Il doppiaggio dei film: analisi di un fenomeno tutto italiano e i modi per uscire da una pratica illogica e fuorviante
Anche quest’anno i film scelti per il corso di Storia del Cinema Humaniter dal titolo L’altra faccia dell’America, vengono proposti in lingua originale con i sottotitoli. L’articolo che segue spiega i motivi di tale scelta e, più in generale, analizza le origini storiche e l’evoluzione del doppiaggio nel nostro Paese.
1 – Doccia con l’impermeabile
Tra gli spettatori cinematografici italiani, anche appassionati al cinema di qualità, è opinione diffusa che i nostri doppiatori siano i migliori al mondo e che vedere un film doppiato non differisca dal vederlo in originale con i sottotitoli. Persino gente con una certa cultura, che frequenta le sale senza scorte di coca-cola e pop corn, è convinta che sia preferibile sentir recitare George Clooney con la voce di Francesco Pannofino piuttosto che con quella di… George Clooney. Un mantra che perdura nel tempo, un passaparola forse inconscio per autoconvincerci che questo sia il modo migliore e più corretto per fruire il cinema. Tutto il cinema: da quello commerciale a quello d’autore. Cosa più vicina ai misteri della fede che a un approccio razionale. Un paragone per capirci: prendiamo un cultore della pittura, persona dotta e sensibile che non si perde una mostra, visita musei, pinacoteche e gallerie. Cosa direbbe questa stessa persona se all’ingresso, con il biglietto, la guida (o chi per lui) gli desse un paio di occhiali da sole e gli intimasse: «Lei non può entrare senza indossarli. E guai se li toglie durante la visita». Come minimo chiamerebbe il 118 per un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) cui sottoporre il matto che gli ha fatto una proposta tanto assurda. Ecco: vedere un film doppiato è come guardare un quadro con gli occhiali da sole. È come entrare da Bulgari e trovare solo strass. Rubiamo una battuta a Paterson(2016) di Jarmush: «È come farsi la doccia con l’impermeabile». Eppure al cinema nessuno si lamenta.
2 – Esperienza personale
Anch’io, come tutti, ero convinto del mantra. Poi, dagli anni ’80, frequentando i festival dove i film sono proiettati in originale con i sottotitoli, ho cominciato a capire quanto fosse distorcente il doppiaggio. Rivedendo doppiati film visti, poniamo, alla Mostra di Venezia, sobbalzavo sulla sedia. Non solo per l’arbitrarietà della traduzione, ma anche per le inflessioni, i toni, le sfumature del parlato originaleche erano andati perduti al posto dei quali c’erano molto spesso biascicamenti maldestri o un insopportabile birignao. E non c’era rimedio: una volta entrati nella distribuzione, tutti ifilmvenivano inesorabilmente doppiati e non c’era modo di vederli altrimenti. Anche il passaggio dal grande schermo all’home video avveniva su vhs (nastro magnetico) dalla copia doppiata. Unica alternativa: acquistare cassette all’estero. Andandoci (all’estero), perché eBay, Amazon & Co. erano di là da venire. Nella mia videoteca conservo ancora la cassetta dei Sette samurai(1954) di Kurosawa in edizione integrale (207 minuti) in giapponese con i sottotitoli in inglese. Edita a Londra da Electric Video. Magnifico, comprensibilissimo anche con il mio basic English. In italia, allora, circolavano solo i Tre samurai e mezzoossia la versione di 130 minuti, naturalmente doppiata. Oggi per fortuna con i dvdtutto questo è superato, ma per quanto riguarda la fruizione in sala le cose sono addirittura peggiorate. Motivo? L’impermeabilità del sistema e la lobby dei doppiatori, diventata potentissima. Persino piccoli distributori come Satine Filmche pescano in cinematografia terze – Bulgaria, Etiopia, Yemen, Singapore… – distribuiscono copie doppiate, con la scusa che altrimenti non avrebbero mercato. Solo qualche raro caso (esempio Lab 80, legata a Bergamo Film Meeting) distribuisce in lingua originale con i sottotitoli, ma non nei circuiti commerciali oppure attraverso piattaforme web come www.movieday.it. Ma di questo parleremo più avanti.
3 – Sindrome di Stoccolma
Lobby tanto potente, quella dei doppiatori italiani, che si è arrivati – pazzesco, ma è così – ai festival e ai premi per il doppiaggio, tipo Voci nell’ombrae Leggio d’oro. Con giornalisti e critici cinematografici che li promuovono e li incentivano, anziché boicottarli come sarebbe logico da parte di addetti ai lavori. E che accettano di sedere in giuria per assegnare questi premi farlocchi. Come se a una mostra d’arte premiassero un pittore per la miglior copia o, addirittura, per il miglior falso. Stesso discorso per gli uffici stampa e le anteprime dei film riservate ai giornalisti. In caso di film doppiati andrebbero semplicemente disertate. Purtroppo però, come visto, la categoria non è esente da pecche e connivenze. Naturalmente il web non poteva mancare. Il sito www.antoniogenna.netè dedicato al doppiaggio, ma in questo caso il peccato è veniale perché è puramente informativo. Diciamo che somiglia un po’ alla lista dei ricercati appesa negli uffici della Mobile, in Questura. Poi ci sono i social e persino i fan sitedi qualche anima candidache s’imbroda con il/la suo/a doppiatore/trice preferito. Chiari esempi di Sindrome di Stoccolma. Nervo scoperto, il doppiaggio. In quanto non è per decreto di Jahweh o per volere del Fato che si è arrivati a questo punto, ma per precise scelte politiche e culturali, a volte recenti a volte molto remote. Scelte che hanno differenziato il nostro paese da quasi tutto il resto del mondo. Anche se pochi lo sanno. Vediamo allora un po’ di storia. Forse ci aiuta a capire di cosa stiamo parlando. E a prendere le contromisure del caso.
4 – Dal muto al sonoro
Fino al 1929 il cinema è muto, dunque universale. Quando il film viene esportato, i cartellonioriginali con le didascalie vengono sostituiti da altri nella lingua del posto. Niente di più semplice, efficace, veloce ed economico. La faccenda si complica quando lo schermo comincia a blaterare. Sorvoliamo su alcuni tentativi, presto abbandonati, come girare tante versioni dello stesso film con attori diversi, ciascuno nella lingua del paese di destinazione. Lo star systemdi Hollywood aveva già reso popolari in tutto il mondo i suoi divi e dunque il pubblico voleva vedere quelli, non le loro pallide controfigure nazionali. Da subito, in molti paesi, dal Nord Europa all’America Latina all’allora immenso Impero Britannico inizia la pratica della sottotitolazione: nessun attore avrebbe mai accettato di rubarela voce a un collega. E in Italia? In Italia c’è qualcosa che si chiamaRegime Fascista.
5 – Italianizzazione forzata
Anche qui sorvoliamo su alcuni dettagli involontariamente comici, ma a suo tempo presi molto sul serio, come la proposta di Ugo Ojetti di italianizzare la stessa parola filmtrasformandola in filmo(sostantivo: «Sono andato al cinema e ho visto un bel filmo…»). La proposta, fortunatamente caduta nel vuoto, seguiva peraltro le direttive del Regimeche voleva l’italianizzazione forzata di ogni cosa. Stesso motivo per cui viene bandito il borghese leia vantaggio del fascistissimo voie vengono stravolti anche i toponimi. La valdostana Courmayeur diventa Cormaggiore (perché Cortemaggiore c’è già, in Emilia). Per non parlare dell’Alto Adige, esso stesso neologismo fascista al posto dell’antichissimo Südtyrol. Ma non divaghiamo e torniamo ai filmi, pardon: ai film. Sempre per il malinteso senso di tutela della lingua madre, con l’avvento del sonoro il Regime emana una leggeche vieta la distribuzione in Italia di pellicole in lingua straniera. A cominciare dal francese, studiato a scuola dalle élite, ma bandito al cinema. Già i film che varcavano le frontiere a causa della censura e della tassazione esorbitante (dovuta all’autarchia) erano pochi e anche quei pochi venivano adesso sottoposti a tale embargolinguistico. Per ottemperare alla legge, si creano gruppi di doppiatori improvvisati nei paesi di produzione, magari attori del posto di origine italiana, ma la qualità è scadente. Più facile, conveniente ed efficace ricorrere ad attori nel paese di destinazione, ossia in Italia. In tal modo si gettano le basi per la formazione della lobby che, a partire dal secondo dopoguerra, monopolizza il mercato attraverso società come Cdc (Cooperativa doppiatori cinematografici, poi Cdc Sefit Group), Sas (Società attori sincronizzatori) Cd (Cooperativa doppiatori) ecc.
6 – Dopoguerra e Neorealismo
Il scondo dopoguerra coincide anche con l’avvento del Neorealismo, una delle poche stagioni che hanno portato l’Italia all’avanguardia mondiale nell’arte cinematografica con autori come Visconti, Rossellini, De Sica-Zavattini e molti altri. Tra le novità propugnate dal movimento c’è l’abbandono dei teatri di posa per riprendere la vita veranelle città, nelle strade, nei cortili, in scenari autentici, non davanti a fondali di cartapesta. È la reazione al cinema dei telefoni bianchi, alla propagandafascista, all’estetismo. Con attoripresi dalla strada, ossia non professionisti, al posto delle belle statuine che popolavano i set. Il cinema cerca volti veri, come il Lamberto Maggiorani di Ladri di biciclette(1948) o il professor Carlo Battisti, indimenticabile Umberto D.(1952). Queste scelte estetiche, unite alla scarsità dei mezzi tecnici di ripresa del sonoro, fanno sì che i film neorealisti vengano quasi tutti doppiati in fase di postproduzione. Un assist formidabile alla lobby, che solo in rari casi resta a guardare. Come per La terra trema(1948), interpretato da veri pescatori di Aci Trezza (Ct) che recitano nel loro dialetto. In questo caso (come nel più tardo L’albero degli zoccoli, 1978, in dialetto bergamasco) il Soccorso Rosso arriva dai produttori. Spaventati dal possibile flop al botteghino per un film parlato in una lingua incomprensibile al di fuori della limitatissima area geografica di appartenenza, fanno doppiare i dialoghi in un italiano appena un po’ imbastardito da inflessioni o dialettismi. Giusto per dare un po’ di colore. Per il film di Olmi, fortunatamente, accanto alle copie storpiate, vengono distribuite anche copie originali sottotitolate. Per Visconti si deve invece aspettare il restauroeffettuato dal Csc (Centro Sperimentale di Cinematografia) e la pubblicazione in dvd. Campa cavallo…
7 – Arriva lo Zio Sam!
Il dopoguerra significa anche Piano Marshallper la ricostruzione del nostro (e altri) paesi sconfitti. Pochi sanno che tra i capitali erogati ci sono pure 600 milioni di dollaristanziati nel quinquennio ’47-52 per l’acquisto e la diffusione dei film americani. Una cifra esorbitante che lo Zio Sam ci elargisce affinché noi compriamo i suoi film. Davvero un bell’aiuto! È l’inizio della colonizzazionestelle&strisce del nostro paese che va di pari passo con l’asservimento militare e l’importazione di modelli e stili di vita made in Usa. Con il cinema, lo spettacolo di massa più diffuso, a fare da traino di quegli stessi modelli e stili. Le porte del nostro paese si spalancano così a film bloccati prima della guerra dalla censura fascista. Uno su tutti: Via col vento(1939), che in Italia esce nel 1949. Doppiati anche questi, sia per uniformità con i pochi arrivati prima, sia perché ormai la lobby ha tutto l’interesse a coltivare la pratica. Il risultato? Doppiaggi a oltranzae, soprattutto, a vanvera. Proprio Via col ventoè esemplare, per esempio, per l’assurdo linguaggio appioppato a Mamiche nell’originale aveva semplicemente l’accento del Sud, lo stesso del presidente Jimmy Carter, coltivatore di arachidi in Georgia, non quella parlata clownescafatta di verbi all’infinito e suoni gutturalitipo: «No, du mangiare fino uldimo boccone, capido!». Testuale, a Rossella che, per ripicca, rifiuta la colazione. Pensiamo, commossi, allo sforzo che una simile follia deve essere costata a Maria Saccenti, la neravoce nell’ombra di Hattie McDaniel, primo Oscar a un interprete di colore. L’autogol era talmente clamoroso che nel 1977 i fenomeni corrono ai ripari ridoppiando il film e questa volta Mami parla normalmente e declina persino i verbi. Se devo essere sincero, però, tra le due storpiature preferisco la prima. Al limite del surreale. Una perla, a suo modo.
8 – La regina del birignao
Il doppiaggio originale di Via col ventosi presta anche a molte altre considerazioni. Nel cast vocale(si fa per dire) compare il gothadegli storpiatori d’annata. Tre nomi su tutti: Emilio Cigoli (Clark Gable), un defilato Gualtiero De Angelis (Frank Kennedy, secondo marito di Rossella) e la regina del birignao, Lydia Simoneschi (Vivien Leight). Il figlio d’arte Cigoli è un vecchio marpione del teatro dalla voce pastosa e baritonale, coltivata con cura a dosi massicce di sigarette. Se c’è un personaggio in chiaroscuro la parte è sua. Anche se la voce originale di Gable è completamente diversa, molto più acuta, a volte persino stridula. Anche Lydia Simoneschi è figlia d’arte e rodata da anni di palcoscenico. Inconfondibile la sua voce nasale, quasi malata, perfetta per eroine destinate alla consunzione o al sacrificio, come appunto Scarlett O’Hara del film in questione. A prescindere dalla vocalità dell’attrice doppiata. De Angelis è l’equipollente maschile della Simoneschi. Voce calda, molto impostata, spesso stomachevolmente affettata. Anche lui inconfondibile al primo ascolto. C’è poi un’altra questione, più generale. Simoneschi e De Angelis sono anche i capostipiti di unatavico viziodel doppiaggio all’italiana: l’onnivorismo. De Angelis doppia decine di attori in centinaia di film: Henry Fonda, James Stewart, Kirk Douglas, John Carradine, John Wayne (sì, anche lui) e molti, molti altri. Lo stesso fa la Simoneschi: Susan Hayward, Bette Davis, Barbara Stanwych, Maureen O’Hara, Joan Fontaine, Olivia De Haviland, Deborah Kerr e via fagocitando. Ora, vi sembra normale che queste star della recitazione, con decine di Oscar in bacheca, abbiano tutte la stessa, medesima, identica voce? Dal biscazziere Carradine di Ombre rosse(1939), all’agente immobiliare Stewart della Vita è meravigliosa(1946), al povero musicista Fonda del Ladro(1956). E stiamo parlando di film di John Ford, Alfred Hitchcock, Frank Capra, non di B-movie! Piccola chiosa per Il ladro: da che ci sono, i fenomeni cambiano pure il cognome del protagonista da Balestrero in Ballister. Motivo? Tutelare la reputazione degli italoamericani. Ma si può?! E allora i film su Al Capone? Perché non cambiarlo in Bighead? Incomprensibile a ogni mente umana è poi il motivo per cui in Quarto potere(1941) di Orson Welles, caposaldo della storia del cinema, gli originali Rosebud(bocciolo di rosa) e Xanadu(la sfarzosa dimora di Charles Foster Kane il cui nome è ispirato alla mitica capitale di Kublai Khan, ripreso in un poema di Samuel Coleridge) diventano Rosabellae Candalù. Se mi apre vengo su.
9 – Finzione cinematografica
Che lo stesso doppiatore dia voce ad attori anche molto diversi tra loro quanto a timbro vocale, stile di recitazione, postura, metodo interpretativo è una vera aberrazioneche si è rafforzata nel tempo. Diventata per giunta motivo di vanto anziché di ludibrio. Generazione dopo generazione. Ai De Angelis-Simoneschi sono infatti seguiti Amendola (nel senso di Ferruccio) e Savagnone (nel senso di Rita) genitori (poi separati) del divo Claudio che, almeno in questo, ha sfalsato la razza. Per sua e nostra fortuna. Amendola senior significa Robert De Niro, Al Pacino, Peter Falk, Dustin Hoffman, Sylvester Stallone e la solita miriade di altri nomi. Come se tra Hoffman e Stallone non ci fossero differenze. Se scriviamo Savagnone dobbiamo leggere Ingrid Bergman, Elizabeth Taylor, Vanessa Redgrave, Diana Ross e l’italianissima Edwige Fenech, ma di questo parleremo dopo. Illuminante al proposito un aneddoto raccontato dallo stesso Claudio, avvenuto quando era uno scolaro. I suoi compagni sapevano che era figlio del famoso storpiatore di cotante starsicché quando il prode Ferruccio interpretò lo spot televisivo di un detersivo un ragazzino si rivolse a Claudio idicendogli: «Capisco che tuo padre dia la voce a De Niro, Hoffmann e Pacino, ma perché doppia anche quel buffone che fa la pubblicità del Vernel?». Ecco, il doppiaggio è questo. Oltre al fatto che, prima del divorzio, in casa Amendola erano solo liti e insulti per poi, davanti al leggio – non ancora d’oro – nell’ombra della sala di registrazione, le due voci modulassero paroline dolci, teneri cinguettii, appassionate frasi d’amore perché così prevedeva il copione, salvo poi tornare a scannarsi tra le mura domestiche. Se il cinema è finzione, il doppiaggio lo è… doppiamente.
10 – Attaccarsi al treno
A seguire con gli anni sono venute le generazioni dei Roberto Chevalier, ossia Tom Cruise, Tom Hanks, John Travolta ecc., Francesco Pannofino, ovvero Denzel Washington, George Clooney, Kurt Russell, Antonio Banderas e via storpiando, e Luca Ward che sfarfalleggia disinvolto da un Pierce Brosnan a un Russell Crowe a un Keanu Reeves. Il bello è che poi, come il mitico Amendola padre, molti di questi professionisti dell’inganno arrotondanocon la pubblicità sicché sentiamo, per esempio, la pastosa e inconfondibile voce dello storico Discorso del re(2010) Colin Firth (Luca Biagini) reclamizzare il cioccolato Novi. Una figata! Ma qui casca l’asino (il doppiatore). La pubblicità, che oggi è avanti anni luce rispetto al cinema, fa recitare i vari Jeremy Irons e George Clooney in inglese con la loro voce. E sottotitola gli spot. Così il telespettatore, notoriamente distratto, è costretto a guardare il teleschermo per capire cosa ha detto il bel George davanti a una macchinetta Nespresso. What else?Impariamo dalla pubblicità e mandiamo a casa i doppiatori. Alla peggio possono sempre attaccarsi, non al tram, ma a un Treno Italo, vero Pannofino?
11 – Storia di un menefreghista
Nella storia del doppiaggio italiano non mancano casi ancor più eclatanti di quelli, già di per sé abnormi, che abbiamo appena citato. Uno si chiama (si chiamava) Carlo Romano. Il Carletto nazionale è indissolubilmente legato al doppiaggio di Jerry Lewis, di cui è diventato una specie di alter-ego, e alla saga nazional-popolare di Don Camillo e Peppone, nelle corde vocali di Fernndel. Tutto ciò nonostante una fulgida carriera da ottimo caratterista durata 43 lunghi anni sui 67 della sua intera esistenza. Il peggio, però, Romano lo dava quando il suo personaggio non era il protagonista. Bastava infatti che in un film ci fosse un tipo un po’ sopra le righe, magari doppiogichista, per giunta grasso e sudaticcio, ed ecco Carletto all’opera con la sua voce da papero. Forzatae accentuataallo spasimo. Anche se l’originale era un baritono. Romano è riuscito persino a intrufolarsi nella camera di consiglio della Parola ai giurati(1957), film liberal di Sidney Lumet capace come pochi di rendere la plumbea atmosfera da caccia alle stregheche pervadeva gli Stati Uniti in quegli anni. Nella fattispecie il papero era Jack Warden, Giurato n.7, quello che ha fretta di concludere la seduta e mandare sulla sedia elettrica il ragazzo imputato di parricidio per non perdersi una partita. Secondo la logica demenziale dei direttori di doppiaggio, un bell’elemento del genere doveva avere una voce stridula e fastidiosa. Semplicemente insopportabile. Se si guarda il film in originale, ci si accorge che il Giurato n 7 è una persona normale, che non vuole fastidi, che ha altro da fare piuttosto che occuparsi delle sorti di un ragazzo: una banderuola, che vota colpevole o innocente in base all’aria che tira. Non tanto e non solo per la partita, quanto perché è semplicemente un menefreghista.
12 – Beethoven e la tarantella
Il caso dei casi, il supercaso, la supercàzzola si chiama però Oreste Lionello. O meglio, il Woody Allen di Oreste Lionello. I fautori sono soliti portare questo binomio come esempio specchiatodi doppiaggio e dei suoi fasti. Per di più con tanto di imprimaturdello stesso originale: il regista-attore americano che loda e osanna pubblicamente il suo (porta)voce italiano. Anche qui basta un semplice confronto e si capisce l’inghippo. Lionello, in realtà, non ha mai doppiatoAllen: ha sempre rifattoAllen. Alla sua maniera, come lo vedeva lui, come voleva che fosse. Tanto che, anziché parlare di Allen doppiato da Lionello bisognerebbe parlare di Oresdy Lionallen o, se preferite, di Wooreste Allenello. Il nostro eroe, infatti, reinterpretava, sovrapponeva alla maschera originale del comico yiddish quella che lui riteneva più consona al pubblico italiano. Con grande intuito e conseguente grande successo, gli va riconosciuto. E con grande profitto per il vero Allen, che non poteva certo lamentarsi. Peccato che tutto ciò si chiami caricatura. Come quando Lionello vestiva i panni dell’on. Andreotti al Bagaglino. Come se un direttore d’orchestra desse all’esecuzione della Nona di Beethoven la cadenza di una tarantella. Perché così piace di più alla gente.
13 – Nonnina giapponese
I mali più vistosi si hanno però in campo femminile. Parrebbe strano, ma è così. Ai vizi atavici ereditati dalla Simoneschi, tra le doppiatrici sembra essersi aperta da tempo un’accanita competizione a chi snatura di più l’originale. Gara commovente, degna peraltro di miglior causa. E qui, davvero, le nostre eroinenell’ombranon hanno rivali al mondo. Un caso per tutte, questa volta recentissimo. L’attrice giapponese Kirin Kiki, recentemente scomparsa, è l’anziana interprete-feticcio di molti film di Kore-eda Irokazu, ultima Palma d’Oro a Cannes con Un affare di famiglia(2018). Sulla stessa falsariga il maestro del Sol Levante ha girato anche Father and Son(2013) e Ritratto di famiglia con tempesta(2016) nei quali Kiki ha sempre il ruolo di nonna saggia, anche se un po’ bizzarra. L’attrice ha una voce piuttosto bassa e calda e, soprattutto, in tutti i film, parla come una persona normale. Incredibile, ma vero! Cosa fa invece, sempre e dovunque, la sua storpiatrice Graziella Polesinanti? L’esatto opposto: biascica le frasi, recita in falsetto, affetta ed enfatizza con un fastidiosissimo birignao melenso. In altre parole pargoleggiacome una povera demente: tanto è una nonnina giapponese!
14 – Il parlatore fantasma
Veniamo adesso all’aberrazione delle aberrazioni: doppiatori italiani che doppiano attori italiani. Dall’onnivorismo al cannibalismo. Dal cancro alle metastasi. Un organo che divora se stesso per poi riformarsi e divorarsi di nuovo in una degenerazione senza fine, senza fondo. Partiamo però da un caso specifico, un’eccezione che, in quanto tale, conferma la regola. Negli ultimi anni della sua carriera, Totò era doppiato da Carlo Croccolo. Motivo? Il principe della risataera quasi cieco, ma sul set si trasformava. Autentico animale da palcoscenico, si muoveva e recitava come se ci vedesse benissimo, tale e tanto era il suo istintod’attore. E pronunciava le battute. Per le già viste difficoltà della presa diretta del sonoro, negli anni ’50 i film erano doppiati dagli stessi interpreti in postproduzione. Cosa possibile solo a chi, seguendo le immagini sul monitor di servizio, vedeva quando era il momento di parlare al microfono del mixer in sincrono con il labiale. Per le sue condizioni, Totò non poteva farlo sicché si rendeva necessario l’intervento del ghost speaker- possiamo definirlo così? – Croccolo. Doppiaggio per necessità, verrebbe da dire. Con il consenso e il beneplacito del diretto interessato. L’unico ammissibile, a nostro avviso.
15 – Retaggio fascista
Ancora differente il caso, sempre a titolo d’esempio, di Franco Fabrizi doppiato da Nino Manfredi nei Vitelloni(1953). Anche qui, una voce inconfondibile appiccicata a un volto diverso, altrettanto inconfondibile: roba da orticariaacuta. Nei film di Fellini la cosa è peraltro più frequente che in altri autori perché il maestro riminese non riprendeva mai il sonoro in presa diretta, anche quando la tecnologia glielo avrebbe consentito. Il che comportava però il rischio che non tutti gli attori, per i loro diversi impegni, fossero presenti e disponibili in fase di postproduzione. A quel punto bisognava trovare il rimpiazzo. Ben diverse, invece, le motivazioni che spingono, come accennato, Savagnone a doppiare Fenech. Sorte toccata anche ad altre attrici: Claudia Cardinale, Elsa Martinelli, Silvana Mangano, Monica Vitti, Lucia Bosè e persino Sofia Loren, soprattutto all’inizio della loro carriera. Solo dopo essere diventate dive, hanno avuto la forza (anche contrattuale) di imporre la propria voce. Nel loro caso ha giocato una sorta di retaggio fascista di cultodella dizione impostata, standardizzata e teatraleggiante. Secondo questi criteri puramente astratti, le signore in questione non avevano voci appropriate: erano roche, con inflessioni, magari con un accento straniero. Il cinema anglosassone insegna invece che ciascun interprete recita con la propria voce. Quale che sia. Perché una persona – e quindi un attore – è quello che è: bello o brutto, con una voce suadente o stentorea, acidula o pastosa e nessuno ha il diritto di cambiargliela. Un atteggiamento che la dice lunga sull’invasivitàe l’assurditàdel doppiaggio. Figliospurioanche di un malinteso senso estetico.
16 – Il cortile di un manicomio
Vediamo adesso alcuni casi di film multilingui o nei quali i diversi accenti e le diversificazioni fonetiche fanno parte integrante del narrato. Che il doppiaggio annulla, rende incomprensibili se non ridicole o assurde. Tra i più eclatanti, Il disprezzo(1963) di Jean-Luc Godard, un tizio che ha inventato la Nouvelle Vague, non un ciabattino. In una scena il produttore Prokosh, interpretato da Jack Palance, parla (in inglese) allo sceneggiatore Paul Javal (Michel Piccoli) che è francese. Francesca Vanini (Giorgia Moll), la sua segretaria, traduce. Paul risponde nella sua lingua e lei ripete in inglese per il capo. E la cosa va avanti così alcuni minuti. Nella versione doppiata, tuttiparlano italiano. Palance dice qualcosa, Moll ripete le stesse frasi cambiando qualche parola e Piccoli risponde solo dopo aver sentito la “traduzione”. Sembrano tre mentecatti nel cortile di un manicomio! Casi più vicini a noi? Nella versione originale della Chiave di Sara(2012), incredibile a dirsi, a Parigi parlano francese, a New York inglese, a Firenze italiano. Nel doppiaggio, tutti, dovunque, parlano sempre e solo italiano. Così perdiamo anche l’occasione di apprezzare Kristin Scott-Thomas che recita, ottimamente, sia in francese sia in inglese. Vi presento Toni Erdman(2016) è una commediola ambientata a Bucarest, in una multinazionale tedesca. I tedeschi tra loro parlano tedesco (ma va!?) e i romeni romeno (pazzesco!!!) mentre quando sono insieme usano l’inglese. Che si inventano invece i nostri fini dicitori davanti agli aurei leggii in sala di doppiaggio? Fanno parlare tutti, sempre e solo in italiano. I romeni, però, conaccentu rumenu. Genialata! Frantz(2016) è girato in francese e tedesco e il bilinguismo è una cifra essenziale della vicenda, giocata su amore e amicizia tra il francese Adrien e i tedeschi Anna e Frantz. Prima e dopo la Grande Guerra. Nell’originale, francese e tedesco si alternano a seconda dei personaggi e delle situazioni essendo il francese, oltre che lingua madre di Adrien, anche la lingua segretausata tra loro da Anna e Frantz. Nel doppiato impazza solo l’italiano, a prescindere che gli attori usino il francese, il tedesco o che i due idiomi si alternino nel corso della stessa scena. Risultato: un guazzabuglio incomprensibile.
17 – Italo-francese
Quello dei falsi accentialla Toni Erdmanè un altro dei viziatavici (o meglio: spregevoli vezzi) del doppiaggio all’italiana. Già abbiamo visto Mamie relativi sfracelli, ma con il tempo le cose non sono migliorate, anzi! Il pranzo di Babette(1987) è recitato in danese da tutto il cast, eccetto la ciliegina francese Stephane Audran sull’austera torta luterana della comunità di bigotti dove la donna si è rifugiata. Anche qui, oltre a perdersi lo sforzo della protagonista di pronunciare qualche parola nella lingua locale, si devono fare i conti con l’insopportabile biascicamentodi Paila Pavese (epigona di Nino, Luigi&C.: Pavese dinasty) che condanna l’incolpevole Babette a un deliranteascento fransceseche non ha alcun riscontro nel parlato originale. Tanto valeva chiamare Audran a doppiare se stessa, come Fernando Rey nel Fascino discreto della borghesia(1972). Con il suo italiano, naturalmente “francesizzato”, sarebbe stata almeno più spontanea e credibile.
18 – Spezzatino innaturale
Altra aberrazione: l’aderenza al labiale. Per non farsi sgamare, i doppiatori devono adeguarsi il più possibile ai movimenti delle labbra della recitazione originale. Che ovviamente non coincide mai con le frasi dei dialoghi in italiano. Cosa ne deriva? Che salta l’impianto espositivo. Anche una frase molto semplice, tipo: «Ci vediamo domani alle 10, in stazione centrale» viene frammentata in uno spezzatino innaturale e assurdo, tipo: «Ci vediamo (pausa) domani alle (pausa) 10 in stazione (pausa) centrale». Ci avete mai fatto caso? Provate a badarci, magari ascoltando qualche minuto didialogosenza guardare lo schermo, e vedrete quante frasi sono stravolte. Però il labiale è salvo.
19 – Il mestiere dell’attore
In tutti i aesi anglosassoni e, più in generale, in quelli in cui la barbarie del doppiaggio è bandita, gli stessi attori considerano degradante, umiliante e antiprofessionale dare la propria voce a un collega, ovvero togliergli la sua. E se ne guardano bene dal farlo. Gli attori italiani no. Perché per loro il doppiaggio è una gallinadalle uova d’oro. Che non li impegna in set faticosi, dove recitano solo con la voce infischiandosene del contatto e del confronto con il pubblico. Gli attori italiani facciano gli attori, ossia recitino con la voce, ma anche con il volto, con il corpo, come è giusto che sia è come avviene in tutto il resto del mondo. Non abbiano falsi pudori e, anzi, abbiano la decenza di mostrarsi al pubblico per quello che sono. Compresi i calvi, gli obesi o gli storpi. Uno dei più serialikillerdelle voci altrui, Corrado Gaipa, a teatro recitava poggiandosi a un bastone per un difetto all’anca e nessuno aveva nulla da ridire. Semplicemente perché era bravo.
20 – In inglese per l’estero
Nel mercato ormai globalizzato del cinema, per ragioni commerciali e di distribuzione internazionale, sono sempre di più i registi italiani che girano film in inglese – vedi Youth(2015) di Sorrentino – e attori italiani che recitanoin inglese. Ma già in passato Gassman, Mastroianni, Alida Valli, Arnoldo Foà e molti, molti altri hanno recitato in inglese per autori come Robert Altman, Carol Reed, Orson Welles… Con risultati pari alla loro fama. Il caso emblematico più recente è L’estate addosso(2016) di Gabriele Muccino. Storia di due ragazzi italiani che dopo la maturità vanno negli Stati Uniti, a san Francisco. A parte qualche minuto iniziale, ambientato a Roma, dove i protagonisti parlano ovviamente italiano, tutto il resto del film, girato in America, è recitato in inglese e sottotitolato. Si arriva così all’assurdoche i nostri attori recitano in inglese per un potenziale pubblico internazionale, mentre da noi doppiano chi recita in inglese (o in qualsiasi altra lingua). Un paradosso alla Comma 22(1970): «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle azioni di volo. Ma chi chiede di essere esentato dalle azioni di volo non può essere pazzo».
Segue
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