Stamattina non ho voglia di alzarmi. Guardo la sveglia quieta, dopo averla zittita nel suo urlo quotidiano. Il cuscino, più informe del solito, ha sopportato un lavorio notturno che da tanto non ricordava. Si, sono giorni complicati. E non ho dormito. Lina, senza ascolto, vuole trascinarmi in una scelta che non mi fa star bene e che non riesco a ragionare con lei. Ma non è per questo che ho litigato con Morfeo.
Accade ieri che un ex collega, Marco, dirimpettaio di scrivania per 20 anni, rompe il silenzio dopo quasi un anno dalla mia andata in pensione e mi confida il suo turbamento perché gli hanno diagnosticato il Parkinson. Una telefonata livida, piena di rancore verso la vita da parte di una persona che con la vita ha sempre convissuto pacificamente. Il suo rancore esistenziale è rimbalzato sulle mie paure: sento improvvisamente la fragilità del mio esistere, una voglia di ripiegamento su di me, di circondarmi di silenzio. Una tentazione forte, molto forte. Per scappare da che cosa poi? Non riesco a liberarmi del pensiero di un improvviso cambio di programma esistenziale, di una decurtazione lenta o repentina di tutto ciò che considero scontato, acquisito. Lasciare il conforto delle abitudini: l’inquietudine mi assale. La paura di rinunce drastiche. Mi dico: la vita è dono. Ogni istante racchiude in sé un seme di gioia. Ma puoi sempre raccoglierlo?
Voglio incontrare il mio ex collega. Lascio sul cuscino le mie inquietudini e prendo il telefono. Credo che un dolore condiviso sia un dolore più lieve. Lo chiamo: la voce è dura. Al mio “posso venire a trovarti uno di questi giorni” tenta qualche resistenza, come se nelle mie parole ravvisasse compatimento. Se preferisci, provo a tranquillizzarlo, e hai piacere di rivedermi, chiamami tu. La pensione sbiadisce i rapporti di sempre e questo mi dispiace molto. Rivederti sarebbe per me una occasione per riprendere qualcosa che non vorrei perdere. Cede: puoi anche domani se vuoi. Benissimo! rispondo.
L’indomani incontro una moglie distrutta: occhi gonfi privi di riposo e di lacrime. Ha avuto un tracollo completo, mi dice, si è lasciato completamente andare. Con me alterna momenti in cui è come un bambino ad altri in cui mi riversa addosso tutta la sua rabbia. Non so cosa fare. Improvvisamente mi ritrovo con un’altra persona. Un macigno per tutti e due.
Procedo. C’è tanta confusione in giro per la casa. Lui è in poltrona, il televisore acceso su un canale senz’altro a caso, il volume appena percettibile. Le sue gambe tremano, convulse. Mi accoglie con un filo di voce. Mi siedo accanto a lui. Cerco di incrociare il suo sguardo. Dietro di lui la moglie gli accarezza la testa, le trema la mano. Passa un lungo silenzio: lo guardo. Sono distrutto Gino, la mia vita ora è cambiata. Ho un nuovo compagno di viaggio con cui devo convivere, che lo voglia o no. E sarà sempre peggio da ora in poi. Piange. La moglie gli stringe la mano.
Provo: “Marco, che cosa sta cambiando nella tua vita? Prova a dirmelo, a dirtelo. C’è più dolore. Prova a guardarlo questo dolore. Che cosa ti dice? E poi che cosa è cambiato, che cosa cambierà?”
“Ma Gino, che cosa stai dicendo? Dimmi: non potrai più gioire per una tenerezza, non potrai più provare stupore per ciò che ti circonda? Non potrai più dire “ti voglio bene” a tua moglie? Sono questi i cambiamenti?”
“Gino, tu non puoi capire che cosa ho dentro”.
“Bene”, gli rispondo, “è l’occasione per tirare fuori. Son qui per te, non ti lascio, ti ascolto. Aiutami a capire”.
Ancora qualche lacrima. Guarda la moglie. “Gino, come sarà la sua vita, la nostra vita ora?”
Appunto Marco, gli rispondo, come sarà?
“Non potrò più…tante cose…”
Incalzo..”che cosa? Quali impedimenti? Prova a non ascoltare esclusivamente la tua paura. Ci riesci?”
“La fai troppo semplice Gino, troppo semplice, non sai che cosa ho dentro…”
“E il lavoro?” Risponde la moglie: “ha due settimane a casa, giusto per consentire alle cure di dare i primi effetti. Poi potrebbe tornare. E’ così, vero, Marco?”
Non risponde. Alza gli occhi, persi.
Come può una persona cedere così, totalmente, di fronte a un male che ha una sua cronicità crescente, ma non lo ha inchiodato alla dipendenza assoluta? Almeno per ora. E’ come se avesse lobotomizzato il suo libero arbitrio. Chiuso con la realtà, e con se stesso. Si fosse reso completamente schiavo della sua malattia.
Quel che conta ora è comunque come lui si sente. Che cosa si può fare proprio non lo so.
“Va bene. Marco, se vuoi ne riparliamo. Torno dopodomani se ti fa piacere”.
“D’accordo, facciamo così. A dopodomani, nel pomeriggio. Ciao Gino”. E prende in mano il telecomando: la conversazione è chiusa. Lascio quella casa con gli occhi pieni di dignità e di sconforto della moglie.
Forse quel che gli ho detto non era per lui, ma per me. Forse non era il momento per quelle parole, era troppo ancora “bollente” il verdetto medico. Ma con quel “lasciarsi andare” stava facendo un gran male a sé e alla moglie.
Tornando a casa mi tornavano a galla le inquietudini del giorno prima (per capirci “e se accadesse a me?”). Penso a quanto non ho voluto bene al mio corpo, considerandolo solo un “contenitore”, su cui basta fare un po’ di manutenzione ogni tanto, come si fa con la propria auto. Credo che il corpo sia centrale nell’invecchiamento. Possiamo offenderci quando ci dicono che siamo anziani, detestiamo quella parola, ma il corpo ci riporta oltre ogni bugia o sensazione. Il corpo non mente. E credo che questo “giovanilismo” un po’ infantile sia una mancanza di rispetto verso il proprio corpo. Che non è solo “contenitore”, ma è il tramite con il mondo, quello che detta, lo si voglia o no, le nostre possibilità. Il corpo è complice del nostro invecchiare. Credo che invecchiare voglia dire “coccolare” il proprio corpo, “sentire” con più profondità e disponibilità questa parte di noi, che forse in palestra in realtà “martoriamo” con la scusa della “efficienza della macchina”: non è il modo migliore per dargli attenzione. “Anima e corpo” che normalmente consideriamo interagenti (non si sa come) ma comunque distinti, in realtà sono tutt’uno. Se facessimo tanta palestra per la nostra affettività, per i nostri malesseri, quanta ne facciamo per il nostro corpo….Il mio corpo è la risorsa prima per le mie possibilità. E più lo conosco, più lo rispetto, più dialogo con lui nel cogliere e soddisfare i messaggi che mi manda, più sto bene. Poi vengono i proclami (che sciocchezza!) sul “mi sento ancora attivo, anziano sarai tu”.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.