchetta e l’affondo nella fetta. La torta è talmente fresca che subito obbediente si divide al procedere della posata. Con studiato rallenty il boccone arriva a contatto con le papille gustative. Sublime. Non ha speso poco. Comincio a immaginare questa volta che cosa Lina ha in mente.
Il gioco dei silenzi è reciprocamente tattico. Faccio una sortita.
“Mentre tu arrivavi stavo riparando il rubinetto del lavabo. E’ un vecchio rubinetto che non fanno più, di quella foggia è praticamente impossibile trovarlo uno nuovo. Ha bisogno di manutenzione assidua”.
“E perché non lo cambi?”
Già. Sembra così logico. E’ rotto, non funziona, si cambia. Invece quel rubinetto non è rotto. E’ solo un modello che consuma velocemente le guarnizioni. Basta cambiarle e tutto funziona. Poi, se lo tratti con una certa delicatezza e attenzione, le guarnizioni si consumano più lentamente. Non sempre ciò che non funziona va subito sostituito. Magari non è vero che non funziona. Semplicemente funziona in modo differente da come noi ci aspettiamo.
E offro un secondo boccone alle papille gustative. Ovviamente lei ha già il piattino vuoto. Non chiamatemi goloso.
“Lina, perché tutta questa messa in scena? Il vestito, la pettinatura, la torta, i silenzi…. Che cosa hai da dirmi?”
Non è vera la mail di Osvaldo.
“E tu non lo hai mai ritrovato… è così? Non ho da subito creduto al giochino. L’orgoglio non sempre ispira i passi giusti.”
Punto di vantaggio. Vado al terzo boccone. Perché lo hai fatto?
“Volevo ingelosirti, smuoverti un po’…”
“Già, forzarmi a cedere sul matrimonio e la convivenza…”
La torta mi addolcisce, non riesco nell’affondo. In questo punto a suo favore. Conosce il mio punto debole.
“Ho provato amarezza per quel che hai fatto, bastava parlarne. Non c’era bisogno di tutto questo”.
“Sai Lina, una cosa? Passiamo la vita a correre, ad anticipare, a fare in fretta, a precorrere. E questo ci obbliga a pensare meno, ad affidarci ad un ‘pilota automatico’ che ci porta alle decisioni ‘prima che’. E invece credo nella gradualità. Nel saper aspettare. Il tempo. L’ascolto richiede tempo, sentire no. Pensare richiede tempo, reagire no. E dare tempo è rispetto e attenzione per il tempo altrui. Io non ti ho mai detto di no. Per te che cosa è importante? Io o trovare marito? Purtroppo per te in questo momento sono alternative, non coincidenti”.
“Gino, io sto molto bene con te”.
E mentre queste parole scorrono in formato gigante sullo schermo del mio narciso, mi accorgo di avere i piedi umidi.
“Gino, c’è acqua sul pavimento!”
Mi ero dimenticato! Scatto da centrometrista verso il bagno. Il lavabo con il rubinetto smontato era una lieta, piccola fontanella, il bagno una piccola fontana di Trevi, tre dita di acqua sul pavimento.
Fino all’una ad asciugare tutto. Per fortuna era lì anche lei. Insieme al pavimento, abbiamo lavato via ogni traccia del passato recente. E si ricomincia. E’ rimasta da me, ho dormito sul vecchio divano. Finalmente un buon motivo per andare all’Ikea: la mia schiena mi ha inequivocabilmente detto che è da cambiare.
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