Non sono mai stata bella. Questo è certo, ma so come valorizzarmi. Un nastro del colore giusto, appuntato sull’abito, così per caso, all’altezza dell’insenatura del seno, il cappello che ombreggia il viso e nasconde piccole imperfezioni e rende lo sguardo più malinconico. L’abito intonato al mio incarnato e che lascia intravedere la caviglia. So come muovermi con grazia, come sorridere e anche quando arrossire. Agli uomini piace tanto vedere le guance di una donna che s’imporporano. So quando parlare e soprattutto quando tacere.
È stata mia madre che mi ha insegnato tutto questo, giorno dopo giorno. A sedici anni ho già ricevuto tre proposte di matrimonio. Nata dopo tre figli maschi, Carlo, Edoardo e Ferdinando, ho risvegliato in lei la voglia di vivere. Mio padre più vecchio e un po’ malaticcio si occupava dell’educazione dei maschi, che consisteva nell’ottenere profitto dall’eredità lasciata dal nonno.
Non vivevamo nel lusso, ma per il decoro della famiglia tutti i mesi in casa c’era una festa. Quando ho raggiunto l’età del matrimonio, l’unico scopo nella vita di mia madre è stato quello di trovare un marito ricco per me.
Mi ero fatta tante idee sul mio futuro fuori dalle mura di casa. Viaggiare, avere un marito giovane e gentile e non come quelli che chiedevano la mia mano. Partecipare alle feste, e anche un poco più di libertà! Nell’attesa ricamavo e suonavo il pianoforte, di fronte alla vetrata che dà nel giardino. Mentre le mie mani si muovevano sulla tastiera guardavo i cespugli di rose, che mutavano col passare delle stagioni, lungo i viali che iniziano là in fondo al cancello d’ingresso della casa.
Stavo tentando di suonare Chopin quella mattina, riprendevo inutilmente a battere su quell’unico tasto, ma la nota continuava a uscire stonata. Alzai gli occhi e proprio in quel momento mi sembrò di scorgere in lontananza una figura maschile che avanzava lentamente con cautela, guardandosi intorno. Poi si nascose dietro il cespuglio di rose rosse. Non sapevo cosa fare. Cercai di alzarmi dalla sedia, ma, non so ancora perché, mi bloccai. Qualche istante dopo mio fratello Carlo scese le scale di corsa e senza guardarmi uscì dalla porta che dà nel giardino e si diresse verso il cespuglio di rose. Anche se sono curiosa, lo ammetto, restai bloccata in attesa di capire cosa stava succedendo. Passati cinque, dieci minuti o forse più, Carlo rientrò porgendomi due rose con un grande sorriso.
«Per te sorellina, suoni Chopin meravigliosamente» disse.
Sapevo che stava mentendo e che si sentiva a disagio di fronte a me. Con quei fiori mi chiedeva di stare zitta su quello che pensava io avessi visto. Non avevo nessun interesse a raccontare la cosa alla mamma e per me tutto sarebbe finito lì.
Quella sera a cena Carlo mi sembrò insolitamente loquace. L’argomento della conversazione tra maschi era quel Giuseppe Garibaldi andato ad abitare da qualche giorno a Villa Spinola, dicevano, per reclutare volontari. Mio padre, che per un po’ era stato zitto, si alzò e ordinò a mio fratello di tacere, gli rammentò che la guerra non ci riguardava e che l’argomento non era adatto alle donne. Carlo diventò rosso. Quel rossore mi fece capire che aveva in mente qualcosa. Lui era uno che si lasciava trasportare dalle passioni e spesso mio padre aveva dovuto imporgli l’obbedienza con la minaccia di diseredarlo.
Rivivo quella notte come se fosse ora. Uno strano suono, un uccello notturno, forse. Resto sveglia e ascolto, in attesa. Poi, quando credo di essermi sbagliata, sento dei passi leggeri nel corridoio e subito dopo il rumore del portone di casa che si chiude. Nell’armadio trovo un paio di pantaloni da uomo, li indosso insieme a una maglia. Una sciarpa rossa al collo. Prendo la mantella ed esco anch’io. Figure scure si allontanano lungo il viale verso la strada. Le seguo a distanza. Prendono i carruggi, camminano velocemente senza voltarsi, posso seguirle con facilità. Arrivata al mare, poco distante dalla scogliera, vedo due vecchi vapori a pale che sembrano pronti a partire. Alcune barche trasportano uomini. La luna tra le nuvole rischiara a tratti la scena. Scorgo un uomo alto con la barba, indossa un poncho chiaro che lascia intravedere la camicia rossa, un fazzoletto anch’esso di colore rosso al collo. Al fianco l’elsa di una spada che luccica nel buio. Controlla tutti gli uomini personalmente.
Non ho mai visto un uomo così bello, così forte. Il cuore mi fa un balzo. La luce della luna rischiara il suo volto. E vedo gli occhi azzurri intensi che incutono rispetto e timore. Vieni, sembra che mi voglia dire. Anch’io voglio andare con lui! Carlo dalla barca mi grida di tornare a casa. Sono allontanata da due uomini in camicia rossa. È notte fonda quel cinque maggio, quando i due vapori salpano per la Sicilia. Non rivedrò mai più mio fratello.
Rientro a casa che albeggia. C’è un silenzio pesante. Mio padre mi guarda e poi si allontana senza dire niente, con le spalle ancora più curve. Resto sola con mia madre. Anche lei tace. Per un mese il dialogo è a monosillabi. Poi, una mattina mi comunica che ha scelto il marito per me. Lo vedo una sera in un breve incontro. È brutto, vecchio e cisposo. Mi sposo poco tempo dopo. Nasce mia figlia. Mio marito dopo il parto si fa vedere nella mia camera ancora per due volte, poi basta. Non m’importa. Di lui non ricordo più nulla.
Ricordo però gli occhi del Generale. E adesso che tocca a me scegliere il marito per mia figlia, lo cercherò tra i figli di quella notte, tra chi ha lo sguardo del mio Generale.
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