Senza alcun dubbio l’insieme dell’opera del regista americano George Orson Welles (1915-1985) rappresenta un caposaldo della storia del cinema. Welles arriva a Hollywood dopo che, il 30 ottobre 1938, la sua drammatizzazione radiofonica della Guerra dei mondi di H.G. Welles, viene scambiata dal pubblico per la cronaca in diretta di uno sbarco di alieni scatenando forme di isteria collettiva. A soli 23 anni, dunque, è scritturato dalla Rko che gli concede carta bianca per la realizzazione di tre film. Per l’autore il cinema rappresenta il compendio di tutte le sue “passioni” precedentemente praticate e sperimentate: teatro, magia, circo, radio, pittura, letteratura…
Il primo progetto portato a termine è Quarto potere (Citizen Kane, 1940), opera rivoluzionaria sul piano estetico e formale. Il film non ha però grande successo anche per la campagna avversa scatenata sui suoi giornali dal magnate William R. Hearst che si vede rappresentato nel protagonista. Il secondo è L’orgoglio degli Amberson (The Magnificient Amberson, 1941), saga familiare ambientata nell’America in via di industrializzazione nonché grande affresco di un’epoca. Welles gira ma non completa il film perché allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale il governo gli affida l’incarico di realizzare un documentario in Messico e Brasile per rafforzare l’amicizia tra Usa e America Latina. È It’s all true (id., 1942) che non viene portato a termine per mancanza di fondi. Nel frattempo L’orgoglio degli Amberson viene montato e distribuito dai produttori con pesanti tagli e il finale cambiato. Anche così (o forse proprio per questo?) il film è un flop al botteghino. Welles entra perciò nel novero degli unbankable, ossia degli autori non affidabili dal punto di vista commerciale. Una condanna a morte artistica nella capitale del cinema. Tuttavia nel 1945 riesce a realizzare Lo straniero (The Stranger) e, l’anno successivo, grazie alla presenza sul set della diva Rita Hayworth, all’epoca sua moglie, La signora di Shanghai (The Lady from Shanghai), altro memorabile titolo innovativo. «Il film costò una fortuna, perse una fortuna e pose fine alla carriera di Welles in tutte le maggiori case di produzione» commentò anni dopo Peter Bogdanovic nella sua biografia del regista. Ultima tappa della discesa agli inferi hollywoodiani è Macbeth (id., 1948), il primo dei grandi film shakespeariani, girato quasi per scommessa in pochi giorni e con un budget ridottissimo.
«Ho passato la maggior parte della mia vita a tentare di fare film» dirà in seguito il regista. E infatti da questo momento per Welles comincia la trentennale ricerca in giro per il mondo di produttori indipendenti o forme di autofinanziamento con i proventi delle partecipazioni come attore in film di genere (peplum, cappa e spada, guerra) e serie televisive sovente di basso livello. È così che nascono i capolavori della maturità: Othello (id., 1952), girato tra Italia e Marocco e costellato di difficoltà produttive, Rapporto confidenziale (Mr Arkadin, 1955), girato in Spagna, Il processo (The Trial, 1962) da Franz Kafka, girato a Parigi, Falstaff (id., 1965), Storia immortale (The Immortal Story, 1968) frammezzati, nel 1958, dall’ultimo, folgorante, ritorno a Hollywood con L’infernale Quinlan (Tuch of Evil), altro capolavoro che sconvolge il linguaggio cinematografico e apre le porte alle avanguardie degli anni ‘60, a cominciare dalla Nouvelle Vague. Decine i progetti non realizzati. Un film dal Don Chisciotte di Cervantes lo occupa a varie riprese dal 1957 al 1972, e poi Il piccolo principe da Saint-Exupéry, Re Lear, adattamenti da opere di autori anglosassoni e soggetti originali come The other side of the wind per il quale Welles era riuscito a girare centinaia di rulli rimasti però inutilizzati. Dopo annosissime controversie legali, il materiale superstite è stato “ricomposto”, con un certo margine di arbitrarietà, e distribuito nel 2018.
Opera sicuramente minore, ma non priva di interesse, F come falso (F for Fakes, 1973) è anche l’ultimo film portato a termine dal regista. Si tratta di un docu-fiction sul mondo dell’arte e dei falsari imperniato sulla figura di Elmyr de Hory e del suo biografo Clifford Irving, autore a sua volta di una falsa biografia del magnate e aviatore Howard Hughes. Nel film sono anche inseriti numerosi spezzoni di altre pellicole in una sorta di collage sempre in bilico tra documentario e finzione scenica. La vicende degli eccentrici personaggi, interpreti di loro stessi, sono unite a riprese di autori come Picasso, dello stesso Welles e della sua ultima compagna Oja Kodar in un curioso apologo sulla verità e sulla finzione presenti in ogni opera d’arte. Dalla pittura, alla letteratura allo stesso cinema, considerato da Welles la massima forma di riproduzione del reale e, al contempo, la massima forma di mistificazione del reale. Tema, quello della manipolazione delle coscienze attraverso la distorsione della verità, presente in tutti i maggiori film di Welles attraverso personaggi di fantasia come Charles Foster Kane, Gregory Arkadin, Franz Kindler, Hank Quinlan o personaggi letterari come Otello e Joseph K.
Nel film, parlando della cattedrale di Chartres e dei suoi anonimi artefici medievali, Welles definisce in maniera mirabile l’essenza stessa dell’arte e dell’artista: “L’arte è una menzogna che ci fa capire la verità. Un inno alla gloria di Dio e alla dignità dell’uomo. Forse sarà proprio questa foresta di marmi, questa armonia di forme, questo maestoso, corale canto di pietra che ci salverà quando noi saremo polvere. Pregheremo perché resti come segno del nostro passaggio, ma a testimoniare quanto vi è ancora da compiere. Eppure ogni cosa viene annullata e si cancella nell’ineluttabile cenere del mondo. Trionfi e inganni. Tesori e false ricchezze. È la realtà della vita: tutti dobbiamo morire. Ma siate contenti: dal passato ci vengono le grida degli artefici. Tutte le nostre canzoni verranno messe a tacere, ma cosa importa. Continuiamo a levare i nostri canti”.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.