Lina continua a preoccuparmi. I suoi colpi di tosse persistono. Ci sono giorni in cui sono lievi, altri in cui sembra di sentir vibrare pure il pavimento. Più volte ha promesso di andare dal medico, anche dopo lo spavento preso per le mie condizioni. Ma alla fine non lo ha mai fatto.
Provo a parlarne con lei. Sembra di dover scavalcare un muro intriso di vaselina. Le manifesto la mia preoccupazione. Ma nulla. Non basta.
“Ma sì, che cosa vuoi che sia, è un po’ di tosse. Sarà il tempo, l’umidità. Ogni tanto faccio dei suffumigi e va meglio. E’ che non ho voglia di farli sempre”.
Almeno ne parlasse con un medico. E invece no. Ogni tanto usa un prodotto sciolto in una bacinella calda e ne respira i vapori. Il prodotto è pure scaduto: “ma tanto va sempre bene, mi toglie un po’ di tosse”. Scopro che sul mercato non è più disponibile. Non posso neanche sostituirlo di nascosto.
Forse ha paura, forse è proprio un po’ di incoscienza.
Giocare con la salute non vale la pena. Anche perché il fisico ha fatto i conti con gli anni, l’usura c’è. Non ci sono più tutte le risorse di un tempo. Giocare a fingere ha come esito solo noi come vittima. Solo quello.
Non si fa prevenzione solo “mangiando bio” o inanellando i quotidiani diecimila passi. Ma soprattutto ascoltando il proprio corpo.
Lina sembra non capire: “Ma dai Gino, se per ogni dolorino devo scappare dal dottore è finita. Ma che vita diventa? E’ come sentirsi dei malati permanenti. E’ tirarsi dentro l’invecchiamento anzitempo”.
Questa idea della vecchiaia come malattia è dura a morire. E’ un processo naturale, che non può che essere assecondato, ma seguito, curato.
E anche di fronte al pregiudizio più radicato, ci pensa poi la realtà a rimodellare le nostre convinzioni. E lo fa sempre in modo (ma in definitiva siamo noi a volerlo) duro e diretto.
Una mattina Lina mi chiama molto spaventata, ha trovato tracce di sangue nel fazzoletto dopo un colpo di tosse. Forte. Vado da lei in fretta e furia. E’ bianca in volto, quasi tremante. L’episodio si è ripetuto, e non erano solo tracce.
“Andiamo subito al pronto soccorso”. L’aiuto a vestirsi. Questa volta proprio trema. “Gino che cosa mi sta succedendo? Dimmi qualcosa!”.
“Non so Lina, non sono un medico”
Prendiamo un taxi. Facciamo prima. La porto in Via S. Vittore.
La prendono in codice giallo.
Passa un’ora e sparisce dietro la grande porta che separa dall’androne di accoglienza. Sono preoccupato, molto preoccupato. Dovrò prendere un surplus di gocce per la mia pompetta. Lo spavento scavalca la preoccupazione.
Passa un’ora, lunga, lunghissima e lei riappare, con dei fogli in mano, accompagnata da una infermiera.
“Mi devono ricoverare per fare degli esami. Domani senz’altro mi dimettono”.
“Lei è il marito?”
“Il suo compagno.”
“Dobbiamo fare degli accertamenti e in fretta. Ha bisogno di restare qui”.
“Posso accompagnarla?”
“Aspetti qui. La chiamo io quando può salire”.
Il tempo di uno scambio di sguardi che non dimenticherò mai e Lina scompare di nuovo dietro la grande porta. Lo sento. Ci aspetta l’ultima parte del nostro sentiero.
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