Era ancora buio quando ho chiuso alle spalle la porticina di legno. Il grande portone della cascina sbarrato per la notte: dentro, l’aia addormentata; fuori, il carro che mi aspettava. Odore di vino dalla bocca di Battista e dalle botti stipate. Mi sono stretta nel tabarro che avevo appena rubato a mio nonno. Addio, perfido reggitore della mia casa e della mia vita. Poco dopo il gallo ha cantato. Non ricordo molto di quel viaggio, un po’ dormivo, un po’ guardavo per l’ultima volta i campi, le colline. Non mi sono mai voltata indietro a misurare la strada percorsa. Il fagotto con le mie poche cose era tutto quello che possedevo ora. E un foglietto stropicciato con un nome: “Osteria delle due Pernici”. Narciso l’aveva fatto scivolare nella mia mano mentre mi baciava dietro il carrozzone degli artisti.
«Ti aspetto a Milano, ho una stanza al Bottonuto. Cosa ci fa una regina come te qui, tra i campi e la filanda. Guarda come sono ridotte le tue mani. A Milano è tutto diverso, puoi cambiare la tua vita, puoi…»
Poi ci aveva trovati mio nonno. Il tempo di organizzare la partenza, solo mia madre ho salutato. In realtà il fagotto l’ha preparato lei: mi ha regalato il pizzo bianco che si passano le donne di famiglia e qualche soldo nascosto chissà come. Con un soldo ho pagato Battista, più per il suo silenzio che per il trasporto fino alla stazione di Brescia. Quel soldo anche per non essersi sentito in diritto di allungare la mano callosa sul mio corpo. Lui sì, vecchio gentile!
Prima di salire sul treno ho buttato in un fosso il tabarro, non potevo portare oltre la puzza di quel vecchio violento, lui che aveva preso in casa ciò che restava della mia famiglia dopo l’uccisione di mio padre. Gli assassini li aveva mandati il padrone delle terre che lui lavorava: troppo combattivo, mio padre, un sovversivo, un anarchico, robusto nelle braccia e svelto con le parole. Sapeva leggere e scrivere, sapeva contare, sapeva guardare negli occhi il padrone.
Quando ho visto il tabarro affondare pesante di acqua e fango, forse anche di urina, la locomotiva ha cominciato a sbuffare e io sono balzata dentro il vagone di terza classe. Il cuore mi batteva così forte che credevo di morire. Poi ho pensato a mio padre: insieme a lui ero salita per la prima volta sul treno. Era il giugno del 1880 e io compivo dieci anni.
“Questo è il progresso, mia piccolina! Niente può fermare il cammino dei popoli verso la libertà”.
Adesso capivo, adesso ero una donna verso la libertà. Improvvisamente mi è venuta una grande fame, così ho aperto il fagotto alla ricerca delle fette di polenta nascoste la sera prima. In un tovagliolo bianco annodato con cura era riposta non solo la polenta, ma anche qualche pezzetto di lardo, un’ala di pollo, due nespole, una manciata di giuggiole.
“Mamma…” ho detto sottovoce.
Poi ho visto il libro di mio padre, quello che gli era servito per imparare a leggere e scrivere alla scuola rurale, quello che lui leggeva e rileggeva nella stalla alla luce di mozziconi di candela. Quello su cui anch’io ero diventata una piccola scolara. Ho pianto di malinconia e di felicità.
Dopo un tempo insieme lungo e breve, ecco Milano.
“E ora dove vado? – mi dicevo -.E se non trovo Narciso? E se qualcuno mi aggredisce? E se…”.
Quanti dubbi e intanto i miei occhi rincorrevano come impazziti quel movimento vorticoso di persone, carri, omnibus, tram a cavalli, tram che andavano da soli. E poi rumori mescolati a un vociare di vetturini, venditori, donne e bambini.
Mi rivedo come dovevo apparire: una ragazza di campagna infagottata in poveri vestiti di panno nero, solo con lo scialle di lana sulle spalle a proteggermi dagli ultimi freddi di aprile e quel fazzoletto così stretto sulla testa da non lasciare uscire nemmeno un capello.
Più complicato raggiungere il Bottonuto: vicoli stretti e bui, odore penetrante nauseabondo di latrina e fritto, ressa di soldati affamati, uomini appoggiati mollemente agli angoli delle case, donne dipinte affacciate alle finestre.
Un soldato ubriaco ha cercato di prendermi per la vita mentre i suoi compagni battevano le mani ridendo. L’ho spinto via senza sforzo, del resto tante volte mi era successo con quel vecchio laido, mio nonno.
“Dove sono arrivata? Questa sarà la mia nuova casa? Narciso, dove sei?” mi chiedevo a voce bassa per farmi coraggio. Tra un mese avrei compiuto vent’anni ed ero completamente sola.
Si fa silenzio nella piccola stanza sotto i tetti. Il sole entra con la forza radiosa del giugno inoltrato. La donna con i capelli biondi depone la penna accanto al foglio vergato con una scrittura minuta e leggera. La ragazza bruna al cavalletto tiene tra le mani il pennello sospeso, in attesa. Entrambe guardano la giovane donna che ora tace.
“E poi?” sembrano chiedere i loro occhi.
“E poi cosa è successo alla tua vita, cosa hai fatto? E Narciso? Continua, ti prego: voglio scrivere la tua storia tutta intera!” la esorta la scrittrice.
“E io, per finire il tuo ritratto, ho bisogno di quella luce magica con cui i ricordi illuminano i tuoi occhi” insiste la pittrice.
Agnese sorride alle amiche, artiste improvvisate strappate momentaneamente al “Peocett”, il casino più frequentato del Bottonuto, posto sopra l’Osteria delle due Pernici. Ora si accompagnano a giovani e ardenti talenti della scapigliatura, socialisti rivoluzionari.
La sua storia la conoscono bene, ma non importa.
Poi, quando tutto continuava a essere troppo difficile e io mi sfiancavo a servire piatti e vino all’Osteria delle due Pernici in cambio di cibo scarso e una stanza sotto i tetti, a lavare panni sporchi in cambio di pochi soldi e di mani lunghe di padroni famelici, a rifare letti e svuotare bacili e pitali nel bordello, ecco quando tutto sembrava perduto, mentre camminavo per Milano ho sentito un grande coro di voci. Una fiumana di persone, uomini e donne, in cammino. Gente come me, povera. Le donne senza cappello, con vestiti di panno ruvido, come me. Fiume inarrestabile forte e continuo.
Era il 1° maggio 1891. Mi sono tuffata nella corrente e non mi sono più fermata.
Dalla strada arrivano voci di giovani uomini. Le due artiste salutano in fretta.
“Buona giornata cara, torniamo domani” dicono e sono già di corsa sulle scale.
Agnese accende il sigaro sfuggito al controllo dei sorveglianti all’uscita dal turno di lavoro alle Manifatture Tabacchi, aspira lentamente assaporando il frutto del suo lavoro. Raduna i fogli scritti. Anch’io posso scrivere questa storia e altre storie e pensieri e poesie. Anch’io lo so fare e bene, pensa con un moto di orgoglio.
Si avvicina al cavalletto. Una giovane donna sorridente la guarda: il pizzo di famiglia borda l’ampia scollatura dell’abito nero. Sui capelli, una piccola corona. È finito il tempo dei re e delle regine: solo uomini e donne in cammino.
Ricambia il sorriso.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.