Sean Baker, uno dei registi emergenti più interessanti nell’attuale panorama cinematografico americano, in un’intervista ha dichiarato che Robert Altman e Hal Ashsby sono i due autori che l’hanno maggiormente influenzato sia sul piano stilistico sia su quello ideologico. Due autori marginali per l’industria cinematografica più importante del mondo, ma evidentemente di rilievo per chi, tra le nuove generazioni, realizza film che non siano solo di puro intrattenimento. Per altro verso anche Paul Thomas Anderson, regista decisamente più noto (e di successo) di Baker, non ha mai nascosto la sua ammirazione per Altman che traspare, per esempio, in Magnolia (id., 1999), riconducibile ad America oggi (Short Cuts, 1993), e nel Petroliere (There Will Be Blood, 2007) che qualche critico ha paragonato a Quintet (id., 1979).
Nato nel 1925, Robert Altman è stato un autore prolifico, con 36 film realizzati in mezzo secolo di carriera, ma molto eterogenei tra loro sia per forma, sia per genere, sia anche per esito al botteghino. Sempre alla ricerca di produttori indipendenti, sempre sotto ricatto nelle realizzazioni più costose, sempre in bilico tra orgoglio e rassegnazione. Oltre ai 36 film, Altman ha lavorato per un grande numero di serie Tv e altri programmi per il piccolo schermo ed è stato inoltre un prolifico sceneggiatore. Ha praticato tutti i generi cinematografici alternando capolavori a opere decisamente mediocri, frutto di inevitabili compromessi con il sistema produttivo, ovvero film a basso costo, produzioni indipendenti, girando spesso all’estero per mancanza di fiducia (e fondi) da parte delle major di Hollywood.
Dissacrante, provocatorio, sempre fuori linea rispetto alle tendenze correnti, esordisce a metà dei ‘50, ma è nel 1970, con M.A.S.H. (id.) che raggiunge la notorietà internazionale e il successo. Film corale, come accadrà spesso, irride alla guerra e ai suoi miti, prendendo spunto da quella in Corea del 1950-53, ma pensando a quella in corso in Vietnam nel momento in cui l’opinione pubblica americana comincia a maturare dubbi sul conflitto e a contestarne la prosecuzione. Cinque anni dopo si ripete con Nashville (id., 1975) in cui attraverso la musica rock e country disegna un impietoso ritratto dell’America e delle sue contraddizioni. Di mezzo (e in seguito) opere minori con qualche eccezione come Images (id., 1972), immersione nei meandri della psiche girato in chiave antinaturalistica, Tre donne (Three Women, 1977) e, appunto, Quintet. I numerosi flop al botteghino frenano per un po’ l’attività del regista che negli anni ’90 torna con altri titoli di grande interesse come I protagonisti (The Player, 1992), America oggi e Prêt-à-porter (id., 1994) in cui unisce drammi e commedia, fiction e documentarismo, umorismo, satira e denuncia in uno stile personalissimo e dal montaggio spiazzante. Muore nel 2006, a 81 anni, pochi mesi dopo aver ricevuto l’Oscar onorario per la carriera.
Quintet si colloca in un futuro forse remoto, forse postbellico, con la Terra attanagliata in una morsa di ghiaccio perenne in cui pochi esseri umani sopravvivono a stento e dove i cadaveri non vengono neppure sepolti, ma abbandonati sulla neve per essere dilaniati da mute di cani randagi. Pochi e isolati gli insediamenti abitativi in uno dei quali arriva un cacciatore di foche in cerca di qualche membro superstite della sua famiglia. Tra le mura di queste precarie abitazioni l’unica occupazione che sembra destare l’interesse dei residenti è un gioco chiamato Quintet che si gioca su tavole pentagonali. Lo scopo è eliminare uno a uno i giocatori fino a che resta il solo vincitore. Stranamente però, alle “uccisioni” sul tavolo da gioco corrispondono veri omicidi dei partecipanti al torneo al quale si unisce ben presto il cacciatore, in cerca della verità…
Altman aveva già praticato il genere fantascientifico una decina d’anni prima, nel 1968, con Conto alla rovescia (Countdown) sorta di contraltare del contemporaneo 2001 Odissea nello spazio di Kubrick. Tanto magniloquente, visionario, colossale (e di successo) quest’ultimo, quanto minimale, intimistico e poco gettonato al botteghino l’altro. Poverissimo di mezzi, ma ricchissimo di idee. Tornando sul tema dell’utopia futuristica, Altman concepisce una pessimistica e cupa metafora della vita in un momento, gli anni ‘70 appunto, caratterizzato da una grande incertezza sul futuro, dall’affacciarsi di problematiche di difficile definizione e soluzione come i cambiamenti climatici e i mutamenti sociali. In maniera forse un po’ criptica, ma formalmente ineccepibile, compone una storia di violenza sottratta alla legge come nel mondo precivile compendiato dalla massima: Homo homini lupus (ogni uomo è un lupo per gli altri uomini). Il tutto sotto l’ossessiva immagine di un pentagono che rappresenta il tavolo da gioco e le sue regole inumane, ma, come è ben noto, rievoca il potente apparato bellico della superpotenza nucleare statunitense. Lo stesso si può dire per quella sorta di galleria fotografica che caratterizza le pareti di alcuni ambienti che mostra immagini riferibili ai temi più dibattuti e controversi della società americana degli anni ‘70: il Vietnam, appunto, ma anche la questione razziale e le rivolte giovanili.
Sul piano formale il film è caratterizzato da immagini spesso “sporcate” da una sorta di alone che circonda l’obiettivo della macchina da presa come appunto può avvenire in condizioni climatiche avverse, ma anche da numerose trasparenze, riflessi, opalescenze dovute all’illuminazione espressionistica, alla presenza di specchi o altre superfici rifrangenti o allo stesso nitore della neve. Di rilievo anche i costumi e la musica, di timbro vagamente dodecafonico con prevalenza di legni, percussioni e fiati dovuta al compositore Tom Pierson cui si devono anche le colonne sonore di Manhattan (id., Woody Allen 1979) e altri importanti film. Il cast è composto da attori provenienti da Italia, Francia, Spagna, Inghilterra, Svezia, Danimarca, Repubblica Ceca, Canada e altri paesi. Forse un fatto del tutto contingente o forse un’ulteriore metafora della società del futuro secondo Altman.
Flop al botteghino e, con qualche rara eccezione, stroncato anche dalla critica.
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